SCIENZA E RICERCA

La curiosità, linfa vitale della ricerca scientifica

Pubblichiamo la lectio magistralis del professor Telmo Pievani, tenuta il 19 novembre 2019, in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico della Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste. Nella lectio, alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si ripercorre il tema della serendipità, già apparso in un editoriale di lunedì 3 febbraio su questo stesso giornale, e che sarà dibattuto, oggi, durante un convegno all'Orto botanico di Padova.


Signor Presidente, Magnifico Rettore, illustri autorità, care colleghe e colleghi, studentesse e studenti della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste,

la curiosità è la linfa vitale della ricerca scientifica, (lo abbiamo sentito), così come lo sono la libertà, l’inventiva, la tenacia mista all’intuito. Lo sappiamo bene, eppure non è facile studiare questi aspetti qualitativi dell’impresa scientifica, indubbi nella loro rilevanza ma sfuggenti. Benché alcuni libri importanti facciano riferimento alla “logica della scoperta scientifica”, in realtà i filosofi della scienza hanno spesso considerato il contesto della scoperta e il genio di scienziate e scienziati come dimensioni quasi inafferrabili e misteriose, più psicologiche che metodologiche, dominio persino di fattori emozionali, contingenti e non del tutto razionali. Come tali, non meritevoli di più approfondite analisi.

Oggi non è più così. L’anno scorso, per fare un esempio, l’European Research Council ha concesso un cospicuo finanziamento quinquennale all’Università del Sussex, a Brighton – in particolare a un suo giovane ricercatore Ohid Yaqub - al fine di studiare, appunto, il più elusivo degli argomenti, per prevedere l’imprevedibile.

L’autorevole rivista Nature, in un editoriale del gennaio 2018, ha notato la stranezza ma anche la bellezza di questo ambizioso compito, che nello specifico è quello di carpire i segreti della serendipità, cioè della scoperta accidentale, di quel fenomeno per cui gli scienziati stanno cercando qualcosa e trovano tutt’altro. Progettano un esperimento, si pongono una certa domanda di ricerca, ma poi nel corso del lavoro si imbattono in evidenze del tutto inaspettate. E di solito molto importanti. 

Il termine serendipità fu usato con il suo significato moderno per la prima volta nel 1754 dallo scrittore inglese Horace Walpole e deriva dai tre personaggi di una deliziosa favola persiana, i principi di Serendippo, che compiono un viaggio di iniziazione durante il quale continuano, cito il testo, “a fare scoperte, per accidente e per sagacia, di cose di cui non erano in cerca”.

La storia popolare della scienza è piena di aneddoti classici, talvolta confinanti con la leggenda, in cui un caso fortunato porta a scoperte rivoluzionarie, dalla penicillina di Alexander Fleming ai raggi X di Wilhelm C. Röntgen, dalla radiazione cosmica di fondo al forno a microonde. L’elenco delle scoperte serendipiche documentate è davvero lunghissimo e tocca anche tecnologie oggi divenute essenziali per la nostra vita quotidiana, fra le altre pensiamo: alla moderna chemioterapia scoperta dagli studi sugli effetti dell’iprite nel secondo conflitto mondiale, e poi alla vulcanizzazione della gomma, ai parabrezza infrangibili, ma anche il dagherrotipo, la saccarina, l’induzione elettromagnetica, il pacemaker, la celluloide, la luce al neon, il teflon, la seta artificiale, il vaccino attenuato, le angiostatine, e molte altre ancora. Anche le biotecnologie note come gene editing, che stanno rivoluzionando l’ingegneria genetica con applicazioni che spaziano dalla medicina all’industria, sono state scoperte in modo imprevedibile studiando le forbici molecolari evolute dai batteri per difendersi dai virus. Quindi una linea di ricerca pura in ambito microbiologico, peraltro a basso costo, ha avuto un’enorme e serendipica ricaduta applicativa, ancora in gran parte da esplorare.

Per andare oltre l’aneddotica, però, è necessaria una rigorosa tassonomia del fenomeno. Gli archivi del sociologo Robert K. Merton, custoditi alla Columbia University a New York, contengono centinaia di casi storici di serendipità, classificabili in quattro categorie: 

1) le ricerche che nascono in un certo dominio e portano a scoperte in un altro (potremmo definirla serendipità interdisciplinare); 

2) le scoperte frutto di un’indagine libera e senza obiettivi prefissati; 

3) le soluzioni inattese a vecchi problemi che si cercava di risolvere da tempo;

4) e infine, forse la tipologia più interessante di tutte, le scoperte casuali che a posteriori si rivelano essere la soluzione a un problema emerso successivamente.

Ma quali sono le condizioni che favoriscono le scoperte serendipiche più promettenti? La serendipità infatti non è puro caso. Come aveva già notato Louis Pasteur, essa richiede di essere pronti e ricettivi nei confronti di un risultato sorprendente. Bisogna capire subito di avere per le mani una scoperta inattesa e non soltanto un esperimento malriuscito. Chissà quanti esempi di serendipità sono finiti nel dimenticatoio della storia, senza essere adeguatamente considerati a tempo debito. Inoltre, contano molto l’ambiente e il contesto di ricerca.

Sappiamo che esistono meccanismi che alimentano la serendipità: l’astuzia osservativa; l’introduzione di nuovi strumenti; la capacità di imparare dagli errori e di capitalizzare risultati inaspettati; una controllata distrazione per non essere mai troppo focalizzati su un solo obiettivo né troppo testardi quando gli esperimenti sono recalcitranti rispetto alle nostre aspettative; saper comprendere le anomalie rivelatrici e le deviazioni dai presupposti teorici di partenza.

Dettaglio molto interessante, anche la collaborazione in ampie reti di scienziati la rende più probabile: osservare un fenomeno da più punti di vista, con sguardi e linguaggi disciplinari diversi, apre la mente e moltiplica le occasioni di scoperte serendipiche. Nemici della creatività scientifica sono invece la troppa fretta di pubblicare, le pressioni sui risultati e la concentrazione dei finanziamenti su poche linee di ricerca tradizionali già di comprovato successo. Una sana lentezza può talvolta favorire non solo un più ponderato controllo dei risultati sperimentali, ma anche la sperimentazione rischiosa di linee di ricerca più innovative. (Ne parleremo tra poco)

Il tema non è solo teorico. Se capiamo le circostanze in cui la serendipità fiorisce, possiamo promuoverla con misure e fondi adeguati. L’obiettivo del finanziamento dell’ERC prima citato è quello di valutare se la serendipità è finora emersa maggiormente in progetti orientati a un obiettivo (che pure possono dare adito a deviazioni serendipiche) oppure in linee di ricerca più generali. Dall’importanza quantitativa e statistica della serendipità dipende per esempio la giustificazione o meno del sostegno dato alla ricerca di base, cioè non finalizzata a priori a un risultato applicativo, bensì guidata dalla curiosità di conoscere. Le cronache anche recenti ci dicono infatti che dalla ricerca pura e disinteressata sono spesso scaturite scoperte imprevedibili che poi hanno avuto ricadute tecnologiche e cliniche straordinarie, per esempio in campo oncologico. 

Solo per citare un altro esempio, la bioluminescenza naturale di alcune meduse, studiata a Princeton negli anni sessanta del Novecento dal chimico giapponese Osamu Shimomura, portò alla scoperta della proteina aequorina, la quale, se legata al calcio, emette una luce blu che viene poi assorbita dalla Green Fluorescent Protein, emettendo a sua volta luce verde. Shimomura grazie a questa serendipità vinse decenni dopo, nel 2008, il Premio Nobel, insieme a Roger Tsien e Martin Chalfie, poiché la proteina della fluorescenza verde era diventata nel frattempo un marcatore cellulare fondamentale di cui i biologi di tutto il mondo non possono più fare a meno.

Osamu Shimomura, scomparso un anno fa all’età di 90 anni, aveva la serendipità nel sangue: il 9 agosto del 1945, sedicenne, si trovava a 15 km da Nagasaki, sfollato a casa dei nonni; era salito su una collina per vedere l’arrivo dell’ennesima squadriglia di bombardieri B-29 statunitensi, ma quella mattina, verso le 11, ne erano arrivati soltanto due, in sequenza, il che era strano; uno aveva lanciato due paracaduti con appesi alcuni strani strumenti mentre il secondo aveva sganciato una bomba sola, ma grossa; mentre Osamu scendeva dalla collina, una luce abbagliante lo accecò per 30 secondi, 40 secondi dopo arrivò una terribile onda d’urto; allora corse verso casa, distante tre miglia, si alzarono nubi scure in cielo e cominciò una pioggia battente, una pioggia nera. La nonna lo vide arrivare tutto sporco e gli preparò subito un bagno. Nel discorso per il Nobel, Shimomura raccontò che sua nonna non sapeva niente di bombe atomiche e di radiazioni, ma la tradizione di farsi subito un bagno caldo dopo la pioggia probabilmente gli salvò la vita.

Proprio in quegli anni, sull’altra sponda del Pacifico, il successo di grandi progetti di finanziamento della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica derivava da una lungimirante fiducia nella ricerca di base e nella serendipità, la fiducia che aveva Vannevar Bush - l’ingegnere artefice delle formidabili politiche della ricerca statunitense durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale – il quale era convinto (cito) che le “scoperte rilevanti spesso provengono da fonti remote e inaspettate”.

Gli insegnamenti della serendipità sono molteplici e preziosi, quindi. Se è vero che non vi è sostanziale contrapposizione tra ricerca pura e applicata - essendo spesso intrecciate l’una all’altra ed entrambe essenziali per lo sviluppo scientifico, tecnologico e sociale di un paese - è altrettanto evidente da questi studi che sarebbe futile o addirittura controproducente per un Governo o per un’impresa controllare e indirizzare troppo rigidamente la ricerca scientifica. Meglio lasciarla correre a briglie sciolte, intercettando serendipiche illuminazioni.

La serendipità ci insegna soprattutto che la natura è sempre più grande della nostra immaginazione di scienziati e filosofi, ed è sempre pronta a sorprenderci. Come scriveva Karl Popper, la vera ignoranza non è l’assenza di conoscenza ma il rifiuto di acquisirla, rifiuto di acquisirla dovuto a ideologia o preconcetti. Gli scienziati invece sanno di non sapere. Non solo, tante più cose sanno e scoprono, tante più si accorgono di non sapere. L’impresa scientifica è un’appassionante avventura della conoscenza in cui i punti di domanda, con il passare del tempo, anziché diminuire aumentano.

Talvolta le scoperte sono così dirompenti che la comunità scientifica capisce che non sapeva di non conoscere aspetti cruciali della natura. Si pensi alla materia e all’energia oscure in fisica, che ci hanno fatto capire che non sapevamo di non conoscere la natura di più del 90% dell’universo, o alla scoperta della compresenza di una molteplicità di specie umane fino a tempi recenti sulla Terra, cioè del fatto che sono esistiti molti modi di essere umani, non solo il nostro, l’unico superstite. Per chi come me studia l’evoluzione umana si è trattato di un cambio di paradigma: fino a 50 millenni fa sul nostro pianeta coabitavano almeno cinque specie umane diverse, che in alcuni casi si sono ibridate fra loro. Non potevamo immaginarlo, non sapevamo di non sapere. La nostra specie, Homo sapiens, è l’ultimo ramoscello di un intricato cespuglio di forme umane. Siamo una specie migrante, da sempre, nata in Africa 200 millenni fa, e dotata di una spiccata curiosità esplorativa.

La serendipità ci permette quindi di apprezzare il valore positivo dell’ignoranza generativa, e dell’inesauribile sfida all’ignoto che scienziate e scienziati intraprendono ogni giorno con curiosità, metodo, spirito critico ed esercizio sistematico del dubbio. Questo atteggiamento di umiltà e di ricerca si pone agli antipodi delle false certezze e delle paure irrazionali che popolano la Rete e condizionano purtroppo una fetta crescente dell’opinione pubblica. Raccontare la serendipità e la logica imprevedibile della scoperta scientifica rappresenta quindi un antidoto contro qualsiasi atteggiamento dogmatico e integralista, e a favore invece dello spirito critico e collaborativo.

Come ha detto il Presidente della Repubblica, che ringrazio di cuore per la Sua continua attenzione verso la scienza, nel Suo discorso per la cerimonia di apertura de “I Giorni della Ricerca” della Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, il 24 ottobre scorso al Palazzo del Quirinale: (cito) “Capacità diagnostiche e terapeutiche, prevenzione e cure sempre più personalizzate hanno ridotto progressivamente la mortalità per cancro, hanno allungato le prospettive di vita e ne hanno anche migliorato la qualità in chi si trova a fronteggiare la malattia. Tutto questo sarebbe stato impossibile senza il lavoro faticoso e grandioso, a volte necessariamente per tentativi, ma esaltante, dei ricercatori. Tutto questo sarebbe stato impossibile senza il finanziamento alla ricerca, senza cioè quelle risorse materiali indispensabili, che costituiscono l’investimento per un domani migliore e il segno tangibile della speranza” (chiuse le virgolette).

Un lavoro faticoso e grandioso, proprio così. Attraverso la serendipità, e grazie all’invito a questa Prolusione che mi onora, spero di aver qui illustrato almeno un piccolo scorcio dell’esaltante impresa collettiva che chiamiamo scienza, un’impresa che merita fiducia e che ci dà speranza. Da quando i nostri antenati, molti millenni fa, alzarono gli occhi al cielo e cominciarono a interrogarsi sulle regolarità dei fenomeni naturali, l’intelletto umano non ha mai smesso di porsi domande inquiete e curiose sul mondo. La libera curiosità - amava ripetere Umberto Veronesi - è un diritto umano fondamentale e come tale andrebbe riconosciuto. La scienza dunque, nelle sue imprevedibili serendipità - la scienza condotta ai massimi livelli internazionali nella matematica, nella fisica e nelle neuroscienze come fate qui alla SISSA - rappresenta uno dei lati più nobili della natura umana. 

Grazie Signor Presidente, grazie alla SISSA e grazie a tutti voi!

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