SCIENZA E RICERCA

Il futuro dei fiumi veneti, tra aspetti ambientali e sicurezza idraulica

Da un lato il dissesto idrogeologico, con i cambiamenti climatici che potenziano il rischio idraulico, dall’altro il problema inquinamento, soprattutto nelle aree più vicine agli insediamenti industriali. L’impatto delle attività umane sugli ecosistemi fluviali e sulle acque di superficie è fonte di preoccupazione a livello globale e, restringendo lo sguardo all’Europa, il rapporto dell’Agenzia europea per l’Ambiente già nel 2018 aveva rivelato che solo il 38% dei laghi e dei fiumi non presenta concentrazioni di sostanze inquinanti superiori ai limiti fissati dall’Ue nella direttiva quadro sulle acque. Nel restante 62% dei casi, su un totale di oltre 130 mila corpi idrici monitorati, sono invece stati riscontrati contaminanti in misura superiore agli standard e tra le sostanze primeggiano mercurio e cadmio. La situazione italiana risulta migliore anche se, degli oltre 6100 corpi idrici superficiali monitorati, oltre il 10% non è in uno stato chimico soddisfacente.

Per quanto riguarda invece la sicurezza idraulica del territorio, nel rapporto sul dissesto idrogeologico l’Ispra ricorda che sebbene la Direttiva 2007/60/CE - meglio nota come direttiva alluvioni - “sottolinei come le fenomeni alluvionali siano fenomeni naturali impossibili da prevenire, alcune attività antropiche, quali la crescita degli insediamenti umani, l’incremento delle attività economiche, la riduzione della naturale capacità di laminazione del suolo per la progressiva impermeabilizzazione delle superfici e la sottrazione di aree di naturale espansione delle piene, contribuiscano ad aumentare la probabilità di accadimento delle alluvioni e ad aggravarne le conseguenze”.

Per il Veneto i fiumi sono stati sin dall'antichità un'importante via di comunicazione e un fattore che ha favorito lo sviluppo degli insediamenti. Una ragnatela idrica che ha nel Piave, Brenta, Bacchiglione, Tagliamento, Adige, Livenza, Sile, Fratta-Gorzone e Po i fiumi più conosciuti, ma che si compone anche di molti corsi d'acqua "minori" e di un composito sistema di canali. Lo stato di salute dei fiumi veneti, ma anche dei laghi della regione, è monitorato in modo sistematico dalle analisi di Arpav che esaminano indicatori come lo stato trofico, la presenza di sostanze chimiche, la qualità biologica degli ecosistemi acquatici e lo stato morfologico. L'ultimo report si basa sui risultati dei 165.430 test, eseguiti nel corso del 2018 in 304 punti fluviali e 64 siti lacustri, realizzati con strumenti particolarmente sensibili, in grado di rilevare sostanza chimiche fino a 5 nanogrammi per litro. Un ulteriore sforzo scientifico è stato compiuto per rendere estremamente precise le analisi sui PFOS, uno dei composti dei PFAS: la normativa europea prevede uno standard ambientale di 0,65 nanogrammi litro, misura che richiede un limite di quantificazione ancora più basso 0,2 nanogrammi litro per avere risultati affidabili. La ricerca delle sostanze inquinanti è stata suddivisa in due categorie, quella degli inquinanti specifici non appartenenti all'elenco di priorità (tra cui figurano alcuni tipi di pesticidi e metalli) e quella delle sostanze definite "prioritarie", in cui rientrano altre tipologie di pesticidi, alcuni metalli (come il cadmio, il mercurio, il piombo e il nichel), gli idrocarburi e altri composti come i PFOS. 

Dal dossier è emerso che i fiumi più sottoposti alla presenza dei PFOS sono il Bacchiglione, sia nel vicentino che nel padovano, e il Fratta-Gorzone, in tutte le province toccate dal fiume: in entrambi i corsi d'acqua si sono registrati superamenti dei limiti in 17 punti di monitoraggio. Valori al di sopra degli standard di qualità ambientali sono stati rilevati anche nella laguna di Venezia, nel Brenta, nel Livenza e nel Po. Complessivamente, rileva Arpav, per il PFOS sono risultati superiori ai limiti 83 campioni su 185.   

Ma l'analisi delle eventuali fonti di contaminazione presenti in un bacino fluviale non è l'unico parametro con cui valutare lo stato di salute di un corso d'acqua. Un'altra prospettiva importante è quella degli aspetti idraulici e morfologici, elementi che consentono di valutare le tendenze evolutive e i possibili rischi per il territorio. Abbiamo approfondito questo tema con Martina Bussettini che all'interno di Ispra, l'Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale, lavora nell'Area per l’idrologia, l’idrodinamica e l’idromorfologia, lo stato e la dinamica evolutiva degli ecosistemi delle acque interne superficiali.

L'approccio che guida la gestione dei corsi d'acqua ha sempre più un'impostazione trasversale - sottolinea l'ingegnere Martina Bussettini di Ispra - spiegando l’impulso della direttiva quadro sulle acque del 2000 che "impone una gestione integrata dei corpi idrici in cui si vanno a guardare tutte le diverse componenti che afferiscono ai corsi d’acqua stessi e ne determinano il funzionamento: quindi la parte fisica che va a determinare l’habitat, la cosiddetta idromorfologia del corso d’acqua, la parte fisico-chimica con tutte le condizioni che sostengono, insieme all’idromorfologia, le biocienosi, quindi l’ossigenazione, la torbidità, la temperatura. Non meno importante è la parte biologica perché l’analisi delle componenti biotiche, che è la novità della direttiva, serve a dare delle risposte nel breve e lungo termine sulle pressioni sui corsi d’acqua. Chiaramente la componente chimica, tradizionalmente esaminata, gioca anche il suo ruolo, ma il passo in avanti della direttiva è stato quello di mettere insieme l’analisi delle diverse componenti e questo permette di avere un quadro che rileva la coerenza delle risposte alle pressioni a cui è sottoposto un corso d’acqua". 

Restringendo lo sguardo ai fiumi veneti, Bussettini sottolinea che "la particolarità oggettiva è data dalla geografia della regione e dalla sua idrologia. Un territorio molto differenziato dove abbiamo una coesistenza di un sistema di corsi d’acqua alpini, insieme poi a quelli di pianura, alle risorgive che sono dei casi particolari in cui c’è un’interazione tra le acque superficiali e quelle sotterranee. E poi tutto il problema lagunare e della costa, l’intrusione salina, la bonifica. In questo contesto fisico si è inserita tutta una serie di pressioni che vanno dallo sbarramento dei corsi d’acqua per fini soprattutto idroelettrici, quindi tutta la parte dei grandi invasi dei bacini montani, alle infrastrutture che hanno sempre creato disconnessioni dei corsi d’acqua e bisogna considerare che, quando variano le geometrie, cambiano non solo le configurazioni ma anche gli habitat perché le modifiche si estendono alla dinamica dei sedimenti. La grande urbanizzazione alla fine della seconda guerra mondiale ha implicato la cavatura dei sedimenti e ha esacerbato una situazione che era già caratterizzata dallo sbarramento dei corsi d’acqua, poi tutti gli insediamenti produttivi, sia agricoli che industriali, che hanno inevitabilmente messo a dura prova sia i corpi superficiali che quelli sotterranei, e quindi la qualità di queste acque, soprattutto in pianura, è stata abbastanza compromessa. Per sintetizzare abbiamo forti pressioni sull’ambiente fisico: sbarramento, opere di ingegneria pesante sui corsi d’acqua per utilizzarli, infrastrutture che hanno causato questa instabilità strutturale geometrica e a catena impatto sugli ecosistemi a cui poi, nella parte più a valle, si vanno a sovrapporre le pressioni sulla qualità, quindi le sostanze chimiche.

Rispetto alle strategie di gestione con cui provare ad attenuare l'impatto delle attività antropiche Bussettini spiega che uno dei requisiti della direttiva acque è una conoscenza approfondita delle pressioni che agiscono su un corso d'acqua. "Partendo da un’analisi delle pressioni bisogna capire quali possono essere i possibili impatti e comprendere se, e in quale modo, queste pressioni possono essere alleggerite. E l’altro aspetto è capire quali sono le condizioni di contorno che vincolano determinati utilizzi dei corpi idrici, sia dal punto di vista della qualità che della quantità. Ricordo che c’è il problema delle concessioni, dei prelievi abbastanza ingenti perché la risorsa tende ad avere una diversa disponibilità e fruibilità nel tempo, ma la domanda è sempre crescente. Bisogna considerare quali sono i limiti fisici ed ecologici, le ricadute economiche e se è possibile cercare una mediazione incrementando la conoscenza di questi sistemi e qual è la sostenibilità di determinati utilizzi della risorsa. Includo anche la gestione fisica dei corsi d’acqua che, a mio avviso, viene gestita in maniera non del tutto cosciente, con procedure che continuano ad avere impatti forti: mi riferisco in particolare alla gestione dei sedimenti e della vegetazione che spesso, in nome della difesa dalle alluvioni, viene fatta in un modo non sempre coerente se non sconsiderata, cosa che porta a successive instabilità". 

Dopo la pubblicazione della direttiva acque e della direttiva alluvioni il mondo della ricerca ha sviluppato un quadro metodologico a supporto di enti e soggetti coinvolti nella gestione dei corsi d'acqua. "Proprio in virtù di quello che dicevo prima, e cioè che per gestire le risorse bisogna conoscere il sistema fluviale, come si comporta nello spazio e nel tempo e capire quali sono gli impatti al variare dei diversi scenari, abbiamo pensato di sviluppare questo framework metodologico in cui la componente di processi geomorfologici è il driver principale. In questo ambito Ispra, nel periodo di definizione dello stato dell’arte, ha coinvolto i principali geomorfologi fluviali italiani - che purtroppo non sono ancora molti, nonostante il tema del dissesto sia all’ordine del giorno - e ha messo a punto questo framework che consta di quattro parti: una parte di caratterizzazione, quindi l’anamnesi, una parte di analisi spazio-temporale, quindi l’analisi storica dei processi del passato, cosa succede adesso e quali sono le pressioni attuali e quali sono le tendenze future", ambito che include un ragionamento su "quali possono essere le possibili misure di mitigazione e miglioramento, cosa può succedere se non mettiamo in atto delle misure, quali possono essere le conseguenze a livello di fruibilità della risorsa, a livello ecologico e sul piano del rischio idraulico. Quindi  - conclude Martina Bussettini - vedere gli effetti di questi scenari e dare le informazioni a chi gestisce i corsi d’acqua".

 

Del team di ricerca che ha messo a punto, insieme a Ispra, il quadro metodologico per la valutazione dello stato di salute dei fiumi fa parte anche Nicola Surian, docente del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova. Lo abbiamo intervistato per conoscere più nel dettaglio la situazione dei fiumi veneti negli aspetti morfologici e nelle trasformazioni esercitate dalle attività antropiche nel corso degli anni.

"Per parlare della qualità dei corsi d’acqua veneti - spiega il professor Surian - è opportuno partire da un quadro generale un po’ più ampio e, in particolare, è importante riferirsi alla direttiva quadro acque del 2000 che è il quadro normativo fondamentale su cui si è innestata tutta la valutazione e poi anche il monitoraggio dei corsi d’acqua a livello europeo. In particolare mi concentrerò sull’idromorfologia che è una delle componenti che viene valutata all’interno di questa direttiva e concorre, insieme agli aspetti biologici, chimici e fisici, alla valutazione complessiva dello stato ecologico dei corsi d’acqua. Aver inserito l’idromorfologia come parametro di valutazione è un aspetto molto innovativo della normativa. Lo sottolineo perché in altri contesti, per esempio negli Stati Uniti, non c’è questa normativa così ben strutturata come la direttiva acque. Per quanto riguarda poi il contesto italiano, questo ha fatto sì che l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale si sia attivata per mettere a punto quelle che dovevano essere le metodologie per valutare e monitorare i corsi d’acqua italiani. Questo lavoro con Ispra, che ha coinvolto l’università di Padova ma anche altri atenei, in particolare le università di Firenze e Bolzano, ha dato luogo allo sviluppo di una metodologia che è riassunta in un manuale pubblicato per la prima volta nel 2014. Il metodo si chiama Idraim e mira a valutare la qualità morfologica dei corsi d’acqua, ma anche la loro dinamica e le ricadute a livello di pericolosità", integrando gli obiettivi di qualità ecologica e mitigazione del rischio di alluvione. Quindi - sottolinea il docente del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova - mettendo insieme aspetti che servono sia per la direttiva quadro acque, ma anche per la direttiva alluvioni del 2007.

All’interno di Idraim è stato sviluppato un nuovo indice per la valutazione idromorfologica dei fiumi italiani. E' l'IQM, cioè l’indice di qualità morfologica, che è diventato lo strumento base utilizzato dalle regioni e dalle Arpa a partire dal 2010 quando è stato proposto per la prima volta in Italia. "Sostanzialmente valuta sia quanto la morfologia e i processi di un corso d’acqua funzionano bene rispetto a quanto possiamo aspettarci - naturalmente bisogna considerare se un corso d’acqua si trova in montagna o nella bassa pianura dove l’energia e anche i sedimenti sono molto diversi - sia quali sono gli impatti antropici che nel tempo possono aver concorso ad alterare la morfologia e il funzionamento del corso d’acqua, quindi i processi che regolano il funzionamento dal punto di vista fisico", prosegue Nicola Surian.

Ma in che modo l'uomo ha contribuito a modificare gli assetti dei fiumi? "Le alterazioni principali - spiega il professor Surian - derivano da una serie di attività che l’uomo ha messo in campo nel corso del tempo. Ovviamente, anche per quanto riguarda i fiumi veneti, alcune di queste alterazioni vanno indietro nei secoli e mi riferisco a quelle finalizzate a mitigare il rischio di piene e di alluvioni. Quindi arginature o altre sistemazioni che hanno cercato di ridurre i rischi sono andate ad impattare la qualità morfologica dei corsi d’acqua e, più nel complesso, anche la loro qualità ecologica. Un’altra serie di azioni sono quelle che l’uomo ha sviluppato, soprattutto a partire dall’inizio del secolo scorso, più in un’ottica di sfruttamento dei corsi d’acqua e mi riferisco, in particolare nei fiumi veneti, allo sfruttamento per la produzione di energia idroelettrica, quindi la costruzione di dighe, e poi un impatto molto importante è arrivato dall’uso dei sedimenti dei corsi d’acqua, questo soprattutto nel secondo dopoguerra, tra gli anni ’60 e ’70, quando c’è stata una grossa estrazione di materiali dai corsi d’acqua veneti. Facendo qualche esempio più concreto, prendiamo i corsi d’acqua principali come Adige, Brenta e Piave sono tutti e tre molto impattati dal punto di vista della presenza di dighe. Questo è un elemento diffuso per questi tre corsi d’acqua, le escavazioni lo sono in un modo diverso, nel senso che si sono concentrate in quei tratti in cui c’era maggiore richiesta, in cui il materiale era più idoneo per le costruzioni e quindi in particolare nelle zone di alta pianura". 

Dopo aver illustrato alcuni esempi di pressioni esercitate dalle attività antropiche sui fiumi, il docente del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova prosegue analizzando, in modo sintetico, i corsi d’acqua veneti sotto il profilo degli aspetti qualitativi. "Nei contesti montani - chiarisce Surian - ovviamente ci possiamo aspettare una qualità migliore, ci sono alcuni corsi d’acqua in alcune vallate dei nostri territori montani in cui l’impatto è ancora limitato e in cui la qualità è elevata. La direttiva quadro acque, così come l’IQM, individuano 5 classi di qualità, da elevata a pessima. Quindi alcune situazioni di qualità elevata o buona sono presenti soprattutto in un contesto montano, ma dobbiamo tener presente che anche le Alpi sono antropizzate e quindi si possono verificare condizioni di alterazione. Poi man mano che ci si sposta verso aree di maggiore antropizzazione, sostanzialmente verso la pianura, si ha generalmente una diminuzione della qualità morfologica e quindi troviamo maggiori impatti. Può essere utile fare qualche ragionamento su quello che si sta facendo per migliorare la qualità morfologica dei corsi d’acqua. Le autorità di bacino e le regioni producono dei piani di gestione che, con una certa cadenza, vanno a monitorare la qualità ecologica nel suo complesso e quindi anche sotto il profilo morfologico. Sicuramente non è così semplice migliorare la qualità di un corso d’acqua considerando che in un territorio molto antropizzato il rischio legato alle alluvioni è in molti casi una priorità da considerare. Uno spunto essenziale da tener presente è però quello di cercare di coniugare gli obiettivi delle due direttive e per farlo si mette in atto una pianificazione integrata che cerchi di raggiungere sia l’obiettivo di mitigazione del rischio, sia quello del miglioramento della qualità ambientale dei corsi d’acqua. 

Vorrei soffermarmi - conclude il professor Surian - su un aspetto particolare della qualità morfologica che molto recentemente è entrato anche nella normativa italiana ed è la definizione e lo sviluppo di programmi di gestione dei sedimenti. A pensarci bene, sia nell’immaginario comune ma anche nella gestione, si presta particolare attenzione all’acqua che scorre all’interno di un fiume, ma molto meno ad altri elementi altrettanto fondamentali come i sedimenti ma anche la vegetazione. Il fatto che recentemente la normativa italiana abbia raccomandato di sviluppare questi programmi di gestione dei sedimenti è un elemento molto importante per poter pianificare con una visione lunga, sia da parte del mondo della ricerca che da quello di chi pianifica il territorio, una gestione più efficace dei sedimenti. Faccio un esempio molto concreto: i sedimenti che si accumulano progressivamente a monte di una diga e che nel tempo rendono inefficace il serbatoio che è stato creato artificialmente a monte della diga, devono essere gestiti. Se noi non iniziamo a pianificare adesso come gestirli, quindi se trasferirli progressivamente a valle, se fare dei rilasci in modo che parte di questi sedimenti transitino in misura maggiore rispetto a quanto non avvenga adesso, chiaramente tra alcune decine di anni ci ritroveremo con dei problemi molto importanti. Avremo dei sedimenti da gestire nei bacini montani, a valle di queste dighe e, come già successo nei decenni precedenti, stiamo continuando a creare uno squilibrio nel funzionamento di un corso d’acqua proprio perché stiamo interrompendo la continuità e quindi il trasferimento dei sedimenti da monte a valle. In altre parole, il buon funzionamento di un corso d’acqua non è solo cercare di gestire bene l’acqua, ma anche cercare di capire come i sedimenti dovrebbero trasferirsi all’interno di un sistema. Sostanzialmente il mio messaggio è: i sedimenti non possono essere solo stoccati o bloccati a monte di una diga o delle briglie, ma devono comunque continuare a far parte di quello che è il funzionamento morfologico, e quindi anche ecologico, di un corso d’acqua. 

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