SOCIETÀ

Immortalità digitale: la nostra vita online quando non ci saremo più

Passiamo ore, ogni giorno, in rete: al web affidiamo parti sempre più consistenti delle nostre vite, dalle foto di famiglia, alle relazioni sociali, ai rapporti lavorativi, ai dati medici e bancari. Le nostre azioni online generano una messe di dati della quale non siamo né consapevoli, né padroni: essi, infatti, sono di proprietà dei gestori delle piattaforme digitali, i quali, in cambio dell’apparente gratuità dei servizi offerti, acquisiscono qualsiasi genere di informazione sugli utenti (pensiamo, ad esempio, ai cookies, che sono le tracce delle nostre azioni online, alla raccolta dei quali diamo il consenso pressoché sempre, su ogni sito visitato).

La nostra presenza e l’insieme delle nostre attività su internet vanno a formare, nel tempo, una complessa identità digitale, molto fedele e quasi interamente sovrapponibile all’identità fisica. Tuttavia, numerosi sono gli aspetti stridenti: ad esempio, cosa succede a questo alter ego informatico quando il suo corrispettivo reale viene a mancare? Chi si fa carico di questa ingombrante presenza-ombra, di questo retaggio del defunto? E, soprattutto, chi ha accesso a tutti i dati – spesso strettamente personali – relativi a quell’identità?

I problemi sono molti, e spaziano dalla dimensione filosofica ed etica a quella economica e giuridica. Solo da pochi anni sono aumentati gli studi sul tema della digital death, e noi ci siamo rivolti ad uno degli esperti di questo settore, Davide Sisto, filosofo ed esperto di tanatologia in relazione alla cultura digitale.

Quali differenze sussistono tra l’identità digitale e quella fisica? In altri termini, il fatto che nel mondo virtuale siamo, in un certo senso, potenzialmente eterni ha delle ricadute etiche nella vita “reale”?

“Si tratta di un problema essenziale, al quale solo ora si inizia a prestare attenzione: tant’è vero che tutti gli studi sul tema sono molto recenti. Dal punto di vista etico, si possono individuare due ordini di conseguenze: da una parte, sul destino dell’identità digitale delle persone decedute, e dall’altra su coloro che subiscono il lutto e si trovano a dover fare i conti con la presenza online di chi, in realtà, non c’è più.

La dinamica che si realizza è, per certi versi, simile a quanto accade nella dimensione offline: così come sarebbe auspicabile redigere, in vita, il testamento biologico, allo stesso modo bisognerebbe prepararsi alla morte anche online, attraverso un testamento digitale. Bisogna essere consapevoli della propria caducità e fare tutto il possibile perché, dopo la nostra dipartita, l’identità digitale che abbiamo costruito in anni di interazioni sul web non assuma una propria esistenza autonoma.

Riguardo al secondo aspetto – la tutela, psicologica e legale, di chi rimane – è necessario che si aiutino le persone a prepararsi all’evento della morte, e a sviluppare, tanto nell’universo digitale quanto in quello fisico, una reale capacità di elaborazione del lutto, così da non trovarsi nell’incapacità di gestire questa presenza “viva” del defunto”.

Ci siamo abituati a divulgare sul web ogni tipo di dato sensibile, da quelli lavorativi a quelli più personali, in maniera piuttosto ingenua, senza pensare al loro valore economico e ai loro possibili impieghi. Sorgono dunque numerosi problemi di etica pubblica, dalla questione della privacy a quella del rapporto tra le grandi corporations, proprietarie dei dati, e i singoli creatori di contenuti: come far fronte a queste nuove sfide?

“Innanzitutto, a costituire un serio problema è l’ingenuità da parte degli utenti nella condivisione indiscriminata di contenuti che rimangono online in maniera pressoché permanente, e che sono a disposizione di tutti.

Nel caso di Facebook – il social network ad oggi più diffuso su scala globale – si calcola che, su due miliardi di utenti registrati, vi sia un “cimitero digitale” di circa 50 milioni di profili appartenenti a persone decedute. Quando scoppiò lo scandalo di Cambridge Analytica, si scoprì che i dati che componevano molti di questi profili venivano sfruttati – in maniera assolutamente scorretta dal punto di vista etico – per la profilazione di contenuti commerciali e, non ultimo, per la manipolazione dell’opinione pubblica. Inoltre, soprattutto negli USA, accade sempre più spesso che alcuni malintenzionati informatici si approprino delle identità digitali dei defunti e ricattino le famiglie minacciando di rendere pubblici dati sensibili in caso del mancato pagamento di cospicue somme di denaro.

Tutto questo evidenzia il fatto che se non si presta attenzione a cosa si condivide nel corso della vita, e se, soprattutto, non ci si prepara adeguatamente al momento in cui non ci saremo più, le nostre identità possono essere sfruttate in molteplici modi da coloro che vogliono trarne un vantaggio economico”.

Proprio a proposito di testamento digitale, va sottolineata l’esistenza di un completo vuoto legislativo rispetto a questo fenomeno, così recente e ancora in fieri. Analizzando questa situazione con uno sguardo filosofico, è possibile individuare un nesso tra questa immobilità della giurisprudenza e il fatto che la nostra società abbia attuato una piena rimozione del tema della morte, facendone un tabù?

“Certamente: come avviene nella vita “reale”, in cui evitiamo di pensare alla nostra mortalità, liquidando le questioni ad essa collegate in maniera sbrigativa, e non affrontando nodi centrali come la redazione del testamento biologico, allo stesso modo anche nel mondo digitale spesso il destino della propria identità online viene deliberatamente ignorato. Ad agire è un vero e proprio freno culturale, che rifiuta di affrontare questo tema per scaramanzia o per paura, nella futile speranza che, in tal modo, quel fatidico momento non arrivi”.

Come si può agire, allora, per sensibilizzare la società rispetto ad un argomento così delicato e personale?

“Sarebbe necessario riuscire a diffondere il più possibile corsi di death education non solo in ambito universitario, ma in tutti i luoghi dove avviene la formazione del cittadino: ospedali, scuole, luoghi di lavoro...

Inoltre sarebbe auspicabile adottare, rispetto alle tecnologie digitali, un atteggiamento equidistante: né assumere toni apocalittici, demonizzandole, né, d’altro canto, abbracciare un approccio eccessivamente entusiastico, che porta a sottovalutarne i rischi. Anche in questo caso bisognerebbe assicurare adeguati percorsi di formazione ai cittadini, in modo da permettere loro di essere consapevoli e in grado di prendere decisioni sulla gestione della propria identità digitale in modo autonomo e informato, così da tutelare se stessi e i propri cari”.

Dall’altra parte, tuttavia, bisognerebbe esigere dalle aziende che gestiscono queste masse di dati una maggiore trasparenza.

“Questo è un punto cruciale, delicato e di difficile soluzione: qui, infatti, sono in gioco giganteschi interessi economici, e la sensazione è che non si voglia davvero andare nella direzione di una maggiore trasparenza. Al contrario, l’ingenuità con cui gli utenti dei servizi digitali cedono informazioni riservate viene surrettiziamente incoraggiata. Ecco perché è fondamentale rendere consapevoli i cittadini: non essendo noi protetti dal punto di vista formale, solo la conoscenza e la consapevolezza possono tutelarci”.

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