SCIENZA E RICERCA

Ecosistema dell'Alto Adriatico, una mutazione invisibile e irreversibile

Vengono definiti “cambiamenti di regime” e sono variazioni inattese determinate dalla pesca o dal cambiamento climatico globale di origine antropica. Trasformano irreversibilmente ecosistemi "che non sono più in grado di tornare al punto di partenza" (e se cambieranno ancora non è dato sapere), in termini di abbondanza di organismi e processi ecologici, con potenziali ricadute sulla biodiversità e la produttività delle risorse ittiche. 

Dunque, l'ecosistema dell'Alto Adriatico sembra essere cambiato in modo irreversibile. Niente sarà più come prima. Ma di che cambiamento parliamo? E cosa si intende per "prima"? Alcune risposte arrivano dallo studio Stable landings mask irreversible community reorganizations in an overexploited Mediterranean ecosystem, pubblicato sul Journal of Animal Ecology dai ricercatori del dipartimento di Biologia dell'ateneo di Padova, in collaborazione con l'Università di Amburgo e CNR-ISMAR. Camilla Sguotti, ricercatrice post-dottorato nel programma europeo Marie Skłodowska-Curie Actions presso il dipartimento di Biologia dell’ateneo di Padova, è la prima autrice e racconta l’origine di questo studio: "Prima di tornare in Italia lavoravo all'università di Amburgo e lì mi occupavo di cambiamenti di regime nel mare del Nord. Sono sempre rimasta in contatto con Padova, dove ho studiato. A un certo punto, con Carlotta Mazzoldi e Alberto Barausse, abbiamo pensato di applicare gli stessi metodi per studiare anche l'Alto Adriatico, utilizzando la banca dati del mercato ittico di Chioggia. Non esistevano lavori di questo tipo, dedicati cioè alle dinamiche delle diverse specie, ai cambiamenti recenti delle specie nell'Alto Adriatico. E non c'erano lavori sui cambiamenti di regime [...] legati ai tipping points e diventati argomento di discussione con il climate change".

 


Altre notizie: rapporto Fao sulla pesca nel Mediterraneo e Mar Nero

La Fao, Organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura delle Nazioni Unite, attraverso il lavoro della General fisheries commission for the Mediterranean, che opera su scala regionale per la gestione della pesca, ha presentato The State of Mediterranean and Black Sea Fisheries (SoMFi), il rapporto sulla pesca nel Mediterraneo e nel Mar Nero. Nell'ultimo decennio, la pesca eccessiva nel Mediterraneo e nel Mar Nero si è ridotta in modo significativo, ma lo sfruttamento della maggior parte delle specie commerciali è tutt'altro che sostenibile. Il 73% delle specie commerciali è ancora sovrasfruttato e la pressione di pesca, pur essendo inferiore al passato, è ancora doppia rispetto a quella considerata sostenibile. Il rapporto biennale ha rilevato che la produzione nel settore della pesca è diminuita di circa il 15% dal 2020, in parte a causa della pandemia da COVID-19, così come i ricavi e i posti di lavoro del settore. La pesca nel Mediterraneo e nel Mar Nero genera un reddito annuo di 2,9 miliardi di dollari e genera circa mezzo milione di posti di lavoro. In media, un residente costiero su mille è un pescatore e in alcune zone costiere tale numero può essere fino a 10 volte superiore. Tuttavia, la forza lavoro sta invecchiando, non sembra esserci un adeguato ricambio generazionale. La pesca su piccola scala rappresenta l'82% delle navi e il 59% dei posti di lavoro. Impiega anche il maggior numero di giovani, ma i pescatori su piccola scala guadagnano in genere meno della metà del salario guadagnato dai pescatori delle flotte industriali.


 

Il database Clodia ha fornito i dati partendo dagli anni Ottanta. I ricercatori hanno evitato l'analisi di anni precedenti - il database raccoglie dati dal 1945 -, in quanto legati a metodi di pesca antiquati e a una diversa pressione. I dati sono relativi alla pesca, e "questo può determinare un bias rispetto alle informazioni che potremmo ottenere attraverso campionamenti scientifici", precisa Sguotti. A determinare il limite è proprio l'essere umano: "Il pescatore può scegliere una specie e scartarne altre, o ancora, può cambiare area di pesca; con i campionamenti scientifici sicuramente questo problema non si sarebbe posto. In fase di discussione del lavoro, ci siamo soffermati a lungo su questi limiti. Ma c'è da dire che nell'Alto Adriatico la pesca è multi-specifica e quello che i pescatori riescono a prendere, di solito, tengono; esistono quindi delle attenuanti che ci portano a pensare che questi dati rispecchino abbastanza fedelmente la comunità. In ogni caso, in futuro, amplieremo l'indagine e utilizzeremo anche altri dati per poter confermare le nostre teorie". 

I dati parlano chiaro: cambiano le composizioni, le quantità delle singole specie, ma il totale del pescato resta più o meno stabile. E questo può mascherare la situazione reale. Ci sembra che l'ecosistema stia bene, che produca, fornendoci le risorse, ma in realtà si sta semplificando, andando verso una diversa composizione. “Questo è successo anche altrove, negli ecosistemi del Canada, per esempio, e nel Mare del Nord. Il punto è che se si continua a sfruttare, non si sa cosa accadrà: non possiamo arrivare a specie sempre più piccole e sempre più adattabili”. 

Per quanto riguarda le trasformazioni della comunità, "l'Alto Adriatico ha subito grossi cambiamenti determinando quattro fasi della comunità: nel 1980, nel 1987 - questo, in particolare, si è verificato contemporaneamente anche in altri ecosistemi, nel mar del Nord e nel Baltico, per esempio -, nel 1997 e nel 2012. Sono fasi diverse: nella prima erano più abbondanti i grandi predatori, per esempio gli squali e in generale pesci più grandi, ma spostandoci man mano verso i giorni nostri possiamo constatare la presenza abbondante di pesci con life-history più rapide, che si riproducono velocemente, come la sogliola, le triglie di fango, la gallinelle, pesci per la maggior parte demersali, che stanno sul fondo, e anche un crostaceo, in particolare, la canocchia". E Sguotti continua: "Per quanto riguarda la parte pelagica troviamo le sardine, diventate più abbondanti delle acciughe: sull'argomento esistono da tempo alcuni studi che lo confermano e spiegano anche il perché, legando le cause all'aumento delle temperature e alla presenza delle meduse. Le informazioni nuove arrivano invece dalla parte demersale, anche se siamo ancora nel campo delle ipotesi, non esiste infatti letteratura a riguardo. Sulla maggior presenza della sogliola, della canocchia e della triglia abbiamo provato a fare delle ipotesi: cambiando la comunità e semplificandosi, potrebbero esserci prede più piccole nel sedimento, quelle di cui si nutrono, oppure questa trasformazione potrebbe essere legata ad alcune scelte di gestione, come la chiusura di aree di pesca, che erano anche aree di riproduzione della sogliola".

La parte più innovativa dello studio è legata ai metodi: "Studiare questi cambiamenti di regime è difficile e controverso perché, trattandosi di dinamiche discontinue, esistono pochi modelli matematici e statistici in grado di catturarli - precisa Camilla Sguotti -. In passato si è andati a verificare la presenza del tipping point ma non si è mai testata la possibile irreversibilità, perché statisticamente è complicato. Nel corso dei miei studi ad Amburgo, insieme al professore Christian Möllmann, che è anche tra gli autori di questo lavoro, abbiamo individuato un metodo, principalmente usato in economia, che permette di andare a modellare questo tipo di dinamiche discontinue utilizzando una particolare equazione matematica e può indagare la reversibilità o l'irreversibilità del cambiamento. Mette a confronto tre possibili dinamiche basandosi sui tipi di dati e di driver, nel nostro caso la pressione di pesca e i cambiamenti climatici, e il risultato ci dice se siamo in presenza di un cambiamento di regime (regime shift) e se questo è reversibile oppure no. Questo metodo, ancora poco utilizzato in ecologia, fa parte della teoria delle catastrofi di Thom".

"Abbiamo creato due modelli: per studiare la comunità abbiamo dovuto semplificarla perché sarebbe stato impossibile fare una analisi con tutti i dati. Questo metodo richiede una serie temporale della comunità e due serie di driver: pesca e cambiamenti climatici. Attraverso una principal component analysis abbiamo cercato le serie temporali che spiegano la più grande varianza della comunità, quindi è possibile usare due serie completamente nuove per descrivere il 40-50% della varianza. Invece di considerare ogni specie, abbiamo fatto una sorta di riassunto. La prima serie temporale è correlata all'abbondanza delle canocchie, la seconda ai pesci demersali. Nel primo caso si tratta di un cambiamento di regime instabile, che quindi può ancora trasformarsi, e dipende principalmente dall'aumento delle temperatura. Nel secondo caso a incidere è sia la pesca che l'aumento delle temperature: qui vediamo una comunità dominata da sogliole, gallinelle, triglie che sembra stabile e irreversibile. Questo ci dice che è avvenuto un regime shift che ha stabilizzato la comunità in una nuova struttura che dipende principalmente dell'aumento della temperatura: non ci aspettiamo che i cambiamenti climatici possano tornare indietro e quindi risulta impossibile tornare alla comunità iniziale, dominata da squali e altri grandi predatori. Aggiungiamo: il modello può analizzare il passato ma non può prevedere il futuro, quindi non è detto che questa comunità resti stabile per sempre".

Dunque perché impegnarsi nella gestione se, per esempio, i grandi predatori, come gli squali, non potranno più tornare alle condizioni di un tempo? "Non vorrei che passasse un messaggio sbagliato, che si pensasse 'andiamo pure a pescare, tanto non si può tornare indietro'. La verità è che la mitigazione permette all'ecosistema di restare produttivo, nonostante sia sfruttato tantissimo e da decenni. Bisogna, perciò, continuare a impegnarsi nella gestione. Purtroppo non si tiene abbastanza conto delle questioni legate ai cambiamenti climatici, si considerano di più le responsabilità della pesca, ma il climate change sta modificando profondamente gli ecosistemi e questo non viene sempre adeguatamente considerato quando si parla di gestione delle risorse".

Questo progetto di studio è destinato a continuare: "Ora vorremo testare la resilienza delle nuove comunità utilizzando anche dati indipendenti dalla pesca, per avere una idea più chiara delle trasformazioni. Inoltre, cercheremo di sviluppare metodi statistici per stimare la resilienza dell'ecosistema, quindi la sua stabilità, e anticipare i cambiamenti di regime sviluppando indicatori-sentinella che, al momento, restano modelli e che noi invece vorremmo attivare utilizzando dati reali e contando anche sul coinvolgimento dei pescatori. Infine, con la collaborazione dell'Ispra, proveremo a integrare gli indicatori nella marine strategy".

 

Guarda la serie de Il Bo Live dedicata all'Adriatico, con i docenti e i ricercatori della stazione idrobiologica Umberto D'Ancona e i pescatori di Chioggia. Quattro episodi che raccontano il nostro mare, la sua biodiversità, la ricchezza, le fragilità, le minacce, un ciclo di approfondimento che invita a riflettere anche sul contributo che, attraverso comportamenti responsabili e buone pratiche, ognuno di noi può dare per favorirne la conservazione.


 

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