SOCIETÀ

Il grido del ministro

Il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Lorenzo Fioramonti del M5S, si è dimesso il giorno di Natale. Onore al merito: aveva detto che avrebbe rinunciato all’incarico se la Legge di Bilancio 2020 non avesse aumentato di almeno 3 miliardi il budget per educazione e ricerca. Ha ottenuto solo 2 miliardi e solo per la scuola, mentre l’aumento per l’università e per la ricerca è praticamente zero e lui ha mantenuto la parola. Un comportamento certamente encomiabile. Tra il dire e il fare, in politica, ci deve essere una sostanziale coerenza.

Resta, tuttavia, il fatto che anche questo governo nella sua prima Legge di Bilancio ha trovato il modo di far restare al palo l’università e la ricerca scientifica. I sei provvedimenti finanziati –16 milioni per le bore di studio; 25,3 milioni per l’Agenzia nazionale per la Ricerca; 2,5 milioni per stabilizzare i ricercatori del CREA; 1 milione per l’ESFRI e 1 milione per un istituto di scienze religiose; 0,5 milioni per la SISSA di Trieste; per un rotale di 46,3 milioni – sono solo una minuscola goccia in un mare di bisogni.

Aveva detto che avrebbe rinunciato all’incarico se la Legge di Bilancio 2020 non avesse aumentato di almeno 3 miliardi il budget per educazione e ricerca

Consideriamo l’università. Secondo il recente rapporto Education at a glance 2019 dell’OCSE, l’Italia investe nell’alta formazione lo 0,8% del PIL, il Prodotto interno lordo (di cui solo lo 0,6% è pubblico). La media europea è praticamente il doppio: l’1,5% del PIL. Quella degli Stati Uniti raggiunge il 2,3% del PIL: tre volte quella italiana, in termini relativi. Non basta: rispetto al 2010 questa spesa è diminuita del 15%: L’università italiana oggi è molto più povera di dieci anni fa. Inoltre questa università impoverita ha le mani e le gambe legate – è il pensiero del ministro dimissionario – da una burocrazia tanto invadente quanto insopportabile.

Qualcosa di analogo vale per la ricerca scientifica: l’Italia vi investe l’1,3% del proprio PIL, contro il 2,0% della media europea e anche mondiale; il 2,1% della Cina; il 2,8% degli Stati Uniti, il 3,4% del Giappone; il 4,3% della Corea del Sud.

Il gap nell’alta formazione e nella produzione di nuova conoscenza che l’Italia ha nei confronti del resto d’Europa e dei principali paesi al mondo non è solo enorme, è insostenibile. E infatti, Romania a parte, abbiamo sia il più basso numero di laureati di giovani tra 25 e 34 anni dell’Unione europea sia il minoro numero di risorse dedicate alla ricerca tra i grandi paesi del continente e del mondo intero.

È vero, checché se ne dica la qualità delle nostre università e dei nostri centri di ricerca è ancora elevatissima. Ma con questi budget a disposizione, quanto potrà durare?

Questo antico sotto finanziamento degli atenei e delle scienze è, secondo molti, tra le cause principale della crisi economica italiana che dura, ormai, da più di trent’anni. Sono, infatti tre decenni che il nostro paese cresce costantemente meno del resto d’Europa. E il motivo principale risiede nel fatto che non ci riesce di entrare nell’economia e nella società della conoscenza.

Malgrado le nostre splendide eccezioni, siamo un paese che sta scivolando neppure troppo lentamente ai margini di quella che Umberto Eco chiamava l’industria culturale mondiale.

Da almeno tre decenni l’unica opzione per uscire da questa spirale al ribasso sarebbe quella di far leva sulla scuola, sull’alta formazione e sulla ricerca (scientifica e umanistica). Invece da trent’anni se c’è qualcosa dove fare cassa, per qualsiasi governo questo qualcosa è costituito dalla scuola, dall’università e dalla ricerca. Questo esecutivo ha finalmente invertito la tendenza per quanto riguarda gli investimenti nella scuola: nella Legge di Bilancio ci sono infatti 2 miliardi in più dello scorso anno. Mentre non ha fatto abbastanza – anzi, non ha fatto nulla – per l’università e la ricerca.

In questo modo, sia chiaro, la corsa verso il basso del nostro paese continuerà. Siamo già al punto in cui una parte cospicua dei pochi laureati in Italia, una volta ottenuto il titolo se ne vanno all’estero, mentre praticamente nessun giovane straniero viene a fare ricerca in Italia. Siamo già oltre il limite di guardia.

Il ministro Lorenzo Fioramonti ha voluto lanciare un ennesimo, ma autorevole, grido di allarme. Basterà?

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