corallo rosso
Il mar Mediterraneo costituisce uno dei cosiddetti hotspot di biodiversità marina, cioè un ambiente, la cui conservazione viene minacciata dall’attività umana, caratterizzato dall’elevata presenza di specie endemiche. Una di esse è il corallo rosso (Corallium Rubrum), un anthozoa che ha subìto una drastica riduzione della propria diffusione negli ultimi decenni. Uno studio dell’istituto di scienza e tecnologia ambientale dell’università di Barcellona (ICTA-UAB), tuttavia, porta con sé un messaggio di speranza, mostrando come, nelle aree protette del mare, questo animale stia dando segnali di una parziale ripresa.
Il corallo rosso è un organismo tanto delicato quanto fondamentale per l’habitat mediterraneo. Prende parte, infatti, alla formazione del coralligeno, la comunità di organismi calcarei bentonici, che offre protezione ad altre specie, e assimila il carbonio, i cui livelli crescono a causa delle attività umane, presente in acqua. Ha, però, un basso tasso di crescita e di riproduzione e, per prosperare, ha bisogno di parametri ben precisi, come una temperatura costante, la salinità dell’acqua compresa tra il 28‰ ed il 40‰ e un’illuminazione tenue. Alcuni di questi parametri, in particolare temperatura e salinità, stanno cambiando sempre più rapidamente, con gravi conseguenze per la sopravvivenza di questa specie.
Come se non bastasse, l’attività antropica ha sempre avuto un forte impatto su questo animale. È noto che per migliaia di anni l’uomo ha raccolto e sfruttato il corallo, detto anche oro rosso, per scopi commerciali e per la produzione di gioielli, ricavati dai bracci corallini più grossi, che sono quelli con più alto potenziale riproduttivo. Ciò ha reso le popolazioni meno feconde e sempre più piccole, con conseguente calo della capacità di svolgere il proprio ruolo ecologico, in particolare l’assimilazione del carbonio, con gravi conseguenze per l’intera biodiversità dell’ecosistema marino.
Per questi motivi il suo prelievo è stato regolamentato e oggi si stima vengano raccolte circa 40 tonnellate all’anno, rispetto alle 450 degli anni ’70. Ciononostante il prelievo illegale, il bracconaggio e il riscaldamento del mare rendono ancora difficile la ripresa dell'animale. L’IUCN (International Union for the Conservation of Nature) lo colloca sotto la categoria “in pericolo”, avendone registrato una riduzione superiore al 50% negli ultimi 50 anni.
Una buona notizia, tuttavia, arriva dal team guidato da Miguel Mallo, che ha riscontrato una ripresa delle popolazioni situate in aree protette del Mediterraneo. Se il decennio 1990-2000 ha registrato i livelli minimi di diffusione dell’organismo, oggi, al largo della Catalogna, la crescita osservata ha portato l’anthozoa ai livelli registrati negli anni ’80, mentre nel mar Ligure la situazione sembra essere tornata come quella degli anni ’60.
“Questi dati vanno presi con cautela – commenta l’autore – poiché si basano solo su una parte dell’intera popolazione presente in queste regioni. Negli ultimi decenni, gli studi eseguiti e le informazioni raccolte si sono concentrati nelle poche aree marine protette, ma al di fuori vi sono molte colonie, poco studiate per il momento, che si trovano in uno stato di salute estremamente precario”.
Questa notizia porta con sé un messaggio di speranza, ma anche di consapevolezza delle responsabilità umane, rendendo, ancora una volta, evidente l’urgente bisogno di prendere misure di protezione in ambienti delicati come il mar Mediterraneo. È fondamentale attuare dei piani di conservazione e di recupero per gli ecosistemi, messi a dura prova dai cambiamenti climatici e dallo sfruttamento antropico, ma questi devono essere messi in atto il prima possibile.