Sin dalle prime fasi della pandemia ci si è accorti che per gli uomini ammalarsi di Covid-19 comporta rischi maggiori rispetto alle donne. Ne avevamo parlato già nel marzo scorso sul nostro giornale analizzando insieme all’immunologa Antonella Viola i primi dati che iniziavano ad emergere e le possibili spiegazioni. Ci trovavamo nel momento iniziale dell’emergenza e molti aspetti del virus SARS-CoV-2 erano ancora poco conosciuti. Tuttavia, cominciava ad apparire in modo chiaro che le differenze di genere possono avere un ruolo significativo nel decorso clinico dell’infezione e che gli uomini hanno una maggiore probabilità di sviluppare forme gravi e di non superare la malattia. La conferma è poi arrivata con il trascorrere dei mesi quando i dati provenienti da ogni parte del mondo hanno mostrato che, a parte rare eccezioni, tra le donne il contagio evolve più raramente in un decorso clinico severo.
Una meta analisi pubblicata a dicembre da Nature Communications ha provato a verificare se l’esistenza di un bias di genere, che incide sul rischio di mortalità per Covid-19 e di probabilità di sviluppare forme gravi di malattia, fosse confermata anche da un’analisi statistica su larga scala. Gli autori della ricerca hanno raccolto dati da 90 report, provenienti da 46 diversi paesi e 44 stati americani, riferiti ad un totale di oltre 3 milioni di casi di positività e hanno dimostrato che, sebbene non ci siano differenze in termini di probabilità di contagio, gli uomini hanno un rischio quasi tre volte maggiore di ricovero in terapia intensiva e quello di morte è superiore di 1,39.
A conclusioni simili è arrivato più recentemente un articolo pubblicato su Science secondo cui il rischio di decesso per Covid-19 è 1,7 volte superiore tra la popolazione maschile in ogni fascia di età a partire dai 30 anni. Lo studio, realizzato da ricercatori della Yale University, ha approfondito le possibili ragioni di questa diversa risposta all'aggressione da parte del patogeno e ha messo in evidenza l'intreccio di fattori genetici e ormonali in grado di spiegare questo sbilanciamento.
Credit: V. Altounian/Science
La maggiore resistenza delle donne davanti alle infezioni non è comunque una novità ed è stata già osservata anche in altri coronavirus. Durante l’epidemia della SARS, il maggiore rischio di ricovero e di morte tra i pazienti di sesso maschile era in linea con quanto si sta osservando oggi e nel caso della MERS, malattia caratterizzata da un elevato tasso di mortalità, il case fatality rate era del 52% tra gli uomini e del 23% tra le donne.
Un report, realizzato dall’Istituto superiore di sanità e relativo al periodo tra il 20 febbraio 2020 e il 13 gennaio 2021, consente poi di analizzare più da vicino la situazione italiana: a quella data i casi totali confermati erano 2.296.451, con una lieve maggioranza tra le donne (1.185.080 contro 1.111.352). Ma osservando il dato sui decessi, si vede come già a partire dalla fascia di età 10-19 anni la percentuale di persone morte a causa di Covid-19 sia più elevata tra la popolazione maschile con uno scarto che diventa più marcato tra i 50 e i 59 anni quando il rischio di esito infausto arriva ad essere triplicato.
I dati italiani sono coerenti con quelli emersi a livello globale già durante la prima ondata della pandemia. Uno studio realizzato a maggio aveva proposto un focus europeo mostrando come il maggiore tasso di letalità di Covid-19 sulla popolazione maschile fosse comune ai diversi Paesi presi in esame e aveva sottolineato come le politiche per la salute pubblica continuino a non prestare sufficiente attenzione all'impatto delle differenze di genere davanti alle malattie. Anche l'iniziativa di ricerca Global Health 50/50, che offre una panoramica completa e aggiornata dei dati disaggregati per sesso provenienti tutto il mondo, dimostra chiaramente che i casi di contagio sono distribuiti in modo molto simile tra donne e uomini ma che la mortalità è superiore tra questi ultimi.
Tutti gli studi che hanno affrontato il tema precisano che ogni analisi di questo tipo deve tener conto anche di fattori che esulano dalla sfera biologica: le donne tendono, ad esempio, a fumare meno e ad alimentarsi più correttamente e si ritiene anche che prestino maggiore attenzione alle misure di contenimento del virus, come l’uso delle mascherine e l’igiene delle mani.
Ma se le azioni e le abitudini della propria vita quotidiana hanno indubbiamente un peso, una visione che si limitasse a questo approccio non permetterebbe di cogliere in profondità le modalità con cui le differenze di sesso si estendono ai sistemi fisiologici, compreso quello immunitario. E in una malattia che ha tra le sue principali insidie proprio un’infiammazione sistemica e incontrollata comprendere quali meccanismi governano la risposta immunitaria, sia innata che adattativa, è particolarmente importante. Una valutazione dei fattori sesso-specifici che possono influire sulla patogenicità dell'infezione da SARS-CoV-2 non può inoltre tralasciare il ruolo degli ormoni sessuali e in particolare degli estrogeni, soprattutto in considerazione della loro interazione con il recettore Ace2.
A sottolineare che "da anni, chi si occupa di medicina di genere ha evidenziato come le malattie abbiano una epidemiologia e un decorso diverso nelle donne e negli uomini" è anche il portale SARS-CoV-2: frontiere della ricerca, un progetto realizzato dalla casa editrice Zanichelli in collaborazione con la Società di Biofisica e Biologia molecolare (Sibbm) e con la partecipazione di scienziate e scienziati appartenenti a diverse discipline. Alla voce "Le eccezioni alla regola dell'infezione", viene analizzata la diversa risposta immunitaria dell'organismo femminile sia a livello genetico che ormonale, compreso un focus sulla gravidanza. Gli autori, oltre a spiegare per quali motivi le donne si ammalano meno gravemente degli uomini, ricordano anche che "se la maggiore attenzione è stata posta alle differenze di genere per esiti “hard”, non vanno dimenticate altre differenze, certamente anche importanti: le donne presentano più frequentemente alterazioni della salute mentale, quali depressione, ansia, sintomi da stress post-traumatico e disturbi del sonno".
Abbiamo affrontato l'argomento insieme a Giovannella Baggio, presidente del Centro studi nazionale su salute e medicina di genere, alla quale abbiamo chiesto di illustrarci i dati relativi ai contagi e al tasso di letalità della malattia e di spiegarci le ragioni per le quali le donne, anche a parità di età e di presenza di comorbidità, presentano un minore rischio di morte per Covid-19. La professoressa Baggio, che è anche docente fuori ruolo per la cattedra di Medicina di genere all’università di Padova e membro del Comitato tecnico scientifico che supporta il governo nelle decisioni legate al contenimento del coronavirus, ha proposto uno sguardo che va oltre all’aspetto sanitario perché è vero che le donne muoiono più raramente a causa di Covid-19, ma questo non deve far dimenticare l’impatto devastante della pandemia sull’occupazione femminile, le difficoltà di gestione dei carichi familiari e lavorativi e l’aumento dei casi di violenza domestica.
Intervista alla professoressa Giovannella Baggio su Covid-19 e differenze di genere. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar
"L'argomento del diverso impatto della pandemia tra uomini e donne - spiega la professoressa Giovannella Baggio - dovrà essere approfondito anche nel corso dei prossimi mesi. Lo studio dei casi suddivisi per sesso ci ha fatto capire che a livello di numero di contagi le donne sono più colpite: in Italia questo è stato particolarmente evidente durante la prima ondata e va ricondotto alle professioni svolte dalla popolazione femminile". La professione infermieristica, sottolinea la presidente del Centro studi nazionale su salute e medicina di genere, ha una prevalenza femminile e lo stesso accade per le operatrici sanitarie. Anche tra i medici il numero delle donne è elevato, soprattutto nell’ambito della medicina interna ed inizia ad esserlo anche nella rianimazione.
"Durante la fase acuta della pandemia il numero di donne attive al lavoro, sul campo, era quindi maggiore rispetto a quello degli uomini. Se però spostiamo l’attenzione dai casi ai decessi ci accorgiamo che dai 40 anni in poi gli uomini presentano un rischio di morte per Covid-19 molto superiore. La situazione è diversa soltanto nella fascia oltre i 90 anni, ma è spiegabile con il fatto che l’80% delle persone che raggiungono quell’età sono donne", approfondisce la professoressa Baggio.
Un focus sugli operatori sanitari e la conferma che la letalità tra le donne è inferiore
Durante la prima ondata della pandemia, sottolinea la docente, la diffusione dell'infezione nell'ambito sanitario è stata molto marcata. "Un’analisi basata sui dati dell’Istituto superiore di sanità e aggiornata al 19 ottobre 2020 conferma il maggiore numero di contagi tra le operatrici sanitarie rispetto ai colleghi uomini (24.509 contro 10623) ma la letalità ha mostrato uno sbilanciamento anche in questa specifica popolazione (0,1% contro 0,8%), con una differenza che inizia ed essere molto più elevata a partire dai 60 anni. Anche i dati Inail sulle denunce di infortunio da Covid-19 confermano il maggior numero di casi tra le lavoratrici donne ma se si restringe lo sguardo alle denunce di infortunio per Covid-19 con esito mortale sul totale di 423 casi registrati al 31 dicembre 2020 si nota che 352 erano uomini".
Le comorbidità
Il decorso clinico di Covid-19 dipende molto dall'età del paziente e dal suo stato di salute complessivo. Il portale EpiCentro dell'Iss riporta che "le donne decedute dopo aver contratto infezione da SARS-CoV-2 hanno un’età più alta rispetto agli uomini (età mediane: donne 86 anni – uomini 80 anni)". E può sorprendere, evidenzia la professoressa Baggio, "il fatto che in realtà non ci sia una grande differenza tra uomini e donne nella distribuzione delle principali comorbidità. L’unica malattia che interessa in modo prevalente gli uomini sono le alterazioni delle arterie coronarie, mentre una condizione che si presenta con maggiore facilità tra le donne è la demenza".
Grafico da EpiCentro/Iss
Perché le donne hanno un minore rischio di decorso grave di Covid-19?
Abbiamo visto che le patologie più comuni tra i pazienti deceduti a causa di SARS-CoV-2 non si differenziano in modo significativo tra uomini e donne. Ma allora quali ragioni possono contribuire a spiegare il minore tasso di letalità della malattia tra la popolazione femminile? Da un lato, spiega la professoressa Giovannella Baggio, ci sono fattori legati al comportamento e allo stile di vita: le donne tendono a bere e fumare meno degli uomini e sono anche più rigorose nell'adozione di quelle regole che possono ridurre le probabilità di contagio, come il lavaggio delle mani, il distanziamento fisico e l'uso delle mascherine. L'ipotesi di una maggiore adesione delle donne ai comportamenti raccomandati ha trovato riscontro scientifico in uno studio coordinato dalla Bocconi e pubblicato su Pnas che ha focalizzato l'attenzione su otto Paesi, tra cui l'Italia, scoprendo che esistono differenze tra i due sessi a livello di percezione del rischio e attitudine al rispetto delle misure restrittive.
Ma oltre ai comportamenti entrano in gioco diversi anche ragioni di tipo biologico. "Perché il virus entri all’interno della cellula c’è bisogno di alcune strutture biochimiche. I due fattori chiave sono il recettore Ace2 e una proteina che si chiama TMPRSS2 (Transmembrana proteasi, serina 2). Ace 2 ha un effetto positivo perché lega il virus, lo porta all’interno ma poi blocca i recettori facendo in modo che non ne entri più. Un meccanismo opposto a quello di TMPRSS2 che lega il virus e ne facilita in modo importante l’ingresso. Ace 2 è più espresso nella popolazione femminile perché è codificata dal cromosoma X e in particolare da quella zona regione che sfugge all'inattivazione", approfondisce la docente di Medicina di genere, riferendosi a quel meccanismo di inattivazione casuale di uno dei due cromosomi X presenti in ciascuna cellula.
"Inoltre, anche gli estrogeni concorrono a stimolare l’azione di questa proteina di membrana suggerendo che, almeno nelle donne in età fertile, anche dopo l’infezione questo enzima sia espresso ad un livello sufficiente per continuare a svolgere la sua funzione protettiva. E per questo motivo si può pensare in futuro anche ad una terapia con estrogeni per bloccare l’entrata del virus", prosegue la professoressa Baggio.
Questi fattori genetici e ormonali incidono in modo decisivo sulla risposta immunitaria, sia innata che adattativa. "E' più forte tra le donne", conferma la presidente del Centro studi nazionale su salute e medicina di genere aggiungendo che "gli estrogeni hanno un effetto anti-infiammatorio mentre il testosterone ha un effetto immunosoppressivo. Tutto questo è interessante perché mostra le differenze tra uomo e donna, ma non abbiamo una risposta in grado di spiegare perché le donne continuano a rimanere più protette anche dopo i 50 anni, quando l’effetto degli estrogeni diminuisce in modo significativo".
Uno sguardo all'impatto della pandemia sotto il profilo psicologico, sociale e occupazionale
Un'analisi che si limiti a ragionare sulle diversità di genere in relazione al decorso clinico dell'infezione da SARS-CoV-2 rischierebbe però di non comprendere in pieno l'effetto della pandemia in termini di conseguenze psicologiche, sociali e professionali. Da questo punto di vista le donne sono state pesantemente colpite e il confinamento domestico, soprattutto durante il lockdown della prima ondata pandemica, le ha esposte più frequentemente a episodi di violenza.
"Dopo un anno di osservazione della pandemia non possiamo tralasciare la maggiore sofferenza delle donne. Sono molto più facilmente coinvolte nello smart working e questo implica un aumento dei carichi di impegno con la casa da gestire e i figli che girano intorno. Un altro problema riguarda la permanenza a casa con un coniuge con cui non si hanno rapporti facili e l'incremento dei casi di violenza e dei femminicidi", ricorda la professoressa Baggio.
L'impatto della pandemia è stato devastante anche sotto il profilo occupazionale e, circoscrivendo lo sguardo all'Italia, gli ultimi dati Istat mostrano in modo evidente che a pagare il prezzo più alto sono proprio le donne: tra novembre e dicembre 2020 le persone che hanno perso il proprio posto di lavoro sono state 101 mila e, dal momento che i nuovi disoccupati gli uomini sono solo 2 mila, è evidente che si è trattato di un crollo quasi esclusivamente femminile.
Se estendiamo l'orizzonte temporale all'intero 2020 ci accorgiamo che l'andamento è stato simile, sebbene con numeri un po' meno netti: delle 444 mila persone rimaste senza lavoro il 70% è infatti rappresentato da donne.
E, come ricorda Federica D'Auria in questo articolo sul nostro giornale, le conseguenze di Covid-19 costituiscono una nuova minaccia al raggiungimento dell'uguaglianza di genere in molti Paesi dove l'interruzione scolastica rischia di tradursi in abbandono e milioni di ragazze in più potrebbero essere a rischio di matrimonio precoce nei prossimi cinque anni.
"Per gestire una pandemia è molto importante analizzare sempre i dati disaggregati per sesso e una volta che si hanno i dati bisogna cercare di approfondire e capire il perché di queste differenze", commenta la professoressa Baggio che conclude con una riflessione relativa alla composizione delle task force che si occupano di una pandemia. Già a marzo dello scorso anno, sottolinea la docente, la rivista Lancet rifletteva sull'inadeguatezza della rappresentanza femminile negli spazi politici nazionali e globali relativi alla gestione dell'emergenza Covid-19 e ricordava che "l'esperienza delle epidemie passate mostra l'importanza di incorporare un'analisi di genere negli sforzi di preparazione e risposta per migliorare l'efficacia degli interventi sanitari e promuovere obiettivi di parità di genere e salute".