Da mesi viviamo un momento che solo eufemisticamente possiamo definire delicato, ma che, a seconda delle percezioni, delle situazione, dei personali problemi di salute, economici sociali… si può ragionevolmente definire tragico.
Si tratta della pandemia del Covid-19 che con impatti diversi e anche, come dicevo, diversamente percepibili e percepiti, coinvolge centinaia di migliaia di persone.
Credo non vi sia persona pur tanto avanti negli anni che abbia memoria di una precedente pandemia a questa assimilabile: la Spagnola, per intenderci, che fra il 1918 e il 1920 contagiò circa 500 milioni di persone e ne uccise 50 milioni su una popolazione che all’epoca aveva da poco toccato i due miliardi.
Altre ne abbiamo vissute e tuttora viviamo ma con una percezione diversa e più rassicurante. Questa no. Non guarda in faccia a nessuno; non tiene conto di censo, età ricchezza, povertà, etnia… Tutti sono ugualmente vulnerabili.
Tuttavia non dura all’infinito. Interverranno medicinali più efficaci; vaccini in gradi di prevenirne la diffusione. Insomma è lecito e obbligatorio pensare a domani.
I fisici teorici i quali, come Carlo Rovelli, si occupano del tempo e della sua inesistenza, storcerebbero il muso a questo mio approccio “temporale” al problema con termini quali il momento, il domani. . .
Ma una cosa è certa, quali che siano le dinamiche temporali, al momento presente, cioè quello che viviamo, succede quello successivo. E su questo dobbiamo agire per adattarci a vivere nel migliore dei modi possibile. Possiamo farlo bene solo se sappiamo dire perché c’è stato quello che stiamo vivendo, per quali motivi e con quali responsabilità nelle radici dei comportamenti del passato. O, se si preferisce, di quanto ha preceduto il presente. Perché solo conoscendo tutto questo possiamo proporci comportamenti diversi, tali da rimuovere le cause della pandemia e consentire un ritorno alla vita: nel senso più ampio del termine.
Allora? facciamo resilienza?
Detta così, se fosse un gioco potremmo divertirci a rispondere in vari modi, ma è una cosa seria. Una cosa la cui risposta dipende da noi.
Per intenderci, la domanda riguarda il futuro successivo alla pandemia che da una diecina di mesi condiziona il nostro quotidiano.
Può sembrare un approccio ottimistico ipotizzare il futuro in un momento nel quale di giorno in giorno aumentano i contagiati. Ma non è ottimismo, bensì il realismo suggerito dalla storia delle epidemie: prima o poi finiscono. È sul “poi” che bisogna intendersi per rispondere in modo corretto alla domanda che proponevo. Cioè se una volta finiti i contagi, e i ricoveri in ospedali e aumenta il numero dei guariti sarà possibile ritornare al prima così come lo abbiamo lasciato.
Da questa estate abbiamo provato a comportarci in modo resiliente, come, cioè, se il peggio fosse alle spalle e “liberi tutti”. Ma è andata male. Perché il peggio era alle spalle, ma covava sotto la cenere.
Ora, dunque, facendo “tesoro” di questa esperienza arricchita dai fatti come possiamo rispondere? Possiamo fare resilienza?
Possiamo certamente farlo nel senso che ritorniamo alla vita, al lavoro, allo studio, alla ricerca, agli esercizi fisico-sportivi, agli svaghi. Ma se intendessimo ritornarvi con i comportamenti e le abitudini di prima, come se niente fosse stato e niente ci avesse insegnato, sarebbe colpevole. Perché spianerebbe la strada ad altre pandemie le quali avendo, loro sì, fatto tesoro della nostra fragilità e della crescente vulnerabilità dell’ambiente nel quale viviamo, sapranno come occuparne gli spazi.
Cominciamo col riflettere seriamente sul “poi”. Cioè sul quando realisticamente è ipotizzabile la fine della pandemia e l’uscita da questo angosciante periodo. Le speranze della imminenza del poi sono riposte dai più nel vaccino che entro non molti mesi potrebbe essere messo a disposizione di quantità crescenti della popolazione. E, anche questo la storia ci insegna, i vaccini hanno salvato l’umanità da catastrofiche pandemie: anche i no-vax.
Ma, ha dichiarato con chiarezza ad HuffPost l’immunologa Antonella Viola dell’università di Padova: “Il vaccino non è la soluzione finale. Il governo dovrebbe avere il coraggio di trattare gli italiani da adulti, smetterla di prenderli in giro e dire loro la verità, ovvero che il vaccino non è la soluzione finale e che non tornerà tutto alla normalità quando finalmente lo avremo, almeno non nell’immediato”.
Ecco. Questa potrebbe essere una non pessimistica, ma realistica risposta alle domande che proponevo. Una risposta che ci dovrebbe consentire di ragionare in proiezione futura. Vale a dire per chi sta venendo e verrà dopo di noi.
Evidentemente questo comporta la necessaria valutazione della ricerca delle responsabilità che ci consenta di capire perché tutto questo è successo. Facendo immediatamente piazza pulita delle ipotesi di costruzione e diffusione del virus dai laboratori cinesi; e, peggio ancora, di un castigo divino. Che resta? Resta la natura e l’ambiente nel quale viviamo dopo averne continuamente trasformato e forzato le caratteristiche. Non è una scoperta, questa. È una realtà negata solo da quelli che consapevolmente hanno provocato tutto questo. Se non ce ne fossimo ancora resi conto lo hanno dimostrato i continui miglioramenti di aria, acqua e suolo durante il passato periodo di confinamento nelle nostre abitazioni.
Questa presa d’atto non è da ambientalisti “puri e duri”, ma da esseri umani consapevoli della strettissima coincidenza tra interesse della natura a non essere calpestata e nostro a viverci dentro. Quindi il desiderio di ritornare alla normalità è giusto. Se i vaccini ci aiutano a farlo presto, tanto meglio. Ma, come avverte anche Telmo Pievani, (Serve il “pensiero delle cattedrali”: costruire sapendo che il risultato lo vedranno i figli, in “Pianeta 20-21”, 21 ottobre 2020) il vaccino e i farmaci antivirali sono soluzioni per il caso specifico, ma “non rimuovono le cause remote del problema, cioè le cause ecologiche profonde che legano Covid-19 alla salute del pianeta”.
Poiché la salute del Pianeta è anche la salute nostra dovremmo subito cominciare a realizzare un vaccino per la Terra. Non si fa da oggi a domani: una foresta, per fare un esempio, si distrugge in poche ore, ma occorrono centinaia di anni per ricostituirla. Allora non ci scoraggiamo. Pensiamo al domani: a figli e nipoti che abbiamo provveduto a generare. Noi non vedremo i risultati? Chi semina oggi non parteciperà al raccolto? Pazienza perché, ce lo dice sempre Pievani, “Per uscirne servono decisori politici, nazionali e internazionali, che abbiano il ‘pensiero delle cattedrali’, il pensiero cioè dei costruttori medioevali che gettavano le fondamenta di una cattedrale ben sapendo che solo i loro figli o nipoti l’avrebbero vista finita. La lotta contro il degrado ambientale è la nostra cattedrale. Interessi economici, miopie sovraniste, pigrizie mentali giocano decisamente a sfavore di questa necessaria lungimiranza”.
Il pensiero delle cattedrali. L’importante è che i costruttori di oggi non siano come quelli della fabbrica di San Pietro.