SCIENZA E RICERCA

Eruzione di Hunga Tonga-Hunga Ha'apai: un'occasione per acquisire nuove conoscenze

Come tutte le testate nazionali e internazionali, data l’eccezionalità dell’evento, poco più di un mese fa Il Bo Live riferiva dell’eruzione del vulcano sottomarino Hunga Tonga-Hunga Ha'apai, avvenuta il 15 gennaio nell’Oceano Pacifico. Il fenomeno ha catalizzato l’interesse non solo dei media, ma anche di tutta la comunità vulcanologica che ha continuato a monitorare il vulcano, per cercare di capire esattamente cosa sia successo durante la catastrofica esplosione.

Si tratta di un vulcano, in parte sottomarino, che cambia molto morfologicamente. Grandi eruzioni hanno interessato Hunga Tonga-Hunga Ha'apai circa una volta ogni millennio, con enormi esplosioni intorno al 200 e al 1100 d.C. Nel secolo scorso se ne sono verificate di minori, come nel 1937 e nel 1988. Allora, la cima del vulcano faceva capolino sopra le onde sotto forma di due piccole isole, chiamate Hunga Tonga e Hunga Ha'apai. Dopo quella del 2009, quando il vulcano ha iniziato a eruttare a Hunga Ha'apai, nel dicembre 2014 e gennaio 2015, un’altra eruzione ha formato una nuova terra che ha collegato le due isole, dando origine a un’unica massa terrestre.

In un articolo pubblicato su Nature, viene posto in evidenza che la straordinaria potenza dell’ultima esplosione, in particolare, sembra quasi sfidare le teorie sulla fisica delle eruzioni. I ricercatori stanno trovando difficile spiegare, per esempio, perché il vulcano abbia inviato un pennacchio di gas e ceneri ad altezze tanto considerevoli, ma abbia emesso meno prodotti eruttivi di quanto ci si sarebbe aspettato da un’esplosione di tale portata. Le onde d’urto, inoltre, sembrano essere diverse da qualsiasi cosa vista nell’era scientifica moderna. Per cercare di comprenderne le ragioni e di capire perché l’eruzione dello scorso gennaio sembri destinata a passare alla storia della vulcanologia, torniamo a parlare dell’argomento con Francesca Bianco, direttrice dell’Osservatorio Vesuviano – sezione di Napoli dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia.

“Questo evento è stato straordinario per la quantità di segnali che abbiamo potuto registrare pur in assenza di una specifica rete di monitoraggio multiparametrica sull'isola, perché di fatto la presenza soprattutto dei sistemi satellitari, che noi ormai utilizziamo costantemente anche per studiare la Terra, le sue caratteristiche e in particolare i vulcani, ci hanno permesso di fatto di osservare un evento che altrimenti difficilmente avremmo potuto seguire quasi in diretta”.

Intervista completa a Francesca Bianco, direttrice dell’Osservatorio Vesuviano – sezione di Napoli dell'Ingv. Montaggio di Barbara Paknazar

Come si è detto, l’eruzione del 15 gennaio ha avuto senza dubbio caratteristiche di eccezionalità, sotto più aspetti. Francesca Bianco evidenzia innanzitutto che il “plume” vulcanico, detto anche pennacchio, ha raggiunto altezze molto importanti, andando probabilmente a interagire addirittura con la ionosfera.  “Sicuramente è arrivato oltre i 40 km di altezza, forse è riuscito a perturbare anche una parte della ionosfera, ha prodotto una serie di onde di pressione che hanno fatto il giro del mondo varie volte e che sono state registrate da tutti i sistemi barometrici presenti sul pianeta”. Cosa che sembrerebbe non essere mai avvenuta prima.

Altri aspetti da porre in evidenza sono stati la mancanza di chiari segnali precursori dell’evento e l’energia associata all’esplosione. Secondo le stime della Nasa, infatti, sarebbe stata oltre 500 volte più potente della bomba atomica sganciata su Hiroshima.

“Ulteriore fenomeno rilevante indotto dall’eruzione sono le perturbazioni della ionosfera, registrate poco prima che si registrassero anche le onde di tsunami”. Una questione aperta, questa, e molto importante. Francesca Bianco sottolinea che si comincia ora a capire che, soprattutto in caso di tsunami di origine meteomarina indotti direttamente da grandi perturbazioni che arrivano sul pelo dell'acqua, si verificano perturbazioni nei segnali della ionosfera, per una serie di motivi piuttosto complessi e non ancora completamente compresi. Queste perturbazioni nei segnali della ionosfera possono essere captate dai sistemi satellitari: nel caso dell’Hunga Tonga-Hunga Ha'apai i segnali sono stati captati dal sistema di misure dei dati satellitari del Jet Propulsion Laboratory, poco prima che avesse luogo lo tsunami.

Le ragioni per cui questi aspetti sono di particolare interesse sono presto detti: “Si sta cominciando a osservare che quando si ha uno tsunami con una componente meteomarina, la ionosfera mostra delle anomalie e questo potrebbe essere utilizzato in un futuro molto prossimo come elemento precursore da inserire nei sistemi di early warning degli tsunami, ormai molto diffusi nel mondo e sempre più studiati e all'avanguardia”.

Nel caso specifico, le onde di tsunami generate dall’eruzione si sono propagate molto lontano, tanto da attraversare l’Oceano Pacifico: sono stati registrati in particolare in Giappone e lungo le coste del continente americano. L’impatto più severo sembra essersi prodotto nei litorali di Ecuador, Perù e Cile. “Un aspetto estremamente rilevante e non usuale sicuramente, è stato il boato associato all'esplosione che si è sentito fino a 2.000 chilometri di distanza, in Nuova Zelanda. Non siamo ai livelli di quello che è successo con l'eruzione del Krakatoa nel 1883, quando il boato dell'eruzione si è udito fino a 4.000 chilometri, ma si tratta tuttavia di una distanza rilevante”.

Secondo la direttrice dell’Osservatorio Vesuviano, dunque, l’insieme di tutte queste caratteristiche rende l’eruzione di Hunga Tonga-Hunga Ha'apai una grande occasione di studio per la comunità dei vulcanologi. Anche perché sembra sfidare le attuali teorie sulla fisica delle eruzioni, dunque?In realtà più che sfidare le leggi della fisica, ci invita a ricordare che non abbiamo ancora ben chiari tutti i processi legati alla dinamica effettiva, in generale. Quando siamo messi di fronte a una serie di fatti che non tornano, rispetto a quello che noi pensiamo invece di avere capito dei processi vulcanici, significa che si sta affacciando la possibilità di acquisire nuove conoscenze che ci porteranno sicuramente a comprendere molto meglio i processi. Nella scienza questo è una sorta di dogma. Noi non abbiamo alcuna certezza su nessun argomento che trattiamo, perché man mano che procediamo con le nostre conoscenze, mettiamo in crisi quelle precedenti e acquisiamo nuovo sapere”.

E, su questa linea, l’eruzione dell’Hunga Tonga–Hunga Ha‘apai dà una lezione importante, secondo Francesca Bianco: “Poiché sappiamo che circa 800 milioni di persone vivono su questo pianeta a meno di 100 chilometri in linea d’aria da un vulcano potenzialmente attivo e potenzialmente dannoso, probabilmente bisognerebbe che la comunità vulcanologica cominciasse in qualche modo a rendere standard un certo tipo di monitoraggio, anche basico laddove non ci fossero gli strumenti per sostenerlo, su tutti i vulcani attivi del pianeta, altrimenti sarà molto difficile conoscere effettivamente tutti i processi nel dettaglio che portano a questo tipo di eruzione. Per quanto questa volta possediamo in abbondanza tutta una serie di dati, che sono le osservazioni satellitari, ci manca la cronistoria dell’evento, non sappiamo se ci sono stati prima dei precursori fisici e chimici di questo tipo di attività”.

Un altro argomento di cui si è discusso nell’ultimo mese è l’impatto che la potente eruzione dello scorso 15 gennaio può aver avuto sul clima. L'eruzione del 1991 del Pinatubo, per esempio, ha sprigionato quasi 20 milioni di tonnellate di SO2 (biossido di zolfo), al punto da influire sul clima e raffreddare il pianeta di quasi 0,5 °C. “Per quello che ne sappiamo ora – osserva Francesca Bianco –, il vulcano Hunga Tonga-Hunga Ha'apai ha espulso in realtà un 2% della quantità di SO2 che aveva espulso il Pinatubo nel 1991”. Essendo giunta, dunque, poca SO2 nell’atmosfera, non ci dovrebbero essere auspicabilmente effetti sul clima.  

La direttrice dell’Osservatorio Vesuviano ne spiega le ragioni, riprendendo un concetto da cui siamo partiti: “Un altro dei grandi enigmi di questa eruzione è che, a fronte dell'esplosione assolutamente energetica che abbiamo potuto osservare, i prodotti eruttivi invece sembrerebbero molto pochi: i vulcanologi osservano sempre una correlazione diretta fra l’altezza della colonna eruttiva, il volume della colonna eruttiva e i volumi eruttati. Ebbene, questa volta questa semplice relazione non torna”.

Francesca Bianco conclude con alcune riflessioni: “Ciò accade perché sono i processi che non descrivono bene i fenomeni? Dobbiamo pensare in maniera forse più profonda alle questioni energetiche legate all'efficienza della trasformazione dell'energia termica in energia meccanica, che è alla base dei processi esplosivi che osserviamo da quelle parti? Dobbiamo pensare che ci sia un contributo nella parte esplosiva anche di trasformazioni chimiche che avvengono in catena, una dopo l'altra? Tutto ciò ci darà da riflettere, ma probabilmente dovremmo anche pensare che forse i vulcanologi non sono ancora riusciti a rilevare tutti i prodotti eruttati, essendo quella zona morfologicamente complessa e circondata dal mare”.

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