Presentando il nuovo governo alle due Camere per il voto di fiducia il neo presidente del Consiglio Mario Draghi ha fra l’altro notato: “L’aspettativa di vita, a causa della pandemia, è diminuita: fino a 4-5 anni nelle zone di maggior contagio; un anno e mezzo-due in meno per tutta la popolazione italiana. Un calo simile non si registrava in Italia dai tempi delle due guerre mondiali.” Si fa correttamente riferimento al recente scenario stilato dall’Istat: nel 2020 si è assistito a un ridimensionamento più marcato nelle province del Nord e, soprattutto, nel Nord-ovest e lungo la dorsale appenninica. In vari territori si è tornati indietro di circa 20 anni, più di tutti nelle province di Bergamo e Cremona, dove la speranza di vita alla nascita si sarebbe ridotta di oltre 5 anni. Le criticità appaiono ancor più nette ed evidenti restringendo l’attenzione alle stime per gli anziani: un italiano sessantacinquenne (oggi quelli e quelle del 1956, per intenderci) poteva aspettarsi di vivere, in epoca pre-Covid, per altri 21 anni (mediamente), mentre con gli effetti di mortalità dovuti alla pandemia si scenderebbe a circa 19.
Non si tratta di un cenno autorevole alle questioni demografiche, bensì del giustificato allarme rispetto ai danni della pandemia e alla persistente emergenza sanitaria, vero filo conduttore di tutto il discorso programmatico di Draghi (solo della “pandemia” parla ben 22 volte): “Il principale dovere cui siamo chiamati, tutti, io per primo come presidente del Consiglio, è di combattere con ogni mezzo la pandemia e di salvaguardare le vite dei nostri concittadini.” Al quadro demografico si accenna solo una volta nel testo, nel capitolo sul Mezzogiorno: “Sviluppare la capacità di attrarre investimenti privati nazionali e internazionali è essenziale per generare reddito, creare lavoro, invertire il declino demografico e lo spopolamento delle aree interne.” Il declino è riferito alle aree interne dell’Italia meridionale, dove sicuramente è da tempo più accentuato (perlopiù con ampie migrazioni interne), ma in realtà riguarda da decenni l’Italia intera, parte significativa degli stati europei, parte crescente del mondo. Per il contesto attuale della vita istituzionale probabilmente non era congruo parlare del declino demografico in un programma governativo, sia perché non è certo che siano individuabili politiche rapide e semplici per invertirlo, sia perché è dubbio possa davvero occuparsene un singolo governo nel suo mandato.
D’accordo. Concentriamoci sulle politiche collettive, sulle scelte comunitarie e sui comportamenti individuali, per ridurre e, tendenzialmente, quasi eliminare i pericoli della malattia Covid-19. Facciamo prima possibile di nuovo crescere l’aspettativa di vita degli italiani e dei concittadini sapiens sul pianeta, anche con innovative politiche ecologiste e sociali. Le dinamiche demografiche restano comunque pressanti, presto o tardi dovremo dedicarvi piena e migliore attenzione, per comprenderne i caratteri innanzitutto. Esiste in vari paesi, compresa l’Italia, un diffuso allarme sulla crescente denatalità, ovvero sul decremento del numero medio annuale di nascite. Esiste anche un’autonoma diminuzione del numero medio annuale delle morti, sia perché aumenta leggermente la durata media della vita sia perché diminuisce il numero medio annuale proprio delle morti, quelle cosiddette naturali e pure quelle violente, grazie al diffuso globale perdurante (seppur diseguale nello spazio e nel tempo) declino della mortalità a tutte le età. In sostanza, si alza l’età media della popolazione (siamo sempre più vecchi e facciamo sempre meno figli, lo si dice così, mediamente) e il saldo demografico potrebbe essere mantenuto in relativo equilibrio solo dall’arrivo di immigrati (con migrazioni internazionali). La pandemia sta purtroppo influendo in tutte le realtà, più gravemente in alcune e presso specifiche comunità, tuttavia il declino demografico nei paesi ricchi non è contingente, si tratta di un fenomeno strutturale.
Fra l’evitabile momento felice della nascita e l’inevitabile successivo momento triste della morte, fra nascite e morti, nella nostra specie si hanno nessi solo biologici. I due momenti appartengono a dinamiche sociali e culturali quasi del tutto indipendenti, non dipendono in sostanza l’una dall’altra, le une dalle altre o viceversa, e anche la reciproca proporzione può essere comparata statisticamente ma non determina nessi causali. Nel corso della breve presenza dei sapiens sul pianeta vitale sia la natalità che la longevità della nostra specie hanno avuto andamenti non univoci e lineari, la geografia e la storia hanno detto la loro, con grandi differenze per aree e periodi. Resta il fatto che le tendenze attuali, né eterne né forse irreversibili (ma certamente molto persistenti nel secolo in corso), sono alla diminuzione media delle scelte di far nascere figli e all’aumento medio delle aspettative di durata della vita per chi è già nato. Ciò determina significativi scenari per i numeri relativi alla popolazione umana residente: continuerà a crescere ancora per quasi un trentennio a un ritmo mondiale comunque inferiore rispetto agli ultimi decenni; tanti residenti in un ecosistema pongono e porranno ulteriori problemi di distribuzione iniqua delle risorse e del denaro; la popolazione sta già calando in una parte del mondo, nei paesi più ricchi, dove pure crescono tuttavia le diseguaglianze sociali; sono soprattutto i fenomeni migratori che possono condizionare i singoli saldi nazionali.
Ora, per esempio, la popolazione europea invecchia più a causa della bassa natalità che della maggiore longevità. Il numero medio di figli per donna è attorno a 1,6, notevolmente al di sotto del livello di 2,1 che consentirebbe teoricamente un adeguato equilibrio tra generazioni: in ogni nuova generazione, i figli sono sistematicamente di meno dei genitori e ancor meno dei nonni. Le scelte individuali e le politiche collettive rispetto alla decisione di procreare (comunque di una donna o di una coppia) dipendono da molti e complessi fattori, storicamente e geograficamente condizionati; morire è drammaticamente più scontato e classificabile, meno causale e contingente. Le principali cause di morte nel mondo connettono salute ed età del singolo individuo: malattie cardiovascolari, malattie cerebrovascolari, i tumori al sesto posto dell’infausta graduatoria, l’acqua contaminata al settimo (iniqua condizione presente solo fra i poveri che nascono nei paesi meno ricchi), poi il diabete e solo al nono gli incidenti stradali. Mentre è più complicato il discorso sulle cause della procreazione e sulla promozione di eventuali politiche procreative, “nataliste”. Esempi storici di obblighi dall’alto segnalano dinamiche conflittuali, efficacia parziale, rischi discriminatori (quando si previlegia solo la forza-lavoro oppure un determinato gruppo etnico o religioso). Con la dovuta accortezza all’equità e alla giustizia sociale, incentivare la genitorialità, mettere nelle migliori condizioni di vita e lavoro, si può e si deve. Cancellare del tutto il declino appare improbabile. Si è qui parlato più volte delle tendenze demografiche contemporanee, mondiali e nazionali.
Negli ultimi cinquant’anni è stata talora usata la nozione di inverno demografico per descrivere l’invecchiamento della popolazione, da parte sia di studiosi interdisciplinari che di rappresentanti istituzionali. Il riferimento alla stagione attuale e alla stagionalità del fenomeno è efficace ma non va assunto acriticamente: non abbiamo toccato l’apice e il ciclo è secolare, con una forte componente inerziale. Comunque, in un Angelus di inizio febbraio 2021 anche papa Francesco ha affermato con preoccupazione che l'Italia vive il suo "inverno demografico" e che la denatalità la mette "in pericolo”: “Cerchiamo di fare in modo che questo inverno demografico finisca e fiorisca una nuova primavera di bambini e bambine". Ha ragione, non c’è dubbio, sia per l’allarme che per l’auspicio. Si parla quasi di un dimezzamento della popolazione italiana entro la fine del secolo. Gli squilibri demografici influiscono sulle presenti diseguaglianze generazionali, sul futuro sviluppo sostenibile e sulla qualità complessiva della vita. Residenti in Italia il primo gennaio 2021 eravamo 59.641.488 donne e uomini. L’anno prima eravamo 60.433.360, un calo vertiginoso di circa 800.000, non certo dovuto al pur notevole aumento dei decessi legati alla pandemia, ancora meno di 100.000, un declino persistente e progressivo. Occorre considerare che la popolazione residente nel nostro paese cala per il sesto anno consecutivo, nonostante il saldo migratorio con l'estero risulti ancora positivo, ovvero diminuiscono gli ingressi di stranieri in Italia, mentre gli italiani che vanno a vivere all'estero sono superiori a quelli che rientrano.
I Paesi in cui la popolazione sta diminuendo sono già più di venti; nel 2050 saranno oltre trentacinque, i più opulenti, i più ricchi. Presto anche i più grandi Paesi in via di sviluppo, i cui tassi di fecondità sono già in discesa, inizieranno a ridursi rispetto al numero di abitanti. Non c’è nessun rischio né di invasione, né di sostituzione, in nessun Paese delle democrazie occidentali almeno. Gli afroamericani e i latinoamericani non sommergeranno l’America Bianca (né gli arabi l’Europa) con i loro vertiginosi tassi di fecondità; di fatto la fecondità dei gruppi etnici tendono a uniformarsi a quella del paese d’immigrazione. La realtà attuale è che in tanti paesi europei e occidentali il numero di abitanti non cresce, anzi declina; già oggi percepiamo poco e assistiamo inermi al calo demografico (appena appena attenuato da immigrazioni sempre più avversate e complicate); nessuno riflette bene e politicamente sugli effetti dello spopolamento assoluto, ancor più evidente all’esterno delle grandi città, rispetto al quale non si potrà che abbracciare, prima o poi, sia l’immigrazione che il multiculturalismo. Certo, le migrazioni sono un fenomeno asimmetrico e diacronico, l’immigrazione non è comunque una soluzione definitiva al problema dell’invecchiamento e del declino della popolazione: i migranti non sono tutti giovani, contribuiscono alla fuga dalle campagne verso le città, adottano rapidamente il modello di fecondità del paese che li ha accolti, riequilibrano i cittadini abitanti in singoli paesi ma non bloccano il processo globale che in un trentennio dovrebbe portarci al picco di popolazione mondiale e all’inizio del calo. Adattiamoci per tempo.