Racconta Giuseppe Flavio (Antichità giudaiche VII, 321–324) che come punizione per uno dei (frequenti) peccati del re Davide “Dio gli inviò il profeta Gad a offrirgli di scegliere fra tre alternative, quella che giudicava migliore: poteva scegliere tra l’avvento di una carestia, o una guerra contro i suoi nemici, o un morbo che colpisse gli Ebrei. … Davide, trovandosi nella difficile situazione di fare una scelta tra grandi mali, ne fu angosciato e grandemente turbato; ma il profeta gli disse che era inevitabile, e gli ordinò di dare presto una risposta di modo che potesse riferire la scelta a Dio. … [Davide] domandò una punizione che fosse comune al re e ai sudditi, una punizione nella quale vi fosse uguale motivo di paura, dicendo, prima di tutto, che era molto meglio cadere nelle mani di Dio che in quelle di un nemico. Udita questa risposta, il profeta la riferì a Dio, il quale perciò mandò agli Ebrei morbo e pestilenza; essi morivano, ma non tutti nella stessa maniera, sicché la malattia si potesse facilmente individuare; ma mentre dilagava un unico male, innumerevoli erano le cause, reali o apparenti, che non permettevano di individuarlo.”
Morbo e guerra compaiono continuamente appaiati oggi, a livello metaforico, nella comunicazione sull’attuale epidemia di Covid–19, in tutto il mondo, sia da parte di giornalisti, dal bollettino parrocchiale ai massimi mezzi di comunicazione della carta stampata e dei sistemi radiotelevisivi, da “esperti” e tuttologhi, ma anche dai responsabili della salute pubblica e dai politici, da un consigliere del mio quartiere fino alla regina d’Inghilterra e al presidente americano Trump (che in realtà ha preso la metafora alla lettera, invocando i poteri costituzionali di guerra, il Defense Production Act).
Non solo abbondano termini come trincea, fronte del virus, assedio, battaglie, economia di guerra, eroi, traditori, disertori, armi, il nemico invisibile, strategie, guerrieri, sconfitte e vittorie (e termini corrispondenti nelle varie lingue), ma in generale il tono dei messaggi e dei resoconti rievoca il clima di paesi in guerra, in uno schematismo che rende spesso difficile affrontare i problemi nella loro specifica natura e drammaticità. Una metafora così diffusa e potente allo stesso tempo possiede appunto la capacità di creare una mentalità globale, un immaginario collettivo, che agisce profondamente sugli atteggiamenti sia dei comunicatori sia di chi riceve il messaggio.
La guerra metafora dell’epidemia
La metafora è una figura retorica che risulta da un processo psichico e linguistico attraverso cui, dopo aver mentalmente associato due realtà differenti sulla base di un particolare sentito come corrispondente, si sostituisce la denominazione dell’una con quella dell’altra. È un procedimento di trasposizione simbolica di immagini, che produce una tensione concettuale che rende la proposizione metaforica logicamente assurda se interpretata alla lettera.
Il linguaggio comune è permeato di continue metafore che ne formano un nucleo essenziale, anche se in alcune espressioni, per la grande diffusione e il lungo uso, la coscienza della similitudine originaria è ormai quasi spenta. Non esiste in realtà una precisa demarcazione fra forme linguistiche assolutamente letterali e metaforiche. Il linguaggio evolve in modo dinamico con continui slittamenti di significato fra il piano letterale e quello metaforico, in continua interazione fra di loro.
Il nostro bagaglio di metafore determina in larga misura cosa possiamo pensare in ogni campo. L’immaginazione umana, inclusa l’immaginazione creativa nella scienza, può funzionare solo evocando impressioni sensoriali potenziali o fantastiche, e aspetti metaforici e non esplicitabili del linguaggio sono alla base della dinamica dei cambiamenti concettuali nella scienza e della disseminazione del significato delle acquisizioni scientifiche.
Il ricorso a metafore (in questo caso catacresi) diventa indispensabile quando ci si trova di fronte a un evento nuovo o a un fenomeno ancora sconosciuto e si tenta di comprenderli ricorrendo all’analogia con un ente o con un fenomeno noto; questo succede normalmente nella scienza che opera alla frontiera della conoscenza, per cui abbiamo, ad esempio, il “colore” delle particelle, i “buchi neri” cosmici, la “doppia elica” del DNA, i “cavalli di Troia” in informatica.
La metafora della guerra è onnipresente nella letteratura, nella comunicazione, nel linguaggio corrente, nella satira, nella moda e nella pubblicità, dal rapporto amoroso al contrasto interiore, dall’ascesi religiosa alla competizione sportiva; abbiamo avuto dichiarazioni di guerra alla fame, alla povertà, alla droga, all’alcolismo, ma anche all’oscenità e al colesterolo. La guerra come metafora morale è limitata, limitante e pericolosa; riducendo le scelte di azione a “una guerra contro un qualcosa” si divide il mondo in noi (buoni) e loro, o esso, (cattivi) e si riduce la complessità etica e la ricchezza morale della vita a una dicotomia secca.
Le metafore di guerra evocano un senso di paura. Diverse analisi linguistiche suggeriscono che questa sia appunto una delle loro funzioni principali nella retorica politica, spesso abbinate a superlativi, per evidenziare la minaccia del problema che si intende affrontare. È stato osservato che la semplicità concettuale che la dichiarazione di guerra accorda allo stato, pur rendendo il problema apparentemente gestibile, ha tre principali effetti dannosi: cerca di semplificare il problema e prolungare così l’inevitabile confronto con la sua complessità; promuove un approccio apolitico al problema (cioè, che non può essere discusso nello spazio pubblico); e scoraggia la ricerca delle cause alla radice del problema, impedendo la critica filosofica, etica e politica e i dibattiti e le discussioni necessari per la risoluzione del problema.
Nel caso delle epidemie il ricorso a catacresi, in particolare alla metafora della guerra, non è assolutamente necessario, dato che il linguaggio specifico era già formalizzato nel corpus Hippocraticum nel V secolo a.c., si è andato affinando epidemia dopo epidemia, e oggi fa parte del linguaggio comune. Di fatto, in una rapida ricerca, non ho trovato impiegata la metafora della guerra in alcune storiche descrizioni di pestilenze, come in Erodoto (Le storie 6.27 e 8.115), Sofocle (Edipo re), Tucidide (La guerra del Peloponneso 2.47–54), Lucrezio (De rerum natura VI), Ovidio (Metamorfosi VII), Plutarco (Vite parallele, vita di Pericle, 34–38), Giuseppe Flavio (Antichità giudaiche) e, in tempi più recenti, Boccaccio (Decameron, dimostrazione dell’autore) o Manzoni (I promessi sposi, XXXI e XXXII). Sembra che il primo a introdurre nella medicina occidentale la metafora bellica sia stato il medico inglese Thomas Sydenham nelle sue Observationes Medicae del 1676.
Nel caso del Covid–19 la metafora bellica crea immagini avvincenti: identifica un nemico (il virus), una strategia, i guerrieri di prima linea (il personale sanitario), il fronte interno (le persone isolate a casa); inoltre, mette in evidenza l’urgenza che sta alla base di drastiche decisioni politiche come la chiusura delle scuole, l’imposizione di divieti di viaggio, un arresto delle economie mondiali. La metafora fa appello al senso del dovere e all’obbligo dei cittadini di servire il loro paese nell’ora del bisogno, mescolando tuttavia le categorizzazioni in modo insidioso. Ad esempio, i cittadini diventano “soldati” in un conflitto e, pertanto, i politici chiedono obbedienza piuttosto che consapevolezza e si appellano al patriottismo, non alla solidarietà. Sostiene l’inevitabilità dell’abbandono dello stato di diritto in cambio della promessa di una rapida risoluzione.
Adottare una mentalità da tempo di guerra ha avuto un grave impatto sui sanitari impegnati, in particolare nelle prime fasi dell’epidemia, consentendo un approccio in cui tutto va bene pur di “vincere”. E mentre potrebbe benissimo esserci un momento per tattiche improvvisate e procedure messe insieme alla bene e meglio nel corso di scontri armati su un vero campo di battaglia, non è mai così che si dovrebbe praticare la medicina, ove le emergenze –persino le pandemie– non sono mai una scusa per le scorciatoie, ma si devono comunque rispettare i protocolli previsti nel trattamento di malati contagiosi, per evitare inaccettabili rischi a pazienti e personale sanitario.
In generale non si deve derogare da rigorosi processi di approvazione dei farmaci, dal mantenimento di elevati standard sui prodotti sanitari, con trasparenza dei dati e del processo decisionale.
La metafora bellica, come ha fatto vedere Susan Sontag, ha pericolosi effetti psico-fisici sui malati, che si sentono “invasi dal nemico” ed esposti a una “sconfitta”, creando ulteriore depressione e ansie durante i trattamenti.
Molti di questi aspetti discutibili, se non dannosi, dell’abuso della metafora bellica per trattare la presente epidemia sono già stati analizzati criticamente e messi in evidenza da giornalisti, esperti di comunicazione e semiologi italiani e stranieri, ma vorrei attirare la vostra attenzione su una possibile conseguenza che non è stata considerata, dovuta alla duplice valenza della metafora.
L’epidemia metafora della guerra
La corrispondenza e l’interazione fra linguaggio letterario e quello metaforico portano alla modifica di entrambi: una metafora ci fa vedere in modo diverso il termine originario e i significati di termini che originariamente erano intesi in senso letterario slittano in senso metaforico: “l’uomo è un lupo” rende l’uomo più crudele ma anche il lupo più umano.
Così la metafora epidemia–guerra può portare a derubricare una guerra a un’epidemia, far pensare che in fondo un conflitto armato è “naturale” e che il suo impatto possa comportare in termini di vittime, sofferenza e conseguenze economiche qualcosa appunto analogo agli effetti della presente pandemia. Pochi italiani sono in grado di ricordare il terribile tragico disastro della seconda guerra mondiale, dopo di che L’Italia è stata coinvolta solo marginalmente nelle guerre “locali” che si sono succedute, senza un effettivo impatto sulla popolazione civile, per cui nell’immaginario collettivo la guerra non è determinata da esperienze dirette.
Per avere un’idea di quanto siano incommensurabili una guerra e la presente epidemia, si può considerare il vicino caso del limitato conflitto in Siria, ove, per inciso, in questi giorni non si riesce a raggiungere una tregua dei combattimenti per permettere il trattamento dei malati di Covid–19; la guerra ha causato 384.000 morti documentate (ma 586.100 stimate) inclusi 118.000 civili, di cui 22.000 ragazzi di età inferiore ai 18 anni. Tenuto conto che i siriani sono 17 milioni di abitanti, abbiamo 23 decessi certi ogni mille abitanti, mentre le morti per Covid–19 in Italia sono 45 per 100 mila abitanti. Le operazioni militari in Siria hanno anche prodotto oltre 2 milioni di feriti, mutilati e con disabilità permanenti, effetti che fortunatamente non compaiono a seguito dell’infezione da coronavirus. Per difendersi dall’infezione siamo stati costretti al distanziamento sociale e a rimanere chiusi in casa, mentre in Siria in milioni hanno perso l’abitazione; oltre 7,6 milioni di siriani sono dislocati nel paese e più di 5,1 milioni sono rifugiati all’estero, in condizioni gravissime.
La pandemia avrà certamente un notevole impatto economico, variamente valutato dalle istituzioni internazionali; il 14 aprile il Fondo Monetario Internazionale prevedeva per il 2020 una diminuzione del PIL globale del 3%, con significative differenze per i vari paesi; in particolare il PIL dell’eurozona è previsto diminuire del 7,5% e quello italiano del 9,1%. Per confronto, la guerra in Siria ha fatto crollare il PIL da 1540 miliardi di lire siriane del 2011 a 640 miliardi di lire siriane nel 2016 (una diminuzione quasi del 60%), con un’inflazione al 30% nel 2017. Al di là dei dati finanziari, il paese si ritrova con gravi danni, o distruzione totale, di infrastrutture, ospedali, scuole, beni pubblici e privati, inclusi siti artistici e culturali.
Ma ogni confronto impallidisce di fronte al rischio di un conflitto coinvolgente armi nucleari, rischio purtroppo crescente negli ultimi tempi; un calcolo realistico delle vittime immediate prodotte da una singola bomba tipica degli arsenali attuali (300 kton) esplosa a 1000 m d’altezza su Trafalgar Square a Londra prevede 240.000 morti e 410.000 feriti, mentre se sul centro di Mumbai oltre 1.100.000 morti e 2.200.000 feriti. Anche un attacco a un centro militare lontano da grandi città ha effetti devastanti: uno studio recente degli effetti dell’impiego di una sola bomba da 220 kton sulla base USA di Aviano (Pordenone) in un giorno di novembre, tenuto conto dei venti dominanti, potrebbe causare oltre 86.000 morti e 156.000 feriti e la contaminazione radioattiva di una vasta zona a cavallo fra Friuli, Austria, Repubblica ceca e Ucraina.
Alla luce delle presenti strategie, non è credibile che un confronto armato fra paesi nucleari possa concludersi con l’esplosione di un solo ordigno e non generi analoga risposta con ulteriori azioni e reazioni. Tenendo conto delle conoscenze attuali sulle caratteristiche dei suoli e dell’atmosfera, è stato studiato un conflitto nucleare “limitato” (100 bombe da 15 kton) fra India e Pakistan: i calcoli prevedono come minimo 42 milioni di vittime, con circa il 40% di morti immediate; il destino dei feriti è intuibile data la distruzione delle strutture e dei presidi sanitari, inclusa la decimazione del personale socio-sanitario. L’impatto sul clima genererebbe un “inverno nucleare” mondiale protratto per alcuni anni, i cui effetti sulle forniture alimentari potrebbero, direttamente o attraverso il conseguente impatto sociale, degradare in modo significativo la sicurezza alimentare globale o persino produrre una lunga carestia, con conseguenze tragiche per oltre due miliardi di persone.
Fortunatamente le guerre, a differenza degli attacchi da virus, non sono eventi naturali inevitabili, con cui si deve imparare a convivere, ma dipendono dalle relazioni fra le nazioni e i gruppi sociali; ricadono quindi sotto la nostra responsabilità e possono e devono venir prevenute svelenando i rapporti internazionali ed riducendo le ingiustizie sociali. Si tratta di ridefinire il concetto di “sicurezza nazionale” da una dimensione puramente militare a tener conto delle vere minacce essenziali alla vita delle società umane, inclusa la dimensione sanitaria e quella culturale.
Non possiamo restare obnubilati da metafore suadenti, ma dobbiamo seguire il saggio re Davide ed evitare a ogni costo la guerra, il male peggiore per ogni comunità umana.