SOCIETÀ

Perché a Glasgow è stato dimenticato il tema dei rifugiati climatici?

I conflitti sono certo la più nota origine di migrazioni forzate di noi sapiens. Mai l’unica però. Accanto alle guerre e alle persecuzioni politiche, storicamente l’altra grande forza di costrizione è stato il contesto climatico ambientale, da qualche decennio lo chiamiamo sviluppo insostenibile. Parliamo di eventi nefandi, scientificamente comprensibili, che sconvolgono convivenze civili, provocano danni alla vita e alle attività di donne e uomini, inducono talvolta a spostarsi e in qualche caso proprio a migrare. La residenza delle vittime in quei luoghi è manomessa e molto dipende dall’intensità di alcuni disastri improvvisi o dalla progressione e inesorabilità di altri più lenti (che rendono alla fine obbligatorio l’abbandono delle case e dei luoghi di residenza). La biforcazione essenziale riguarda quelli idrometeorologici(inondazioni, cicloni, tempeste, temperature estreme, siccità, incendi violenti, talora anche valanghe e frane) e quelli geofisici (terremoti, eruzioni, tsunami, talora anche valanghe e frane).

Antichi e moderni sistemi di prevenzione, allarme, evacuazione hanno qualche volta limitato i danni e gruppi e popolazioni hanno imparato a conviverci, a riconvertire tecniche di costruzione e residenzialità, a ridurre gli impatti, a evitare morti e ferite, a produrre disaster resilience. E, d’altro canto, le crescenti fughe da siccità e desertificazioni sono proprio l’emblema di una perduta capacità resiliente degli ecosistemi come conseguenza dei comportamenti umani. Al clima sono sempre più connessi disastri che vengono definiti biologici, come le epidemie e le infestazioni. Comunque, fra i disastri non geofisici, improvvisi o lenti che siano, circa il 90% dipende da cambiamenti climatici.

Comparare migranti forzati da persecuzioni e guerre e migranti forzati da eventi diversi è difficile, in passato come nel presente. Oggi si conosce grazie a Unhcr ogni anno la cifra dei primi (che non può essere sommata a quella dell’anno precedente perché la maggior parte restano gli stessi), mentre calcolare l’esatta cifra dei secondi è lento e complicato. Se adottassimo le stesse regole statistiche dei refugees (contare quelli che ogni anno sono restati fuori dalla patria a prescindere da quanto tempo prima l’abbiano dovuta abbandonare), la cifra dei secondi risulterebbe comunque superiore a quella dei primi.

Dall’inizio degli anni Novanta vari autori e organizzazioni (la stessa Unhcr) hanno tentato di stimare i migranti ambientali sulla base di classificazioni sempre più sofisticate. I numeri emersi e verificati segnalano la notevole dimensione (superiore a quella dei rifugiati politici) e una crescita esponenziale. Sarebbe certo stato opportuno distinguere migranti e profughi ambientali da sfollati e profughi climatici, ponendo la questione dei primi all’interno della lotta contro le disuguaglianze espressa dall’Onu con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile 2016-2030 e dei secondi nel negoziato climatico 2016-2030. Per ora non è andata così (nonostante i Global Compact approvati nel 2018 e un cenno nell’Accordo di Parigi della Cop21 del 2015). E non è andata bene neppure alla Cop26 di Glasgow, purtroppo.

La questione delle migrazioni indotte dai cambiamenti climatici è stata trattata da tutti i rapporti Ipcc fin dal 1990 ed è stata introdotta nel negoziato climatico con brevi cenni nell’accordo finale della Cop16 di Cancun nel 2010, poi nella decisione relativa al “Loss and damage” della Cop19 di Doha nel 2013, infine alla Cop21 con la creazione di una vera e propria task forse “on Displacement” sotto il Comitato esecutivo (Excom) del Warsaw International Mechanism (WIM). Nell’accordo approvato a Parigi il 12 dicembre 2015 (oltre a un riferimento ai diritti dei migranti nel preambolo) risalta tale riferimento ai delocalizzati, ancora breve ma finalmente operativo. In teoria. Al paragrafo cinquanta si stabilisce una task force per unire tutte le componenti coinvolte al fine di sviluppare raccomandazioni per approcci integrati che scongiurino, minimizzino e indirizzino lo spostamento di persone dovuto agli impatti del cambiamento climatico. Eravamo soltanto all’avvio di un gruppo di lavoro e a raccomandazioni, si iniziò a lavorarci all’inizio del 2016, ma si è andati avanti poco o niente, peccato!

Nel bilancio della Cop scozzese sono stati evidenziati vari aspetti. Il bilancio nel cammino di lungo periodo è scadente; il bilancio contingente è da bicchiere mezzo vuoto o pieno (come al solito); il bilancio di ogni singolo paese e di ogni ministro pro-tempore sempre ridicolmente autoreferenziale e modesto: come si fa a dar torto ai minorenni di oggi e a Greta Thunberg? Inoltre, si tratta di una macchina immensa, di milioni di costi, di centinaia di migliaia di funzionari dedicati, di mille sottonegoziati, impossibile evidenziare tutto. Pochi comunque si sono occupati dello stallo su rifugiati e migranti climatici. Per esempio, nessun passo in avanti è stato fatto sulla creazione del Loss and damage facility, ovvero del fondo per aiutare le comunità vulnerabili dei paesi più poveri a far fronte a danni e perdite dovuti ai disastri climatici, in modo da consentire una rapida ricostruzione e ripresa economica dei territori colpiti, evitando così anche il preoccupante aumento dei profughi climatici

La questione è risuonata a Glasgow in svariati interventi dalla tribuna e in iniziative parallele, nelle manifestazioni esterne alla conferenza e in articoli di giornali. In particolare vi hanno fatto drammatico riferimento i rappresentati governativi delle piccole isole Stato. Fra l’altro è stato sottolineato che quasi l’80% dei profughi climatici a livello globale sono donne. Vi sarebbero state e vi sarebbero misure internazionali da negoziare all’interno del sistema Onu per assistere chiunque si trovi a subire l’onta di dover considerare non più ospitale il proprio amato territorio causa cambiamenti climatici antropici. Dovremmo immaginare politiche sull’assistenza e la protezione nell’emergenza, sulle vie legali di migrazione, su programmi di migrazione temporanea, circolare o stagionale, sulla valorizzazione dei benefici in termini di rimesse e riconversione. La disuguaglianza nel diritto alla mobilità e al migrare mina una libertà individuale e collettiva sancita dalla Dichiarazione universale.

L’Unhcr non si occupa né può occuparsi dei profughi ambientali e degli sfollati climatici, però ha messo da decenni giustamente nelle proprie linee guida di assistenza il principio secondo cui, se non si supera il confine del proprio paese, i campi possono accogliere anche profughi di disastri naturali e il loro numero costituisce una parte degli effettivi rifugiati climatici già esistenti. Una persona in fuga può a un certo punto, se è riuscita a sopravvivere, continuare a fuggire, sconfinare e arrivare nei paesi limitrofi, attraversarli, migrare. Molti di coloro che cercano di attraversare il Mediterraneo non sono refugees e richiedenti asilo. Sono donne e uomini, spesso bambine e bambini, anche non accompagnati, in fuga da conflitti e disastri che scappano, poi forse sopravvivono, poi forse si imbarcano e, se non naufragano, arrivano in un punto di partenza per una nuova vita, chissà dove. Fra di loro molti hanno cominciato a fuggire dai cambiamenti climatici.

Occorre distinguere i rifugiati con status riconosciuto (o riconoscibile quando chiedono asilo) dagli altri migranti forzati; poi assistere ogni profugo per un certo lasso di tempo e dotare di uno specifico status i rifugiati climatici. Il negoziato climatico avrebbe dovuto appunto definire il modo in cui riconoscere attuali e futuri rifugiati climatici. C’è, infatti, una differenza sostanziale fra i cambiamenti climatici contemporanei e i cambiamenti climatici dei milioni di anni e migliaia di anni del passato. Entrambi sono ovviamente all’origine di ingenti migrazioni, in realtà all’inizio dello stesso popolamento ubiquitario e meticcio del pianeta da parte di Homo sapiens. Tuttavia, oggi che abbiamo reso umano ogni ecosistema, ogni lembo di terra e di mare, siamo noi con le nostre attività ad aver indotto fenomeni che provocano i cambiamenti sotto l’atmosfera terrestre. I cambiamenti climatici contemporanei sono prevalentemente antropici e globali: secondo un recente studio della rivista Nature Climate Change almeno l’85% della popolazione mondiale ha subito un qualche effetto o conseguenza dalle attività umane clima alteranti.

In poco più di dieci anni sono già stati centinaia di milioni gli sfollati climatici, il 2020 non è stato da meno, il 2021 non sarà da meno, pur con il Covid-19. L’istituzione internazionale che contabilizza le persone displaced (Idmc) distingue quelli da conflitti (conflict) da quelli da disastri (disaster) e fa riferimento solo a quanti fuggono ma restano nel proprio paese. Da decenni sono più i secondi dei primi, tutti rifugiati profughi sfollati, tutti bisognosi di assistenza immediata e di futuro nuovo. Ora qui ora là, ora adesso ora tra poco devono fare i conti con eventi improvvisi (estremi) o con processi più lenti come la crescente scarsità d’acqua potabile (dove ce n’era già poca), la diminuzione della produttività delle colture, l’innalzamento del livello del mare.

La terminologia scientifica e gli scenari dell’Ipcc possono aiutarci a prevedere tempi e numeri. Assumiamo la data scientificamente più motivata e prossima, il 2050 (poco più di una generazione, Greta ha ragione, chi nasce adesso sarà forse allora un decisore in grado di valutare se abbiamo deciso bene). In base al verificarsi dei vari scenari Ipcc potranno esserci fra 200 milioni e un miliardo di profughi climatici, il minimo è comunque superiore alle attuali e prevedibili persone con lo status di rifugiati politici. E gli scenari non tengono conto delle dinamiche economiche e sociali, sia di quelle non risolte dalla possibile eventuale riduzione delle emissioni di gas serra, sia di quelle non risolte dai possibili eventuali adattamenti ai cambiamenti climatici.

Il secondo rapporto Growndshell della Banca Mondiale ha ipotizzato a settembre 2021 inevitabili migrazioni forzate dagli effetti del cambiamento climatico: almeno 216 milioni di persone entro il 2050, soprattutto dall’Africa sub-sahariana e dall’Asia orientale. Stante il ritmo attuale (oltre 20 milioni nuovi sfollati climatici di media ogni anno) potrebbero poi essere di più, anche nello scenario migliore di mitigazione e adattamento. Secondo un Rapporto globale redatto da Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, diffuso il 18 marzo 2021, in soli sei mesi, tra settembre 2020 e febbraio 2021, sono stati più di 10 milioni gli sfollati a causa dei disastri climatici: inondazioni che hanno spazzato popolose aree costiere, siccità che hanno privato famiglie e residenti dei mezzi minimi di sussistenza, vari altri fenomeni che hanno innescato migrazioni forzate. Il continente dove si concentrano di più i disastri negli ultimi mesi è l’Asia, è qui che si trova circa il 60% degli sfollati complessivi.

Quanto accaduto a luglio 2021 in Indonesia e Cina, a fine ottobre 2021 in Sicilia, Calabria, Algeria e Tunisia non sono casi eccezionali. Ogni mese ha i suoi luoghi, le sue date, i suoi morti, i suoi tanti sfollati. I cambiamenti climatici hanno dunque superato le guerre come causa di migrazioni forzate. Si prevede che possano essere anche oltre il miliardo le persone che dovranno affrontare migrazioni forzate entro il 2050 a causa sia di conflitti che di fattori climatici, secondo un rapporto dell’Institute for Economy and Peace pubblicato lo scorso anno. Ovvio che si debba subito, ora (siamo già in netto colpevole ritardo) trovare gli strumenti istituzionali internazionali per gestire sia le migrazioni più libere (indispensabili soprattutto alle nuove generazioni di ogni stato e continente) sia le migrazioni forzate quando non possano essere preferibilmente prevenute.

Per evitare confusione con la Convenzione Onu del 1951 sui Refugees si adotta per gli sfollati “interni” ai paesi la traduzione inglese del termine generale: (Internally) Displaced People. Va bene, lasciamo il sostantivo Refugee solo alle persone riconosciute dalla Convenzione di Ginevra e ai palestinesi. Per gli altri parliamo di sfollati, sia interni (contabilizzati dall’Unhcr sulla base dell’Idmc) sia internazionali (da tutelare tramite Global Compact e Convenzioni globali), per alcuni e solo per loro aggiungendo l’aggettivo collegato ai cambiamenti climatici antropici globali, insomma sfollati o profughi o rifugiati climatici, coloro che subiscono gli effetti del riscaldamento del pianeta (innalzamento del mare, aumento di frequenza e intensità di eventi meteorologici estremi, stress idrici) senza aver nemmeno contribuito a causarli con proprie emissioni, persone a cui manca per ora ogni protezione internazionale.

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