CULTURA

La direzione del pensiero scientifico, anche fuori dall’accademia

Formulare “perché?” è una scienza e un’arte di nessi. Presuppone almeno due differenti entità di spazio o tempo o accadimento materiale. Là e altrove, prima e dopo, questo e quello, almeno due, talora più, talora innumerevoli. Un nesso può esistere o può anche non esistere, se non esiste potremmo pure cercarlo e però non trovarlo, oppure supporlo sbagliando, oppure trovarne altri: potremmo non cercarlo né trovarlo, eppure esistere a nostra insaputa, non conoscerlo potrebbe fare la differenza o essere indifferente; se esiste può andare in un senso o nell’altro, risultare contingente o automatico, manifestarsi a livello cognitivo oppure anche o solo a livello emotivo, essere una necessità o un caso (tanto che il refuso che confonde causalità con casualità è un classico, anche labiale, anche involontario). Chi può dirlo? Da tempo la causalità è una componente di varie discipline sociali e scientifiche (filosofia, diritto, economia, medicina, psicologia, matematica, fra le altre) e forse ormai vera e propria autonoma disciplina scientifica. Molto dipende dal linguaggio che si usa.

I linguaggi sono tanti, anche all’interno delle grafie letterarie e numeriche le combinazioni possono dar luogo a sistemi diversi e non comunicanti (come gli apparati linguistici nazionali o i sistemi operativi digitali). Nella relazione con la nostra coscienza ci chiediamo di continuo perché. Nel rapporto con altri chiediamo spesso e rispondiamo spesso attraverso frasi con almeno un perché. Il perché è alla base della crescita biologica oltre che culturale dei sapiens e dell’imparare a comunicare. Le nostre capacità si sviluppano nel tempo, in maniera lenta ma esponenziale, costruendosi su robustissime basi: fondamenta che sono astratte e concettuali, più che fisiche e intellettuali. La principale capacità di Homo sapiens è proprio il linguaggio astratto che ci permette di collaborare in maniera flessibile e in grandi numeri. Così, soprattutto da bambini ma non solo, rivolgiamo spesso a noi stessi e agli altri domande sul perché di ogni cosa, oggetto evento dinamica, e tendiamo a suddividere i problemi prevalentemente in base ai dati che abbiamo per risolverli. Lo notava recentemente Marco Malvaldi, introducendo il suo nuovo bel libro: La direzione del pensiero. Matematica e filosofia per distinguere cause e conseguenzeRaffaello Cortina Milano, 2020, pag. 206 euro 19. Se ne è già parlato.

C’è ormai una vera e propria disciplina scientifica che esamina la capacità astratta di noi sapiens di poter distinguere tra cause ed effetti, si chiama appunto la causalità, uno dei tanti punti di incontro tra la matematica e la filosofia e tra due dei loro principali ingredienti: le serie temporali, ovvero l’esame dei valori di variabili che cambiano nel tempo, e il sensodelle relazioni, ovvero le possibili ipotesi di una direzione nelle relazioni fra le variabili esaminate. La nuova materia può essere introdotta valutando la causalità sotto tre successivi aspetti, ovvero come capacità di: predizione, prevedere il futuro; intervento, agire in concreto rispetto agli eventi presenti o, in astratto, a eventi già successi; coscienza, porre e porsi ulteriori differenti connesse domande sulla comprensione e sul fraintendimento, soprattutto sulla possibile origine di uno dei processi più misteriosi della mente umana, proprio la stessa coscienza. Serve l’aiuto di altre discipline, ovviamente, come la fisica, la medicina, la linguistica e tante altre, anche narrative. Siamo curiosi, pur se il “noi” assimila troppo, scrittori e lettori, singoli individui e intera specie. 

Il chimico Malvaldi si è imbattuto alcuni anni fa in questa nuova antica disciplina scientifica e ne ha poi esplorato i confini con acuto senso del limite. Ne era affascinato e non riusciva subito ad addomesticarne gli strumenti. Lentamente ne è venuto a capo e, per poter essere certo di averla capita bene e di poter realizzare i calcoli connessi in piena autonomia, forse anche per comprenderla ancor meglio, ha scritto e pubblicato un efficace saggio su come distinguere le cause dagli effetti, almeno un poco. Con l’ausilio di molti diagrammi, figure, grafici, formule e di innumerevoli divertenti metafore o digressioni (letterarie e talora personali, ironiche e biografiche, fra le quali questa volta segnalo argute battute sui fisici), pur scontando il carattere ostico di alcuni paragrafi e lasciando in appendice l’argomento più specifico, illustra in modo chiaro gli elementi principali della materia. 

Il volume consta di un’introduzione generale, di otto capitoli distribuiti in tre parti (ognuna con un prologo) e di un epilogo, complessivamente di 14 paragrafi che sempre prendono spunto da uno studioso in carne ed ossa degli ultimi secoli, primo Karl von Robitansky, anatomista esperto di autopsie a Vienna nel 1876. Seguono il matematico Norbert Wiener e l’economista statistico Clive Granger. Poi David Hume, il fisico Randall Munroe, Gottfried Wilhelm Leibniz, il filosofo David Lewis, lo statistico Donald Rubin; tutti filtrati dalle ricerche del vero esplicito studioso di riferimento per tutto il volume, lo scienziato informatico Pearl, premio Turing 2011, noto per aver ragionato sul un approccio probabilistico all’intelligenza artificiale e per aver sviluppato una dettagliata teoria dell’inferenza causale. 

Judea Pearl (4 settembre 1936) nacque a Tel Aviv da genitori ebrei immigrati, prima dello stato di Israele durante il mandato britannico per la Palestina, si laureò in ingegneria elettrica nel 1960 e si trasferì poi negli Stati Uniti dove divenne professore universitario, a lungo di informatica e statistica. Malvaldi ne apprezza in particolare l’efficace capacità di aver matematizzato la modellazione causale nelle scienze empiriche, tenendo anche presente che i suoi libri non sono tradotti in italiano, non Causality. Models, Reasoning, and Inference, Cambridge University Press 2000 (2° ed. 2009), non (con Madelyn Glimour e Nicholas Jewell) Causal Inference in Statistics: A Primer, Wiley 2018, né infine (con Dana Mackenzie) The Book of Why: The New Science of Cause and Effect, Basic Books 2018. Le sue regole della probabilità condizionale sono descritte nell’appendice.

I paragrafi conclusivi del testo prendono ancora spunto dal terapista Thomas Myers, dal biologo Gerald Edelman e dallo psichiatra neuroscienziato Giulio Tononi. Frequenti e utili lungo tutta la narrazione sono i riferimenti alla pandemia in corso, in particolare alla mortalità comparata fra Italia e Cina. L’indice analitico elenca i nomi di persone citate, variegato e variopinto. La conclusione torna saggiamente a Dante (il linguaggio ha accesso alle parti più recondite del nostro cervello, cambia nel tempo e serve a comunicare fra noi umani) e va oltre: il linguaggio serve anche a capire e organizzare meglio ciò che pensiamo e proviamo noi stessi, contiene segni astratti concettuali espressivi sia attraverso segni, parole, frasi sia attraverso numeri, proporzioni, misure; almeno due linguaggi, dunque, da conoscere e compenetrare per definire tanto una causa o un effetto quanto le relative relazioni, ci sia o meno un “perché” di mezzo.

Lo scienziato, grande allegro scrittore e notevole multidisciplinare studioso, Marco Malvaldi (Pisa, 27 gennaio 1974) alterna generi e materie attraverso uno stile sempre godibile e curato, da toscanaccio scientifico tifoso del Torino. Si è affermato come “giallista” con tanti romanzi di successi Sellerio, divenendo famoso per la serie dei vecchietti del BarLume di Pineta (anche in tv), sette romanzi e una decina di racconti (2007-2018). Dal 2011 al 2020 ha mantenuto fedeltà al genere, scrivendo però gialli d’intrattenimento con altri protagonisti, alcuni emeriti sconosciuti, altri storicamente adattati (fra i quali Leonardo da Vinci per Giunti e, due volte, Pellegrino Artusi), quasi uno l’anno, otto in tutto. In ogni “giallo” le competenze scientifiche e le passioni numeriche hanno sempre garantito una severa attenzione per i termini e le definizioni, il retroterra degli ingranaggi delle trame, le diversioni ironiche entro schemi fisicamente unitari. Poi, comunque, dal 2011 a oggi ha anche pubblicato dieci saggi scientifici, un paio come coautore, gli altri da solo, per vari autorevoli editori, fra gli altri Rizzoli, Laterza, Raffaello Cortina. Non si tratta esclusivamente di divulgazione o comunicazione, dietro c’è una memoria di laboratori e ricerche e un’attività di autonomo valore scientifico. E qui veniamo a un punto da sottolineare.

Forse Malvaldi aveva capacità e vocazione di scienziato “integrale”. Da poco dopo la laurea in chimica, fra il 1992 ed il 2005 lo scrittore ha frequentato il dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell'Università di Pisa (dove era stato studente, ottimo e burlone), ha conseguito un dottorato di ricerca ed è stato assegnista di ricerca. In seguito è stato ancora assegnista per due anni presso il dipartimento di Farmacia. Avrebbe proseguito volentieri, a quel tempo. Le dinamiche dell’accademia si complicarono, l’attività di scrittore portò diversa fama e gloria, Malvaldi si è a malincuore sganciato da un iter di ricerca universitaria in senso stretto. Ecco, il punto è che i suoi contributi di analisi hanno egualmente un rilevante valore culturale scientifico. Talvolta, la separazione e l’impermeabilità delle materie specifiche afferenti alle varie facoltà rischiano l’autoreferenzialità, si chiudono ad apporti esterni, rispondono a logiche burocratiche.

Il mondo scientifico non si identifica con l’ordinamento universitario, che certo ne è parte rilevante ma funziona troppo spesso per comportamenti stagni e con prevalenti logiche di potere dentro quei compartimenti. Niente di troppo grave, spesso, ci sono regole e percorsi da considerare, relazioni e abitudini da coltivare, criteri e passaggi da rispettare. Nella cittadinanza scientifica globale, tuttavia, vanno presi in considerazione altri percorsi, comparati altri linguaggi, valorizzati altri contributi. Talvolta, alcune strutture accademiche si comportano come fortini nazionali da tener chiusi invece che aperti. Nel migliore dei casi appaiono un po’ di fastidio per altre modi di affrontare la stessa materia, un po’ di gelosia per successi ottenuti fuori da quel cursum honorum, un po’ di resistenza per interazioni e progetti comuni. La “facoltà” tende inevitabilmente a pensarsi come statica e lenta, come qualcosa che ha il diritto di mantenere un lineare status quo (in parte è giusto oltre che legittimo), quasi mai come qualcosa di dinamico e stimolante, che evolve nel tempo e funziona superando gerarchie formali, che si alimenta di pensieri imperfetti, di scintille parziali, di scatti, di contaminazioni. Ciò non fa sempre del bene ai progressi sociali del sapere scientifico. 

Fortunatamente ma non sempre, il reale mostra poi una variabile in più: pur a costo di inutili ostacoli e fatiche, di ritardi e contrattempi, talora emergono studi e ricerche maturati altrove, fuori le sedi universitarie canoniche oppure dentro strutture lontane e ciò fa, invece e comunque, del bene alla conoscenza e alle scienze. Si possono segnalare innumerevoli esempi storici, di personalità e di studi, traversie di scienziati e trasversalità di contributi collettivi. Ovviamente, non si tratta di pre-assegnare definizioni di genio o previsioni di Nobel. Si tratta solo di riconoscere, con metodo, la non esclusività scientifica dell’ordinamento universitario dato. Credo che Malvaldi sarebbe stato un ottimo ricercatore universitario di chimica, innamorato della ricerca pura oltre che della comunicazione narrativa, tuttavia dal suo punto di vista forse è meglio sia andata come è andata. Essere vocati per la ricerca e per la scrittura (come per la politica) non implica che si voglia o debba diventare necessariamente un vertice del pensiero chimico internazionale o un produttore di capolavori letterari (o un eletto in parlamento). La sua vicenda è uno spunto, non un caso. Non esistono sempre nessi causali. Ci possono essere casualità e contingenze, attese troppo lunghe e occasioni perse. Vale per ogni studente e ogni dottorando. Certo è che oggi Malvaldi fa scienza con arte, interdisciplinare e letteraria. E il suo contributo può essere ben valutato a prescindere dal titolo accademico. Perché no?

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