SCIENZA E RICERCA

Cosa sappiamo sulla variante inglese di SARS-CoV-2

Sono ormai più di 40 i Paesi del mondo, tra cui l’Italia, che hanno bloccato i voli o i collegamenti di viaggio con il Regno Unito dopo l’allarme per la nuova variante di SARS-CoV-2 che doterebbe il virus di una maggiore capacità di trasmissione, quantificata dal primo ministro inglese Boris Johnson nel 70% in più rispetto al ceppo predominante. 

L’Organizzazione mondiale della sanità, attraverso il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha rassicurato che “non ci sono elementi per ritenere che provochi conseguenze più gravi o sia più mortale” e ha ricordato che il fatto che i virus mutino nel tempo “è naturale ed è una cosa prevista” e che, proprio per questo motivo, è necessario “bloccare la trasmissione di tutti i virus SARS-CoV-2 il più presto possibile. Più consentiamo la diffusione, più ha la possibilità di mutare”.

 

Parole che vanno nella stessa direzione di quelle espresse da Mike Ryan, capo delle emergenze della stessa Oms, e che non confermano quanto detto dal segretario alla sanità del Regno Unito, Matt Hancock, che aveva riferito di una “situazione ormai fuori controllo”.

La maggiore capacità di diffusione della nuova variante del virus, denominata B.1.1.7, è però soltanto una delle ragioni alla base dell'apprensione internazionale. Il ceppo è caratterizzato da ben 17 diverse mutazioni e la paura è che alcune di queste, intervenendo sulla proteina Spike, possano interferire con l'efficacia del vaccino, proprio nel momento in cui anche l'Ema ha dato il via libera al prodotto sviluppato da Pfizer/BioNTech e l'arrivo delle prime dosi è atteso in tutta l'Ue nell'arco di pochi giorni. Al riguardo Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità ha definito, "altamente improbabile" l'eventualità che la nuova variante di SARS-CoV-2 mostri "resistenza in termini di formazione di un'immunità" e secondo Massimo Galli, infettivologo dell'ospedale Sacco di Milano, la profilassi in arrivo proteggerà anche contro il ceppo inglese anche se, in generale, bisogna essere capaci di seguire le variazioni del virus

Uno studio preliminare realizzato da alcune università britanniche ha evidenziato che sono tre le mutazioni che potrebbero avere "effetti biologici" sul comportamento del virus. In particolare N510Y altera la parte più importante della proteina Spike, il receptor-binding domain, e aumentando l'affinità con il recettore ACE2 tende a favorire la capacità di ingresso del patogeno nelle cellule umane. La mutazione 69-70del potrebbe invece rendere meno efficace la risposta del sistema immunitario, soprattutto tra le persone immunodepresse, ed è già emersa diverse volte, tra cui nel caso dei visoni infetti. Meno note sono invece le potenziali conseguenze di P681H, immediatamente vicina al sito di scissione della furina. 

La variante inglese è stata rilevata per la prima volta in Inghilterra a settembre. A novembre, riporta la Bbc, era già responsabile di circa un quarto dei casi registrati a Londra e a metà dicembre si era diffusa fino a rappresentare i due terzi dei contagi totali. Secondo quanto ricostruito finora il ceppo è già presente anche in altri Paesi del mondo, seppure con un'incidenza minore, e anche in Italia, dove al momento l'unico caso accertato riguarda una donna di 42 anni che è rientrata a Roma dal Regno Unito nei giorni scorsi e che adesso è in isolamento, è partito il tracciamento di migliaia di cittadini che potrebbero essere positivi alla variante britannica del SARS-Cov-2.

Non c'è nulla di inaspettato nel fatto che un virus possa mutare: la variante che ha investito l'Europa durante la prima ondata della pandemia era già diversa da quella di Wuhan e, anche se SARS-CoV-2 ha un meccanismo di correzione del genoma che tende a renderlo più conservativo, in ogni processo di replicazione possono avvenire dei cambiamenti. Si arriva però a parlare di nuovo ceppo virale solo quando la mutazione riesce a trasmettersi nelle generazioni successive e arriva a produrre differenze significative . 

D614G, la variante che è diventata dominante nel nostro continente, è caratterizzata da una maggiore capacità di diffusione, ma non da un impatto più grave in termini di decorso clinico della malattia. Adesso occorrerà quindi studiare più approfonditamente il ceppo inglese e tenerlo sotto controllo perché, anche se non sembra collegato a una maggiore gravità della malattia, il fatto che possa avere una trasmissibilità molto marcata rischia di incidere in maniera pesante sulla tenuta dei diversi sistemi sanitari. 

Andando a guardare più da vicino la variante inglese VUI 202012/01 (Variant Under Investigation year 2020 month 12 variant 01), o ceppo virale B.1.1.7, vediamo che è composta da una serie di mutazioni.

In termini evoluzionistici si dice che la mutazione propone e la selezione dispone. In qualsiasi essere vivente autoreplicantesi si presentano nuove mutazioni nel corso delle generazioni; tuttavia solo una piccolissima parte di queste risulteranno adattative, la maggior parte saranno neutrali, alcune addirittura nocive per l’organismo portatore e dunque non saranno preservate nel tempo.

Nel caso del virus Sars-CoV-2, una mutazione adattativa gli permette di fare meglio il proprio lavoro, ovvero replicarsi all’interno delle cellule umane. Mano a mano che noi dispieghiamo armi contro il virus (farmaci, vaccini e misure di distanziamento e prevenzione) il virus a sua volta andrà nella direzione di resistere alle nostre difese, in una serie di mosse e contromosse che è nota come corsa evolutiva agli armamenti (evolutionary arms race).

Sars-CoV-2 è un virus a Rna tutto sommato abbastanza stabile, ovvero che tende a non mutare molto. In tutto possiede circa 30.000 nucleotidi e da quando abbiamo iniziato a studiarlo un anno fa, si stima abbia accumulato circa due mutazioni al mese e in media poco più di 20 mutazioni rispetto alla variante di Wuhan sequenziata a gennaio. Ciò non significa che in questo arco di tempo il virus è mutato solo in 20 posizioni del genoma, significa piuttosto che di tutte le mutazioni che il virus ha subito solo poco più di 20 in media si sono fissate nella popolazione virale.

La più celebre e diffusa ad oggi è D614G, che probabilmente fornisce un vantaggio al virus, in quanto modifica leggermente la conformazione della proteina Spike e ne facilita l’adesione al nostro recettore ACE2, rendendo il virus più facilmente trasmissibile rispetto al virus privo di questa mutazione.

Anche la variante inglese contiene D614G, ma oltre a questa presenta una serie di altre mutazioni che la contraddistinguono, alcune delle quali hanno caratteristiche che varrà la pena monitorare.

Innanzitutto la variante inglese presenta in totale 29 mutazioni rispetto al ceppo originale di Wuhan, dunque un numero superiore rispetto alla media di mutazioni stimate finora, si legge nel rapporto dellECDC del 20 dicembre, e 17 di queste mutazioni sono specifiche del ceppo B.1.1.7.

La mutazione N501Y ad esempio modifica il sito di legame (Receptor Binding Domain - Rdb) della proteina Spike rendendola più affine al recettore ACE2. È ancora presto per dire però se l’aumento dei casi nel Regno Unito registrato nelle ultime settimane sia dovuto a questa mutazione o ad altre dinamiche epidemiologiche, come ad esempio la densità delle grandi città in cui si è presentata.

Un’altra mutazione, la delezione 69-70, potrebbe aiutare il virus a schivare gli anticorpi prodotti dal nostro sistema immunitario, mentre la mutazione P681H potrebbe facilitare l’ingresso del virus nelle nostre cellule tramite un altro meccanismo che coinvolge la furina, un enzima della famiglia delle proteasi.

Le singole mutazioni presenti nella variante inglese tuttavia non sono una novità per chi studia l’evoluzione di Sars-CoV-2. La maggior parte infatti era già stata individuata nei mesi scorsi in altre parti del mondo, come India, Brasile, Stati Uniti, Sud Africa. È anche per questo che sappiamo come modificano la morfologia del virus. Trovarle tutte insieme invece in un unico ceppo è la novità costituita dalla variante inglese.

Inoltre il Sud Africa ha riportato che in ottobre ha avuto una rapida crescita della diffusione di una variante virale che contiene la stessa mutazione N501Y, ma oltre a questa altre due mutazioni del sito di legame (Rbd) della Spike e altre mutazioni ancora. Questa variante sud africana è stata trovata nel 90% dei campioni analizzati in Sud Africa a metà novembre e, si legge nel rapporto ECDC, non sembra avere uno stretto rapporto di parentela evolutiva con la variante inglese. Sarebbe quindi emersa in modo indipendente, il che dimostrerebbe che la comparsa di varianti virali di successo adattativo, cioè che tendono a diffondersi rapidamente, potrebbe non essere un fenomeno raro.

Per scovare dunque queste varianti virali che tendono a diffondersi facilmente e per capire se possano effettivamente costituire un rischio sanitario, è necessario fare molti sequenziamenti dei genomi virali campionati.

Ad oggi sono stati sequenziati circa 275.000 genomi di Sars-CoV-2 in tutto il mondo, disponibili sulla piattaforma GISAID. Il Regno Unito ha un consorzio, COG-UK, che si occupa del sequenziamento del genoma di Sars-CoV-2 e che è composto da diverse istituzioni sanitarie nazionali e dal Wellcome Sanger Institute, uno dei più importanti istituti di genomica al mondo, situato poco fuori Cambridge. Ad oggi il consorzio inglese è di gran lunga il maggior contributore di sequenziamenti genomici, con circa 125.000 genomi virali caricati su GISAID.

I dati riportati sul COVID-19 CoV Genetics browser, un’iniziativa lanciata a settembre da un gruppo di ricercatori di Harvard che riunisce e riorganizza i dati condivisi su GISAID, mostrano in una mappa il numero di sequenziamenti che vengono fatti Paese per Paese ogni 1000 abitanti.

Questa classifica vede in testa Paesi come l’Australia, la Nuova Zelanda, la Danimarca, l’Islanda, che fanno persino meglio del già citato Regno Unito. Per trovare l’Italia bisogna invece scendere verso il fondo della classifica. Ogni 1000 casi di CoVid-19 identificati, l’Australia sequenzia 469 genomi di Sars-CoV-2, la Nuova Zelanda ne sequenzia 346, la Danimarca 93, l’Islanda 91, mentre l’Italia ne sequenzia 0,422.

L’Italia ha caricato su GISAID meno di 1000 sequenze virali. Ciò significa che se anche dovesse esistere un'eventuale “variante italiana” non saremmo in grado di vederla, perché i dati genomici non sono sufficienti.

Secondo il biologo Enrico Bucci, “Se si comincia davvero a guardare, in ogni Paese è possibile identificare “varianti emergenti” del virus; è nella natura della dinamica virale che nuovi genomi appaiano, prendano il sopravvento per competizione diretta con gli altri, e poi eventualmente spariscano”.

E come fa notare il ricercatore del dipartimento di scienze della vita dell’università di Trieste Marco Gerdol, è ancora troppo presto per dire se la variante inglese possa generare problemi all’efficacia dei vaccini: su questo ad oggi non esistono dati. È invece opportuno monitorare l’andamento dei contagi e stabilire se alla variante inglese sia possibile associare un indice Rt più elevato.

Quello che si può dire è che la comparsa di queste varianti non è né una novità né un evento inatteso. La Repubblica Ceca a ottobre era stata investita da un forte aumento dei contagi. In questa ondata epidemica una mutazione, N439K, è stata trovata in più del 70% dei casi positivi in Repubblica Ceca. Anche N439K era nota per avere proprietà di immune evasion, ma in quell’occasione non si è parlato di “variante ceca” del virus.

“E se in Bulgaria, uno tra i paesi europei che sta vivendo in questa seconda ondata l’eccesso di mortalità maggiore, fosse anche emersa una “variante bulgara” più letale non potremmo saperlo (e preoccuparcene). Perché la conta dei genomi sequenziati in Bulgaria negli ultimi mesi è ancora pari a zero” fa notare Marco Gerdol, mentre nel Regno Unito “la sorveglianza molecolare è sempre stata, sin da marzo, una priorità”.

In altri termini se abbiamo trovato la variante inglese è perché lì siamo andati a cercarla, lì abbiamo un punto illuminato. Quello che succede nelle zone d’ombra non lo sappiamo.

Quello che però sappiamo è che in linea di principio alle nostre mosse di difesa contro il virus risponderanno contromosse da parte dello stesso virus: è la corsa evolutiva agli armamenti, bellezza. Per combatterla, dobbiamo ricorrere a tutti i mezzi necessari e forse, in alcuni Paesi, tra cui il nostro, quello del sequenziamento genomico non è stato sfruttato al meglio.

Abbiamo chiesto all'immunologa Antonella Viola, docente del dipartimento di Scienze biomediche dell'università di Padova e direttrice dell'Istituto di ricerca pediatrica Fondazione Città della speranza, un approfondimento sulle caratteristiche di questa variante e sulle sue possibili conseguenze. "Non possiamo escludere che abbia un impatto sull'efficacia del vaccino, ma è un'ipotesi altamente improbabile", ha spiegato Viola, aggiungendo che Pfizer/BioNTech e Moderna stanno testando l'efficacia dei loro prodotti sulla nuova variante di SARS-CoV-2

L'immunologa Antonella Viola descrive le caratteristiche della nuova variante di SARS-CoV-2, identificata nel Regno Unito, e le possibili conseguenze sull'efficacia del vaccino. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

"Questa variante è stata identificata all’inizio a settembre nel Kent - introduce l'immunologa Antonella Viola - e da lì poi si è diffusa enormemente sul territorio, con una espansione molto importante che ha portato gli epidemiologi a pensare che abbia un vantaggio dal punto di vista della capacità di trasmissione del contagio. Per il momento si tratta ancora di calcoli matematici, però vanno ad indicare che questa variante potrebbe avere una velocità di diffusione aumentata del 70%. Inoltre i colleghi inglesi suggeriscono che potrebbe contagiare maggioremente i bambini e questo è un dato estremamente preoccupante, per quanto preliminare e basato esclusivamente su osservazioni di tipo epidemiologico".

Per quanto riguarda l'origine di questa variante "si ipotizza che si sia generata in un paziente in cui l’infezione si è cronicizzata, impedendo così al virus di essere velocemente eliminato: in questo modo il patogeno è rimasto all’interno di questo soggetto per un lungo periodo e ha avuto il tempo di mutare e accumulare mutazioni", spiega Viola. 

A caratterizzare il ceppo B.1.1.7 è infatti il gran numero di mutazioni e tre di queste, tutte a carico della proteina Spike, hanno un significato biologico importante. "La prima - approfondisce l'immunologa dell'università di Padova - è la N510Y e sembrerebbe conferire al virus una maggiore affinità con il recettore Ace 2, quello usato per entrare nello nostre cellule. Un’altra mutazione è la P681H, è vicina al sito in cui agisce una proteasi, la furina, per facilitare l’ingresso del virus all’interno della nostre cellule: non sappiamo ancora se favorisca l’azione della furina ma sembrerebbe di sì dal punto di vista epidemiologico e quindi le probabilità di contagio sembrano aumentate. Poi c’è una delezione, la 69-70, che si traduce nella mancanza di questi due aminoacidi e potrebbe essere un tentativo della proteina Spike di nascondersi dal sistema immunitario. La mancanza di questi due residui potrebbe quindi far sì che gli anticorpi del nostro sistema immunitario riconoscano la Spike in maniera meno efficace".

"Riassumendo - sintetizza la professoressa Antonella Viola - sappiamo che da un punto di vista matematico ed epidemiologico questa variante sembra avere un vantaggio a livello di capacità di diffusione e di maggiore trasmissione del contagio. Non abbiamo però ancora nessuna evidenza di questo dal punto di vista laboratoristico, così come non sappiamo se questa variante possa rendere la malattia più o meno grave".

Un punto di fondamentale importanza è capire se i vaccini contro SARS-CoV-2 saranno efficaci anche nei confronti del nuovo ceppo virale. "E’ altamente improbabile che questa variante non venga riconosciuta e renda inefficace il vaccino. E’ importante ricordare che alcune varianti nella proteina Spike erano già state identificate e si era visto che effettivamente riducevano la capacità neutralizzante da parte degli anticorpi, cioè l’efficacia nel legarsi e bloccare il virus. Non possiamo quindi escludere che questa possibilità esista e che ci sia un impatto sul vaccino. Possiamo però affermare che è un’ipotesi molto improbabile. In questo momento sia Pfizer che Moderna stanno portando avanti degli esperimenti che consistono nel verificare se gli anticorpi generati dal vaccino sono in grado di neutralizzare anche questa variante e speriamo di avere presto una risposta". Le aziende produttrici dei due vaccini, gli unici fino a questo momento ad aver già ottenuto l'autorizzazione della Fda statunitense, affermano che non sono attese delle ripercussioni a livello di efficacia e che verranno effettuati test aggiuntivi nelle prossime settimane.

Adesso è necessario anche capire quanto la nuova variante sia già diffusa in altri Paesi: Federico Giorgi, ricercatore del dipartimento di Farmacia e biotecnologie dell'Università di Bologna, ha spiegato che la mutazione è in fase di studio già dal mese di ottobre, quando si è rilevato che era già presente in più dell'1% dei pazienti inglesi. Intervistato dalla Bbc il genetista italiano ha sottolineato l'enorme sforzo compiuto del Regno Unito che attualmente sta mettendo in campo il maggiore impegno a livello mondiale in termini di sequenziamento del virus.

"Per tenere sotto controllo queste nuove varianti, perché come sappiamo il virus muta di continuo ogni volta che infetta una persona, occorre fare il sequenziamento. Non basta la PCR che viene eseguita quando effettuiamo il tampone perché noi con quella andiamo a guardare solo dei piccoli pezzettini del virus ma non andiamo a esaminare tutta la sequenza del suo Rna e quindi non riusciamo a vedere se si sono inserite delle mutazioni in alcune zone. Invece facendo il sequenziamento, quindi andando a leggere tutto l’Rna, possiamo capire se si impone sul territorio una variante, cioè un virus che ha inserito una mutazione stabile al suo interno. In Italia purtroppo abbiamo sempre fatto pochi sequenziamenti: se potenziamo questa attività riusciremo a capire se effettivamente questa variante si è diffusa oppure se non è accaduto", conclude la professoressa Antonella Viola.

 

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012