CULTURA

La direzione del pensiero: Marco Malvaldi ci racconta il suo ultimo libro

La direzione del pensiero è l’ultimo libro del chimico scrittore Marco Malvaldi: un saggio con disegni, formule (poche), storie vere e persino barzellette che compongono una riflessione sul concetto di causalità, cioè su come stabiliamo l’esistenza di cause e conseguenze poggiando i nostri ragionamenti su una scienza che assomiglia molto alla filosofia, e viceversa. È un libro che si legge e si rilegge, e che ha il pregio di mettere insieme idee di provenienza diversa in maniera dotta ma divertente, combinazione a cui del resto Malvaldi ci ha abituati da un pezzo. Non è però un libro facile (altrimenti non sarebbe “dotto ma divertente”) perciò vale la pena fare al suo autore qualche domanda in più.

Nell'introduzione parli della causalità come una disciplina a sé che nasce dove la matematica e la filosofia si incontrano e fanno cose utili, come aiutarci a prevedere il futuro. Quando poi arrivi all'ultimo capitolo e parli della coscienza introduci l'idea di una granularità del futuro per cui bisogna trovare il giusto compromesso affinché l'informazione causale ci sia utile nel mondo reale. Ci stai dicendo che, va bene: la matematica e la filosofia per maneggiare la logica, i numeri, le formule... Ma alla fine per stare al mondo ci serve anche un po' di contatto con la biologia umana o sbaglio?

No no, sei nel giusto. Credo che usare al meglio le proprie capacità intellettive sia spesso questione di scegliere il giusto compromesso; il fatto è che il nostro tempo su questa Terra è limitato, e adottare metodi di calcolo e/o di inferenza precisi ma lenti potrebbe essere controproducente. Il nostro cervello fonda la propria potenza proprio su questa capacità di switching da una modalità razionale a una intuitiva, che ci permette di interagire con un mondo e con degli esseri che cambiano a una velocità che sarebbe ingestibile con un calcolo rigoroso. Tu pensa che incubo sarebbe cercare di sostituire ogni atto intuitivo (tipo guidare) con un atto razionale; va bene, sei in grado di ottimizzare il tempo di viaggio, ma se un'auto ti frena davanti che fai? Dici ?adesso stacchiamo il piede dall'acceleratore, azioniamo il freno che è sito 20 cm a sinistra...” e hai già fatto cinquemila euro di danni. Qualsiasi applicazione dell'intelletto umano non può prescindere da questo dato di fatto, fastidioso ma inevitabile: siamo uomini, siamo enti biologici. Siamo in grado di ragionare proprio grazie alla nostra biologia, e qualsiasi ragionamento sulle capacità della nostra specie fatto senza tenerla in giusto conto cammina vicino all'abisso...

Allora una cosa che abbiamo notato in tanti, in questi mesi di pandemia, sono stati fisici di tutti i tipi disegnare “curve epidemiche”: due assi cartesiani, tempo, numero di casi e giù la curva. Come se non fosse necessario sapere un sacco di cose in più, oltre i numeri, per interpretare la curva, che è la cosa che ci interessa davvero. Quando nel libro parli di “causalità come intervento” mi pare che anche tu sostenga che per capire l'andamento delle cose non basta il riduzionismo dei nostri modelli con le freccette perché per interpretarli ci vuole un po' di conoscenza in più. Non so se riusciremo a farlo capire a un fisico*… ma riusciremo mai a farlo fare a un computer?

Temo che le due cose siano inscindibili. Mi spiego meglio: se riusciremo a farlo fare a un computer il significato non sarà "yuhuu, adesso il computer può farlo al posto mio!". Ma "yuhuu, ho capito qualcosa sul cervello umano!". È vero che tracciando il giusto modello con le freccette si può distinguere tra cause e conseguenze, ma è fondamentale sottolineare che quel modello lo abbiamo tracciato noi: abbiamo scelto innanzitutto le variabili che ci sembravano importanti, escludendo quelle a cui non abbiamo accesso, e ci siamo immaginati un processo, una traiettoria che andasse dall'uno all'altro. È un processo di selezione, innanzitutto, e poi di ricostruzione a posteriori: un po' come tentare di riprodurre un piatto dopo averlo assaggiato. In primo luogo, non è semplice: se hai già gli ingredienti giusti a disposizione, devi comunque immaginarti la procedura per combinarli, e se non sai distinguere un oggetto fritto da uno bollito puoi sapere tutta la fisica che vuoi, ma vai poco lontano. In secondo luogo, se non hai gli ingredienti, be', non mi puoi dire "fidati che la ricetta è questa" senza averla provata. Magari hai ragione, ma il mio scopo non è avere ragione: è mangiare. Mica posso mangiarmi il foglietto con la ricetta: non sono un bovino e la carta non la digerisco...

Nel tuo libro c'è un filo rosso: la scienza che sfuma nella filosofia, e i matematici che dicono di sé "sono un filosofo". Anche tu alla fine ammetti di aver fatto finta di parlare di scienza ma di avere in realtà fatto della filosofia. Però di fatto poi citi solo Hume. Non sarà che la causalità, almeno oggi, è più oggetto da scienziati che da filosofi?

Quello che mi premeva dire è che al momento è possibile - cosa che qualche anno fa era impensabile - poter distinguere, in determinati casi, fra cause e conseguenze grazie all'analisi dei dati e quindi grazie alla matematica. In realtà cito altri filosofi, come ad esempio David Lewis e il suo Counterfacutuals del 1979, che però non è altro che una riproposizione della tesi di Hume: A causa B se, rimuovendo A e solo A dal mondo, B non avviene. Se parlo così diffusamente solo di Hume, è perché la sua teoria filosofica e il fulcro della causalità matematica contemporanea. Voler limitare la causalità alla matematica, senza ricorrere alla filosofia, sarebbe uguale a dire "okay, abbiamo capito tutto, da adesso in poi è solo tecnica." Non credo affatto che sia così, e non lo spero.

Ma, dall’altra parte, perché dici che l'analisi dei dati è una disciplina filosofica?

L’analisi dei dati non è altro se non il tentare di costruire una traiettoria mentale che spieghi i dati passati e sia in grado di prevedere quelli futuri, usando solo l’astrazione e non l’esperimento materiale. Non ci sono limiti agli strumenti mentali che possiamo usare per tentare di prevedere i dati. Se non è filosofia questa…

Il battesimo della causalità come disciplina scientifica avviene con Norbert Wiener, che al tempo della seconda guerra mondiale cercò di prevedere con un algoritmo le traiettorie degli aerei in modo da progettare un sistema di puntamento automatico. Per riuscirci partì da una assunzione che potrebbe sembrare banale, ma che è la base della causalità: il passato può determinare il futuro, ma il futuro non può determinare il passato. La causa viene prima della conseguenza. Se non avesse fatto questa assunzione, non avrebbe potuto risolvere il suo problema.  Ma molti fraintesero il significato della sua frase: Wiener intendeva dire “se conosco le cause sono in grado di prevedere il futuro“, ma in parecchi capirono “se sono in grado di prevedere il futuro allora ho capito le cause“.

Sai che però, da medico quale sono, e in epoca di epidemie, mi ha stupito non trovarci la causalità secondo Robert Koch. Perché per noi comincia tutto lì, dai postulati di Koch, che sono di molto precedenti al lavoro di Wiener. Che fai, anche tu snobbi la storia della medicina?

No, semplicemente non li conoscevo. Li ho letti adesso e li trovo geniali, è una perfetta applicazione del principio del quale si parlava all'inizio: individuare una suddivisione del mondo che ti permetta di spiegare il massimo numero di fenomeni possibile.

Ultima domanda. Alla fine del tuo ragionamento salta fuori niente meno che la coscienza. Perché?

Perché si ritorna sempre lì. Secondo me la coscienza nasce dalla domanda controfattuale "come sarebbe il mondo se non ci fossi io?". È una domanda che i nostri sensi ci pongono in continuazione, cerchiamo di capire dove è il confine tra noi e il resto del mondo, interagendo con ciò che ci è accessibile e osservando ciò che non lo è, e cercando di capirne i cambiamenti. E alla fine, tutto ci riporta lì, all'origine della nostra consapevolezza.

Credo che la conoscenza umana proceda per stadi successivi: prima ti rendi conto che c’è un problema, poi cerchi di formulare una domanda che ti aiuti a definire quel problema, E poi cerchi di rispondere a quella domanda. Una volta che hai risposto, le nuove conoscenze che hai acquisito porteranno a loro volta altri problemi, di cui non ti potevi rendere conto nella tua precedente ignoranza. E allora, visto che ti sei reso conto che c’è un problema, cerchi di formulare una domanda eccetera eccetera...

* cari amici fisici: STO SCHERZANDO. Voi potete fare qualsiasi cosa, è ovvio.

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