Foto di Luca d'Agostino
Mentre nuove e antiche guerre mandano in cenere persone, cose e speranze, da quasi trent’anni a questa parte a Cormons, piccolo comune goriziano a due passi dal confine sloveno, si continua a parlare di pace e di convivenza civile fra i popoli. Fra pochi mesi, nel 2025, Gorizia e Nova Gorica diventeranno, idealmente unite, capitale europea della cultura, nel nome di un’integrazione sociale e culturale che in questo territorio esiste da sempre, al di là delle diaspore e dei confini imposti dalla storia. E nel frattempo, puntuale come l’autunno che colora di ocra le colline del Collio, a fine ottobre il festival Jazz & Wine of Peace è tornato a celebrare la musica come spazio di condivisione e di libertà.
Per cinque giorni, dal 23 al 27 ottobre, teatri, sale da concerto, locali, dimore storiche e cantine del territorio – sia al di qua che al di là del confine, ormai soltanto formale, fra Italia e Slovenia – hanno ospitato 28 eventi, concerti con protagonisti alcuni fra i nomi più luminosi del panorama jazzistico internazionale, con grande spazio ai musicisti e alle formazioni statunitensi attivi in particolare sulla scena newyorchese: da Jason Moran a Kurt Rosenwienkel, passando attraverso Joe Locke, Marc Copland, Joe Hertenstein, Erik Friedlander.
A fare da cornice al tutto, con degustazioni e concerti in cantina, sono stati come sempre i vini di un territorio, quello del Collio Goriziano, che costituisce una delle Doc in assoluto più pregiate del nostro Paese. I terreni ricchi di creta e arenaria favoriscono la produzione di grandissimi vini bianchi, come lo stesso Collio, il Friulano (l’ex Tocai), la Ribolla Gialla, la Malvasia, il Picolit. Fra i rossi, invece, vanno citati autentici capolavori come il Collio Rosso, il Pinot nero e il Cabernet in tutte le sue declinazioni. Da queste parti, il vino è una religione: ecco perché il Consorzio di tutela dei vini del Collio è nato nel 1964, uno dei primi in Italia, e già nel 1968 ha ottenuto il riconoscimento della Denominazione d’origine controllata.
Da quando è nato, sposando nel nome della pace la musica e il buon bere, Jazz & Wine of Peace attira ogni anno migliaia di spettatori, che calano ai piedi del monte Quarin da Austria, Germania, Slovenia e naturalmente Italia, per ritrovarsi immersi in un ambiente naturale e culturale che sembra nato apposta per la convivialità. Ad ospitarli trovano una rete di accoglienza (locande, bed & breakfast, agriturismi) ormai capillare in tutto l’isontino, sia nei centri storici sia in collina.
Quella che si è appena conclusa è già la ventisettesima edizione di J&W, ma nessuno se n’è accorto, per via della capacità del festival di rinnovarsi ogni anno in forme sempre innovative, eppure caratterizzate dallo stesso comune denominatore: si è avvertita come sempre quella piacevole atmosfera riservata agli amici che si ritrovano non solo per ascoltare, ma per condividere emozioni ed esperienze sonore che i festival più paludati tendono col tempo a perdere. Una sorta di confortante calore domestico, infuso dall’ospitalità di un ambiente cordiale e senza tempo, che lascia spazio a un pizzico di improvvisazione (peraltro elemento imprescindibile del jazz) in una scaletta talvolta “flessibile” perché sempre aperta a variazioni non contemplate dal programma.
Quest’anno c’è stato in più un elemento di commozione, il velo di mestizia che ha accompagnato esibizioni e concerti nel ricordo delle persone, i principali artefici del festival, che nel corso degli ultimi anni, lasciando un vuoto incolmabile, sono prematuramente scomparse: Fulvio Coceani, Claudio Corrà, Paolo Burato e Giuliano Almerigogna. Da ultimo, se ne è andato anche Mauro Bardusco, storico direttore artistico di J&W fino al giugno di quest’anno, che nonostante la malattia è riuscito a costruire buona parte del programma, portato poi a termine dallo staff di Circolo Controtempo.
Controtempo è il felice nome che ha saputo darsi una associazione di entusiasti cultori della musica afroamericana – a tal punto appassionati da dedicare undici mesi l’anno della loro vita all’organizzazione dell’evento –, che per ogni edizione, senza comunque rinunciare a proposte rivolte alla sperimentazione e lontane dalle rotte commerciali imposte dalle major e dagli agenti, riescono ad attirare in terra goriziana fior di nomi del panorama internazionale (nel 2023 fra le star c’erano Enrico Rava, Henri Texier, Paolo Fresu e Omar Sosa). La buona notizia è che il circolo ha avviato il progetto “Fondo Bardusco”, che permetterà di mettere a disposizione della collettività l’immenso patrimonio di libri, cd, dvd e immagini legate al jazz raccolto in una vita di passione da Mauro Bardusco.
Il cartellone di J&W 2024 come sempre ha dato spazio anche a proposte lontane dai canoni jazzistici tradizionali, ai confini con la world music, il funky, la ricerca etnomusicale. Come nel caso del quintetto del batterista norvegese Paal Nilssen, che al Kulturni Dom di Nova Gorica ha presentato l’innovativo progetto “Love Circus”, nato durante la pandemia e ispirato ai suoni di Etiopia, Mali, Senegal e Brasile. Lontana dagli schemi è stata anche l’esibizione al Comunale di Cormons di Anthony Joseph, cantante e poeta di Trinidad che, fra voodoo caraibico, funk e improvvisazione, ha declamato in musica le sue composizioni afro-futuriste.
Ma appartengono al profilo jazzistico più puro i due concerti di J&W 2024 in assoluto più apprezzabili per la qualità degli interpreti, entrambi provenienti dalla sponda occidentale dell’Atlantico. Colta e raffinata è stata l’esibizione di Marc Copland, pianista (ma la sua carriera è iniziata col sassofono) attivo sulla scena jazz di Filadelfia fin dai primi anni '60, quando iniziò a suonare con Michael Brecker, suo compagno di liceo. Copland ha fatto di New York il palcoscenico principale della sua attività concertistica e discografica, collaborando negli anni con musicisti come Joe Lovano, John Scofield, Peter Erskine, Gary Peacock e John Abercrombie, con i quali ha registrato album celebrati dalla critica. A J&W Copland si è presentato con il suo trio (Stephane Kerecki al basso e Fabrice Moreau alla batteria), in un concerto preserale pieno di suggestione.
Ci è piaciuto anche il violoncellista Erik Friedlander, veterano della scena sperimentale newyorchese noto per le sue frequenti collaborazioni con il sassofonista John Zorn, che ha lavorato anche con Laurie Anderson, Courtney Love e Alanis Morissette. Con il suo quartetto all stars The Throw – che oltre al sommo Uri Cane al piano contava Mark Helias al basso e Ches Smith alla batteria – Friedlander ha presentato a Vila Vipolže di Dobrovo (Slovenia) il suo nuovo album “Dirty Boxing”, un campionario di virtuosismo e di forza evocativa.
Anche quest’anno, nonostante le dolorose defezioni di molti dei suoi storici artefici, Jazz & Wine of Peace di Cormons ha saputo ricreare il giusto amalgama fra qualità delle proposte musicali e cordialità dell’accoglienza. Un mix alchemico che è da tempo il suo marchio di fabbrica. Fin dal titolo che si è scelto, questo festival richiama la vocazione quasi inevitabile all’incontro e alla convivenza pacifica fra i popoli di una regione di confine come il Friuli-Venezia Giulia, fino a un recente passato teatro di guerre e contrapposizioni frontali e oggi porta d’ingresso dei Paesi entrati recentemente a fare parte dell’Ue. La storia di questa terra legata alla Mitteleuropa, tradizionale area di confluenza di culture, lingue e tradizioni, dove si produce e si beve del buon vino, testimonia l’attualità dell’auspicio che da sempre guida questo festival e mai come oggi si rivela cruciale: l’idea che la musica possa essere veicolo di pace, a ricordare, se mai ce ne fosse bisogno, che solo con il dialogo e la conoscenza reciproca si risolvono le controversie.