SOCIETÀ

La fotografia e i modi per raccontare il mondo (e non voltarsi dall'altra parte)

Un dibattito che in secoli e secoli non è mai arrivato a una conclusione dirimente: perché esiste l'arte?
Dietro un prodotto di ingegno c'è un istinto atavico che porta una persona a creare qualcosa anche se nessuno la vedrà mai, o il fine deve essere quello di suscitare il piacere estetico o smuovere le coscienze del prossimo?
Nel caso della fotografia, il discorso è, se possibile, ancora più sfumato, perché è l'arte a cui più associamo la cristallizzazione di un ricordo, che può essere destinato ai se stessi dei futuro o, più genericamente, ai posteri, che potrebbero forse darne un'interpretazione differente. È come quando vediamo la luce di una stella morta da moltissimo tempo: il fotografo, in qualche modo, è presente, ma non possiamo interpellarlo per scoprire se siamo riusciti a vedere la realtà con gli stessi occhi.

Quando si parla di fotogiornalismo, però, viene data per scontata l'esistenza di un target, di qualcuno che vedrà gli scatti del fotografo. Qualcuno che forse si sveglierà e si comporterà diversamente, o quantomeno comincerà a porsi delle domande. Così è stato con gli scatti di Letizia Battaglia, scomparsa pochi giorni fa, che ha raccontato una Palermo che molti fingevano di non vedere e che, da quel momento, non hanno più potuto ignorare. La forza della sua fotografia non era solo la mera denuncia (suo lo scatto che ritraeva Andreotti mentre interloquiva con i membri del clan mafioso), ma anche la rappresentazione, priva di giudizio, di tutte le persone che quella realtà la vivevano ogni giorno, che dovevano fare i conti con l'omertà e la paura, in una terra dove la solarità e la gioia veniva troppo spesso macchiata dal rosso del sangue.

Lo stesso spirito deve aver mosso alcuni dei vincitori del World Press Photo 2022, il concorso di fotogiornalismo più importante del mondo a cui quest'anno hanno partecipato 4.066 fotografi di 130 paesi, con più di 65.000 scatti inviati. Il filo conduttore che ha guidato fotografi e giuria quest'anno è rappresentato dai diritti civili e dai problemi ambientali, soprattutto per quanto riguarda la distruzione delle foreste e il cambiamento climatico. Tutte tematiche che, a ben guardare, si intersecano tra loro: l'aumento delle temperature peggiora il divario sociale, e l'inquietudine che pervade molti scatti è un sintomo del fatto che la percezione del futuro globale è tutt'altro che radiosa.

Per analizzare questa tendenza abbiamo chiesto un commento a Marco Cattaneo, direttore responsabile di National Geographic Italia, che ha dichiarato subito un conflitto di interessi: uno dei vincitori, infatti, è Matthew Abbott, autore del video Salvare le foreste con il fuoco. Il suo lavoro uscirà sul numero speciale di maggio di National Geographic, tutto dedicato alla salute delle foreste. Lo precisiamo per trasparenza, ma ci sentiamo di garantire che questa contingenza non va in alcun modo a inficiare la validità delle parole qui di seguito.

Quest'anno ci sono stati vari cambiamenti nel World Press Photo. Secondo lei c'è stata qualche conseguenza per i partecipanti?

È cambiata radicalmente la filosofia del World Press Photo, che non è più suddiviso nelle tradizionali categorie che vedevano quasi sempre trionfare, come foto vincitrice assoluta, una foto strettamente legata alla cronaca. Da quest’anno ci sono quattro categorie – foto singola, storia, progetto a lungo termine e open format, che può premiare progetti realizzati su supporti diversi – e sei macroregioni. I vincitori regionali si contendono poi i premi globali.
Detto questo, non credo ci siano state grosse conseguenze. I fotografi lavorano a progetti di questa portata, tali da vincere un World Press Photo, su commissione o inseguendo un progetto loro. Ma non si fanno di sicuro condizionare dalle scelte di un premio, per quanto importante. Anche perché poi nessuno può sapere quali saranno le scelte di una giuria, se prediligerà lavori di cronaca in senso stretto, di streetphotography, di fotografia sociale. Ognuno pensa solo all’impatto del suo lavoro e, se si tratta di un lavoro indipendente, all’interesse che può trovare nei giornali. Il premio, o la partecipazione al premio, non è sicuramente il primo obiettivo di chi fa questo lavoro. È un traguardo, che certo può lanciare verso una carriera più importante, ma non un pensiero quando si sceglie un progetto.

Qual è stata la foto che l'ha colpita di più in questa edizione del World Press Photo?

Voi mi chiedete una foto, ma io invece mi allargo e prendo tre storie delle 24 premiate. Forse quello che mi sta più a cuore è il lavoro di Bram Janssen sul cinema di Kabul, premiato per la categoria storie in Asia. Un po’ è una questione affettiva, perché l’Afghanistan è un paese che mi sta particolarmente a cuore. Un po’, sembra una storia banale, che invece racconta con grazia e potenza al tempo stesso le difficoltà che sta attraversando di nuovo l’Afghanistan con l’improvviso, anche se tutt’altro che imprevisto, ritorno al potere dei talebani. Poi mi ha colpito il progetto a lungo termine di Guillaume Herbaut sulla crisi Ucraina, premiato in Europa, perché racconta in modo crudo e diretto quello che è accaduto negli anni prima dell’invasione russa. E infine voglio citare Amazonian Dystopia, di Lalo De Almeida per la Folha de São Paulo, un bianco e nero molto classico, se si vuole, in uno stile che forse si richiama più al fotogiornalismo di reportage degli anni Novanta che alla poesia amara del suo connazionale Sebastiao Salgado. Racconta il dramma della deforestazione in Amazzonia, dell’aggressione alla natura che continuiamo a praticare senza renderci conto che lo sfruttamento indiscriminato delle risorse ci porterà alla catastrofe. Una catastrofe per la civiltà dell’uomo, beninteso. E non l’estinzione, sia chiaro. Ma un possibile passo indietro nel grado di benessere, che alla fine colpisce comunque e sempre i più fragili, i più poveri.

Ora le foto vincitrici, assieme ad altri scatti dei partecipanti, saranno portate in tour e passeranno anche per l'Italia, a Roma (dal 28 aprile al 12 giugno) e a Torino (dal 29 aprile al 18 settembre). Perché dovremmo andare a vederle dal vivo?

È un po’ come quando si dice che i film vanno visti al cinema, no? Certo, possono piacere anche in televisione, ormai pure su un tablet, ma l’emozione che ci scatena il grande schermo è diversa. E forse vale lo stesso per la fotografia. Quando si ammira una foto di questa qualità stampata in grande formato sembra di entrare dentro quelle luci, dentro quelle storie. È un’esperienza emotiva diversa rispetto a guardarle su uno schermo di un PC o peggio ancora di un telefonino. E poi ci si sofferma di più. Ci si prende del tempo. Si apprezzano meglio i dettagli, si vedono cose che non si sarebbero viste scorrendo la pagina web. D’altra parte, e con le debite proporzioni, ormai possiamo ammirare in formato digitale le collezioni di molti musei, eppure andare al Louvre è diverso dal guardarne le opere in rete. Alla fine, l’esperienza materiale ci dà sensazioni diverse.

Secondo lei la fotografia ha il potere di cambiare la situazione attuale, sensibilizzando i cittadini ma soprattutto i governanti, che sono quelli che dovrebbero intervenire con più decisione?

La fotografia, soprattutto, è testimonianza. È racconto del mondo che ci circonda e del modo in cui lo vediamo cambiare, soprattutto per opera nostra. Che abbia il potere di sensibilizzare le persone è un auspicio, anche se il volume di immagini e di informazioni a cui siamo quotidianamente esposti in questa stagione dell’umanità è qualcosa a cui eravamo evolutivamente impreparati. E le immagini non ci raccontano sempre una storia lineare. Ci raccontano una complessità che non siamo sempre capaci di elaborare. Tanto meno, in genere, quando ci colpisce con emozioni forti. Dopo di che, sicuramente ci sono temi, oggi, che riguardano il nostro futuro come specie, come comunità, ai quali la fotografia sta dando un contributo straordinario. Quanto ai governanti, mi sembra che attraversiamo un periodo in cui la politica, un po’ dappertutto, viva della pura ricerca di consenso. È così nelle dichiarazioni ufficiali, è così sui media tradizionali. È così sugli account politici dei social network. A fronte di questa ricerca di consenso ci sono dichiarazioni altisonanti che poi finiscono quasi sempre a cadere nel vuoto di un’azione insufficiente. Penso al cambiamento climatico, agli accordi firmati e agli obiettivi mancati, per esempio. Mi sembra che la politica, in Italia e non solo, manchi di progettualità a lungo termine, prediligendo piuttosto la sopravvivenza a breve termine, in senso politico, dei singoli. Così si finisce per dire quello che ci farà raccogliere voti, spesso calcando la mano sulle magnifiche sorti e progressive, nascondendo crisi globali che vanno dal clima alle materie prime, ai sistemi sanitari e alimentari. Perché parlare con franchezza, oggi, non genera consenso. È una politica miope, con obiettivi a breve termine e troppo spesso autoreferenziali. Non mi illudo che la fotografia possa sensibilizzarla.

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012