SCIENZA E RICERCA

In Salute. Diabete di tipo 2: più conoscenze studiando anche il genoma di popolazioni non europee

Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Internation Diabetes Federation e relativi al 2019 nel mondo le persone con diabete, nella fascia di età tra i 20 e i 79 anni, sono circa 463 milioni e da qui al 2045, se la diffusione della malattia continuerà ad aumentare ai ritmi attuali, diventeranno 700 milioni.

La stessa IDF, che raccoglie le oltre 230 associazioni nazionali del diabete sparse nel mondo in più di 160 paesi, ricorda inoltre che nel 2019 questa patologia - caratterizzata da una presenza eccessiva di glucosio nel sangue, determinata da un’alterazione nella quantità o nei meccanismi di funzionamento dell’insulina - ha provocato la morte di oltre 4 milioni di persone a livello globale e secondo l’Oms passerà dall’undicesima alla settima causa di morte nel mondo entro il 2030, salendo ancora di più di posizione nei paesi a maggiore reddito.

Partendo da queste brevi premesse si comprende bene come il diabete rappresenti una grande sfida globale perché è una malattia che impatta su diversi organi, espone ad un più alto rischio di infarti e ictus, riduce l’aspettativa di vita ed è responsabile di molte conseguenze gravi che interessano, ad esempio, la vista, i reni e gli arti inferiori, con alterazioni della circolazione sanguigna che possono favorire lo sviluppo di ulcere.

Circa il 90% dei casi di diabete è di tipo 2 (detto anche diabete mellito) e tende ad esordire in età adulta. Durante il primo periodo la patologia può non essere accompagnata dai sintomi classici (tra cui aumento della sete e della diuresi, stanchezza, alterazioni dell'appetito e visione offuscata) e questo complica le possibilità di una diagnosi precoce. In Italia, secondo i numeri diffusi in occasione dell'ultima Giornata mondiale del diabete, le persone affette da questa malattia sono circa 4 milioni (inclusi quasi 500 mila diabetici insulino-dipendenti) e si stima che un'altra ampia fetta di persone (circa un milione di soggetti) sia ancora inconsapevole di avere sviluppato la patologia. 

Diversamente da quello di tipo 1 che è caratterizzato, per ragioni che non sono ancora del tutto note, dalla distruzione su base autoimmunitaria delle cellule beta del pancreas che producono insulina, nel diabete di tipo 2 la conoscenza dei fattori di rischio è più completa e comprende elementi genetici, epigenetici e ambientali. A favorire lo sviluppo della patologia sono condizioni come l'obesità, l'eccessiva sedentarietà e il progredire dell'età ma anche la familiarità riveste un ruolo importante, soprattutto se ad essere affetti dalla malattia sono parenti di primo grado, ed è per questo motivo che si parla di predisposizione ereditaria. 


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Estendere la comprensione delle basi genetiche del diabete di tipo 2 è un compito importante per la ricerca scientifica. Tuttavia fino a questo momento la quasi totalità degli studi di epidemiologia genetica si era concentrata sulla popolazione europea, quindi senza incorporare in maniera sufficiente soggetti di origine diversa. Eppure già da diverso tempo si è osservato che il diabete ha un'incidenza elevata anche in molti paesi extraeuropei, con ritmi di crescita ancora superiori rispetto a quelli che si registrano nel vecchio continente.

A superare questo limite è stato un ampio studio internazionale, pubblicato nei giorni scorsi sulla rivista Nature Genomics, che ha inserito nella propria coorte il 30% di individui di origine orientale, ispanica, afroamericana, sud asiatica e dell'Africa subsahariana. Questo lavoro, guidato dall'università inglese di Exeter, è frutto della collaborazione internazionale MAGIC, composta da oltre 400 accademici globali, ed è stato realizzato attraverso una meta-analisi di associazione sull'intero genoma di oltre 280 mila persone (circa un terzo dei quali di origine non europea). 

L’ampliamento del campione di popolazione su cui è stato realizzato lo studio ha permesso di individuare un numero maggiore di loci, o regioni del genoma, collegati a tratti correlati al diabete di tipo 2. Se la ricerca fosse stata condotta solo in Europa non sarebbe infatti stato possibile identificare 24 nuovi loci associati alla malattia, con tutte le relative conseguenze in termini di prevenzione, monitoraggio dei fattori di rischio e diagnosi.

Il diabete di tipo 2 è una malattia multifattoriale e i geni che hanno un ruolo nella predisposizione allo sviluppo di questa patologia sono numerosi. E’ bene precisare che la componente genetica, così varia e diversificata anche in termini di capacità di alterare i meccanismi collegati all’insulina, rappresenta un fattore di rischio per la manifestazione della malattia ma non la sua causa in termini diretti. Per questo motivo la prevenzione ha ampi margini di efficacia sia nella fase in cui si cerca di evitare l’esordio della malattia, sia quando è necessario rallentarne la progressione e gli effetti sull’organismo.

Per comprendere meglio i risultati dello studio pubblicato su Nature Genetics e le prospettive che apre in termini di prevenzione e diagnosi del diabete di tipo 2 abbiamo intervistato il professor Ele Ferrannini che ha partecipato al lavoro di ricerca insieme al suo team dell'Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa. Ferrannini, che è anche ordinario di Medicina interna all'università di Pisa, è un diabetologo di fama mondiale ed è stato anche l'unico italiano ad aver conquistato la Banting Medal for Scientific Achievement dell'America Diabetes Association.

L'intervista al professor Ele Ferrannini, ordinario di Medicina interna e ricercatore dell Cnr di Pisa, tra gli autori della meta-analisi che ha approfondito lo studio delle basi genetiche del diabete di tipo 2. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

"Gli studi genetici - introduce Ele Ferrannini, ordinario di Medicina interna all'università di Pisa e ricercatore all'Istituto di fisiologia clinica del Cnr - dipendono dalla numerosità del campione. Per questa ragione un numero abbastanza elevato di centri viene invitato a contribuire con i dati in loro possesso, specialmente se si riferiscono a coorti di pazienti o di partecipanti che sono stati accuratamente studiati per la definizione del fenotipo fisiologico e clinico e magari nei quali è stato già effettuato un GWAS, vale a dire uno studio di associazione genome-wide".

Per questa specifica meta-analisi dedicata al diabete di tipo 2 il gruppo di lavoro del professor Ferrannini ha contribuito con un data base di circa 1500 soggetti, su un totale di quasi 300 mila persone a cui si riferiscono i risultati di questo studio. "Nel nostro caso tutte le persone erano di origine europea. Questi individui erano stati accuratamente fenotipizzati ed era già stato fatto il GWAS. Da qui in avanti - spiega Ferrannini - comincia il territorio della genetica avanzata: per stabilire le associazioni occorrono dei caratteri e nel caso di questo lavoro sono stati presi in considerazione la glicemia a digiuno, l’emoglobina glicata, la glicemia a due ore da un carico orale di glucosio e la concentrazione di insulina a digiuno. Per ciascuno di questi tratti, che sono direttamente pertinenti con la definizione di diabete, è stata fatta una ricerca sistematica di tutto il genoma per individuare dei siti, o loci, che siano ad essi associati".

Queste analisi che hanno l'obiettivo di individuare i geni collegati al diabete possono essere effettuate sia valutando la presenza o l'assenza della malattia oppure, come è stato fatto in questo studio, analizzando i tratti caratteristici della patologia. Naturalmente, precisa il docente, considerata la numerosità dei loci esplorati occorre che questo legame sia rilevante. 

Il drive genetico del diabete di tipo 2

L'esistenza di un drive genetico nel diabete di tipo 2 è nota praticamente da sempre e, ricorda il docente, sono diversi gli studi che hanno permesso di valutare l’aggregazione intrafamiliare del diabete oppure la concordanza del diabete in gemelli monocoriali o bicoriali. "Va sottolineato che esiste un drive genetico anche per il diabete di tipo 1 ma, sebbene ci siano zone di sovrapposizione, è quasi completamente distinto dal diabete di tipo 2. Ci sono anche forme intermedie di diabete che hanno alcune caratteristiche del tipo 1 ma un fenotipo clinico più simile al tipo 2. L’aspetto critico di tutti questi studi è la definizione esatta del fenotipo clinico, se si tratta cioè di un classico diabete di tipo 2 o di qualche forma mescolata da tratti tipici del diabete di tipo 1", sottolinea Ferrannini (riferendosi a circostanze come la dipendenza da insulina o una maggiore precocità dell'età di insorgenza della malattia). 

L'ampliamento del campione a soggetti di ascendenza non europea

Un forte limite della ricerca che fino a questo momento ha indagato le componenti genetiche del diabete di tipo 2 è che ha quasi completamente escluso dai suoi campioni le popolazioni di origine non europea e questo nonostante il fatto che i più forti aumenti nell'incidenza di questa malattia si stiano verificando proprio al di fuori dell'Europa. La professoressa Inês Barroso dell'università di Exeter, che ha guidato lo studio pubblicato su Nature Genetics, ha affermato che "mentre ci sono molti fattori genetici condivisi tra diversi paesi e culture, la nostra ricerca ci dice che ce ne sono altri che differiscono, in modi che dobbiamo comprendere" e ha sottolineato che questo è un passo fondamentale affinché si possa arrivare a una "medicina del diabete di precisione che ottimizzi il trattamento e la cura per tutti". 

Ampliare la prospettiva, allargando l'indagine a popolazioni di diversi gruppi etnici, era proprio l'obiettivo principale di questo nuovo lavoro di ricerca. "La maggior parte dei lavori di genetica di questo tipo è stata effettuata in popolazioni europidi, mentre molto meno è stato fatto in popolazioni orientali, ispaniche e dell’Africa subsahariana. L’intento specifico dello studio - sottolinea il professor Ele Ferrannini - era capire se la differente penetranza della pressione genetica verso la malattia, che si riscontra in popolazioni di lignaggio diverso, fosse associata a loci differenti da quelli che tipicamente si identificano in uno studio mono ancestrale".

Al termine della meta-analisi è stato possibile accertare che se la ricerca fosse stata condotta solo su popolazioni europee sarebbero stati scoperti 24 loci in meno che sono risultati associati ai tratti del diabete di tipo 2. "E questo è stato il risultato principale" afferma Ferrannini spiegando che questi nuovi loci identificati sono "variamente distribuiti nelle popolazioni extraeuropee e possibilmente responsabili anche delle differenti manifestazioni cliniche della malattia, sebbene questo aspetto debba essere sviluppato".

Il docente chiarisce meglio questo ultimo punto. "L’insieme della ascendenze non europee rappresenta il 30% del campione totale, quindi la potenza statistica dei risultati relativi ad ognuna di queste altre ascendenze è relativamente ridotta a causa del fatto che la numerosità del campione è più piccola. In questo studio però i genetisti sono andati anche un pezzettino avanti: dopo aver identificato l’associazione con i loci hanno cercato nelle vicinanze il gene, o i geni, che potessero spiegare l’associazione stessa. In questo modo hanno realizzato una figura a raggiera che è l’architettura genetica del diabete di tipo 2".

E questo è un passaggio molto significativo perché una malattia come il diabete, tipicamente poligenica e multifattoriale, non è influenzata da un unico gene. Similmente a quanto accade anche per l'ipertensione e la malattia cardiovascolare, "c’è sempre una costellazione di geni, in varia associazione tra loro, che hanno un ruolo sulla comparsa, più o meno precoce, della malattia", osserva il professor Ferrannini. 

"In questo studio - prosegue - oltre a identificare i geni nelle vicinanze dei loci associati con i tratti che abbiamo descritto si è cercato anche di capire per quali e quante proteine codificassero questi geni e in quale regione dell’organismo, quindi muscolo scheletrico, pancreas, tessuto adiposo, intestino. Anche perché si sa che nel diabete di tipo 2 molti organi e sistemi concorrono allo sviluppo del quadro clinico del paziente, che generalmente è molto eterogeneo. Questi sono però tentativi imperfetti e imprecisi perché stabilire la causalità e determinare che a provocare l’aumento della glicemia è, ad esempio, la presenza di un certo gene, con una certa espressione e in un particolare tessuto, richiede molta più ricerca e non bisogna mai tralasciare il fatto che l’intera componente genetica è sempre in interazione con i fattori ambientali, come lo stile di vita".

Non solo genetica: l'importanza dei fattori ambientali

Il passo successivo di questa linea di ricerca è capire quanto impatta la predisposizione genetica sulla comparsa della malattia. E sotto questo profilo il professor Ferrannini chiarisce che "fattori non genetici, o epigenetici o acquisiti, o tutti e due, sono responsabili di una parte predominante della variabilità che si osserva nella popolazione". Il concetto di rischio, sottolinea il docente, è quindi molto diverso da quello di causalità ed è importante che questa distinzione sia comunicata in modo chiaro al paziente e alla popolazione in generale.

La presenza di una predisposizione al diabete di tipo 2, che si può desumere dall'analisi della storia familiare, "non implica un effetto diretto, lineare e irreversibile sullo sviluppo della malattia e quindi non vuol dire che quel paziente è condannato", ma richiede "una particolare attenzione a quei fattori, legati allo stili di vita, che rappresentano un rischio per lo sviluppo del diabete". 

"Il primo tra tutti - conferma il professor Ele Ferrannini - è l’obesità perché in tutte le ascendenze che sono state studiate è risultato essere il fattore di rischio più potente per lo sviluppo del diabete". A tale proposito anche quando l'influenza dei geni è stata studiata attraverso algoritmi capaci di calcolare il rischio poligenico è risultato che a dominare sono sempre i fattori ambientali. La principale causa modificabile del diabete è dunque l'eccesso ponderale e gli sforzi di prevenzione devono concentrarsi in modo particolare su questo versante. Oltre ad un controllo dei peso corporeo è poi importante limitare la sedentarietà e seguire appropriate indicazioni nutrizionali.

Gli aspetti terapeutici e la frontiera dell'epigenetica

Il trattamento terapeutico del diabete di tipo 2 ha l'obiettivo di mantenere sotto controllo la glicemia per evitare o almeno rallentare la progressione della malattia e i danni che può comportare su diversi organi. I farmaci su cui si può contare sono molti e l'efficacia è soddisfacente."Oltre alle raccomandazioni legate agli stili di vita, quindi limitare l’aumento di peso o disfarsi dell’eccesso di peso, evitare la sedentarietà, e qualche suggerimento sulla qualità dell’alimentazione, abbiamo a disposizione circa 12 classi di farmaci e un’estesa varietà di insuline che si possono utilizzare sia come trattamento di base, sia come trattamento delle escursioni post prandiali. Questo da una parte è un vantaggio perché mette a disposizione diversi strumenti per aggredire la malattia o per prevenirla, ma dall’altra parte può rappresentare anche un elemento di difficoltà per il medico che deve orientarsi tra queste classi di farmaci e tra le loro possibili combinazioni", spiega il professor Ferrannini. 

Un'altra frontiera che è necessario esplorare attentamente è quella dell'epigenetica, cioè le modifiche dell'espressione dei geni che avvengono dopo la nascita e sono indotte dall'interazione con fattori ambientali. "E' un punto toccato anche da questo lavoro e sono cambiamenti che interessano non la struttura primaria del gene ma quella secondaria o terziaria e che portano a modifiche nel funzionamento, quindi l’espressione o la traduzione in proteine. L’epigenetica è un ramo della genetica che presenta altrettante varianti, è quindi un universo nell’universo che rappresenta uno dei punti di incontro tra la predispozione genetica e i fattori ambientali", conclude Ferrannini.

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