SOCIETÀ

Internet e opinioni di massa, una riflessione con il giornalista e saggista Renato Parascandolo

Nei dibattiti e nelle analisi sul ruolo di Internet la narrazione positiva ed entusiastica che accompagnò l'ingresso, tra la fine degli anni '90 e i primi anni 2000, delle tecnologie digitali nelle nostre vite si è spostata nel corso del tempo verso una visione maggiormente critica, se non addirittura apocalittica. Se agli albori del web lo spazio sconfinato della rete era assimilato a una grandiosa occasione di democrazia che avrebbe permesso non solo di costruire un rapporto più orizzontale tra i cittadini e la politica, ma anche di aumentare enormemente l'accessibilità alle informazioni provenienti da ogni angolo del mondo, questa interpretazione ha progressivamente ceduto il passo a una lettura del fenomeno molto più focalizzata sugli aspetti negativi. E i motivi di certo non mancano, basti pensare al dilagare delle fake news, al cyberbullismo, alle campagne di odio che viaggiano sui social, ma anche alla difficile tutela della privacy e dei dati che viaggiano in rete. Ad essere mutata è anche la struttura delle realtà che si sono fatte strada nel mercato della new economy: dalle prime start up guidate da giovani creativi e visionari, magari nate in uno scantinato, al consolidamento di pochi colossi multinazionali che dominano il mercato mondiale. 

Questo cambiamento di paradigma rischia però di far perdere di vista una delle principali potenzialità offerte dalla rete, vale a dire la condivisione delle cultura e delle conoscenze. E poi c'è un aspetto di cui abbiamo avuto esperienza durante il lockdown: il lavoro da remoto e le lezioni online, ma anche scampoli di socialità che altrimenti ci sarebbero stati quasi completamente preclusi. 

Abbiamo approfondito questi temi insieme al giornalista e saggista Renato Parascandolo, già direttore di Rai educational e dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, che all'argomento ha dedicato un'analisi incentrata sul cambiamento del concetto di opinione pubblica e sul modello di business dominante su Internet. 

L'intervista completa a Renato Parascandolo sul ruolo di Internet e sulle modalità di comunicazione che passano dalla rete. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

Nelle sue riflessioni sul ruolo di Internet e delle tecnologie della rete, lei sottolinea gli aspetti positivi come la condivisione di saperi e conoscenze, ma anche quelli più problematici, legati alle fake news e alla corsa ai like facili a discapito della qualità dell’informazione. La comunicazione che passa dalla rete ha evidentemente molteplici aspetti: possiamo soffermarci su potenzialità e criticità?

Già il fatto di poter discutere delle potenzialità e delle criticità, degli aspetti negativi e di quelli positivi, mi sembra un passo avanti in quanto andando a leggere a rileggere tutta la letteratura sugli studi di Internet, a partire dagli ultimi dieci anni vediamo un crescendo di tendenze apocalittiche e catastrofiche. Si è verificato un passaggio repentino da uno stato di esaltazione, giustificato per altro, alla fine del secolo scorso quando Internet aveva effettivamente questo carattere libertario a un atteggiamento invece depressivo. E si ha quasi l’impressione che l’irrimediabile sia già accaduto e che non ci sia più niente da fare. Al punto che basta leggere quasi tutti i titoli dei best seller degli ultimi anni per avere la percezione che questa catastrofe sia irrimediabile. Provo a ricordarne alcuni:  “La rete è il nemico” di Assange, “Internet ci rende stupidi?” di Carr o i riferimenti al “dominio dei padroni della rete” e al “sistema di sorveglianza universale”. E ancora uno dei più grandi guru della rete come Jaron Lanier che afferma che bisogna solo disconnettersi e cancellare le tracce e dà tutti i suoi consigli per eliminare ogni traccia dal web e dai social. Tutto questo disfattismo a me sembra veramente pericoloso perché ci sono tanti aspetti positivi della rete, che sono innegabili, e soprattutto ho l’impressione che si stia enfatizzando troppo tutto quello che di negativo effettivamente esiste, solo perché fa clamore e si tende invece a sottovalutare la presenza sulla rete di energie, di quelle che quindici anni fa Pierre Lévy chiamava “intelligenza collettiva”. 

Ha senso la definizione "popolo della rete"? E cosa differenzia questa entità dal concetto di "opinione pubblica"?

Come sappiamo il concetto di opinione pubblica risale alla fine del XVIII secolo, è uno dei motori della Rivoluzione francese e si riferisce a un’élite che si forma sui libri, sui saggi e soprattutto sulla lettura dei giornali e sulla scrittura dei giornali stessi. Un'élite illuminata che grazie alla diffusione delle Gazzette, dei giornali e della stampa può crescere, dialogare e creare una cultura dell’argomentazione razionale, non più ristretta ai filosofi e ai retori, ma allargata alla maggior parte dei cittadini alfabetizzati. A mio avviso questo concetto di opinione pubblica, che sicuramente aveva un carattere elitario, difficilmente può essere esteso fino a inglobare quello che viene chiamato il “popolo della rete”. Esteso oltre un certo limite diventa un concetto fallace perché se lo applichiamo a tre miliardi e mezzo di persone non ci dà più l’idea di quello di cui stiamo parlando. Allora il mio pensiero è che questo concetto di opinione pubblica è già di per sè superato: nel 1920 negli Stati Uniti esce un libro che si chiama proprio “L’opinione pubblica” di Walter Lippmann. L’autore è un giornalista e saggista che cominciò a riflettere sul suo ruolo di giornalista e sulla formazione dell’opinione pubblica. Lui esattamente un secolo fa affermò che il concetto di opinione pubblica è equivoco perché in realtà sono i giornali e i media a formare l’opinione pubblica, non è un qualcosa che si forma a partire dalle persone. E’ cioè un’opinione “pubblicata”, più che “pubblica”. In seguito, soprattutto a partire dagli anni ’30 quando nascono gli istituti di ricerca per il marketing, come la Gallup per citarne uno, il concetto di opinione pubblica perde la caratteristica di élite che argomenta razionalmente su questioni fondamentali e sui valori, e diventa piuttosto un fatto quantitativo. Non si distingue più per la qualità, per l’esprit de finesse di questa cerchia, per la ricchezza delle argomentazioni e dei concetti, ma per la quantità delle persone che consentono su un determinato argomento. Diventa quindi l’equivalente dello share dell’Auditel. E così se noi oggi andiamo a leggere la definizione di opinione pubblica su vocabolari autorevoli vediamo che è “la maggioranza di persone che consente su un certo argomento”. La riduzione dell’opinione pubblica ad un elelmento quantitativo ha portato a una confusione che ha poi avuto come conseguenza l’estensione del concetto agli oltre 3 miliardi e mezzo di persone che usano Internet e i social media. Partendo da questa riflessione io sono arrivato a disaggregare questo concetto di opinione pubblica e a individuare, soprattutto sulla rete, due entità ben distinte. Una è quella che abbiamo chiamato genericamente il “popolo della rete” e che io invece chiamerei “opinione di massa”: rispetto alla tradizionale opinione pubblica del ‘700 e dell’800 si caratterizza per il fatto di non essere fondata sull’argomentazione razionale, quanto piuttosto sulla suggestione, sul pregiudizio e sulla sempificazione degli argomenti. E’ quindi un’opinione che non ha i requisiti per essere ascritta nell’opinione pubblica. Al tempo stesso anche la parte colta e raziocinante dell’opinione pubblica dovrebbe avere una sua nuova identità e io la vorrei chiamare “opinione critica”: sono quelle persone che hanno un certo grado di cultura, capacità critica, facoltà di giudizio e sono in grado di avere un atteggiamento distaccato, riconoscere le fonti delle notizie che leggono, distinguere l’autorevolezza di una fonte rispetto ad un’altra e soprattutto sono favorevoli alla discussione dialettica e al confronto delle idee.

Lei indentifica come causa primaria delle aberrazioni del web “l’economia del gratis” e fa un interessante paragone tra il modello di business delle tv commerciali e quello dei giganti della rete che, a differenza delle prime, sono agglomeratori di contenuti esonerati dall’onere di acquistare o produrre un programma. Che dinamiche si vengono a creare? E come cambia il ruolo da spettatore di un programma tv a utente del web?

Provo rapidamente a riassumere il concetto. La televisione di servizio pubblico si distingue dalla televisione commerciale per un fatto strutturale, non solo perché ha degli obblighi. Nella televisione pubblica lo spettatore è un utente, un abbonato, un cittadino che decide di vedere o non vedere quella televisione, paga un canone e quel servizio rientra nel welfare complessivo di un Paese. Nella televisione commerciale invece il commercio non avviene tra l’emittente e lo spettatore, ma tra l’emittente televisiva e l’agenzia di pubblicità: l’emittente vende all’agenzia uno spazio del suo palinsesto e lo fa pagare sulla base degli spettatori che le promette. In questa compravendita di spazi televisivi ciò che viene venduto e comprato è il numero di telespettatori. Quindi nella televisione commerciale il telespettatore non è più l’utente, non è più il cittadino abbonato ma è la merce prodotta dal programma televisivo che segue o precede lo spot. Quello che avviene è una mercificazione dell’utente. Oltretutto la sua presenza davanti al televisore, il tempo del suo sguardo e della sua attenzione rappresenta un valore perché più l’utente guarda, più fa aumentare il valore dello spazio pubblicitario in quella fascia. Ma in base alle teorie dei classici dell’economia, da Smith a Marx, noi sappiamo che il valore è prodotto in gran parte dal lavoro: quindi, detto in maniera estrema, vuol dire che chi sta davanti alla televisione commerciale sta lavorando, in quanto sta producendo valore.

Nel passaggio dalla televisione commerciale a Internet avviene un prodigio perché sono gli utenti stessi a produrre l'esca per altri utenti

Mentre la televisione commerciale deve necessariamente creare l’esca per riuscire a produrre telespettatori, nel caso di Internet gli aggregatori di contenuti come Google oppure le piattaforme di condivisione come Facebook o le piattaforme come YouTube non hanno più questa necessità di produrre programmi ed eventi perché sono gli utenti stessi che producono i contenuti. Quindi su Internet avviene questo prodigio di guadagnare una quantità sterminata di soldi, senza neanche investire sull’esca in quanto sono gli utenti stessi a produrre l’esca per altri utenti. Quindi parafrasando scherzosamente il famoso libretto di Sraffa che criticava la teoria del valore di Marx, "produzione di merci a mezzo di mezzi", io dico “produzione di utenti-merci a mezzo di utenti-merci”. Questo fa capire perché il “popolo della rete” cresce tanto: se ad ogni clic o like, ogni ricerca che io faccio, ogni video che io vedo, ogni messaggio che io mando, aumenta di un po’ il valore della pubblicità complessiva del sistema, allora questo spiega il meccanismo che spinge a mettere in giro delle notizie clamorose e più virali di quelle vere, di quelle comuni. Ecco il motivo per il quale tante degenerazioni della rete sono in atto, alimentate da questa economia del gratis.

A suo avviso cosa occorrerebbe fare per rendere Internet più uno strumento di crescita culturale che un punto di ritrovo di complottisti, odiatori seriali e diffusori di fake news?

Prima di tutto bisognerebbe riflettere su queste categorie che lei ha citato. Il modo di pensare caratteristico di queste persone - elementare, suggestivo e legato a pregiudizi - c’era anche prima dell’arrivo di Internet e contraddistingue tali soggetti anche al di fuori della rete. L’arretratezza culturale e quello che noi chiamiamo analfabetismo funzionale sono una delle piaghe dell’occidente perché la complessità della società e la quantità di saperi e di innovazioni tecnologiche sono tali che il gap che si viene a creare tra l’uomo medio e l’avanzare delle conoscenze aumenta moltissimo, in una misura enormemenrte maggiore rispetto a un secolo fa. Prendendo atto di tutto questo noi non dobbiamo avere un atteggiamento snobistico nei riguardi del popolo della rete, cioè di quella che io chiamo l’opinione di massa, ma un atteggiamento “pedagogico”, senza con questo voler far gli educatori. 

L’analfabetismo funzionale è un problema che riguarda anche la scuola: ricordo che nell’ultimo rapporto dei 37 Paesi dell’Ocse è emerso che l’Italia è al 29° posto per numero di giovani che hanno terminato la scuola dell’obbligo. Quindi se i giovani non sono in grado di interpretare un testo e di riassumerlo e hanno scarse conoscenze di matematica e scienze vuol dire che l’opinione di massa comincia a crearsi dentro la scuola stessa, nella scuola dell’obbligo. Se c’è un problema generale di persone che vanno a costituire una massa che, se rimane tale, può diventare massa di manovra allora bisogna fare in modo che ci sia un impegno da parte dell’opinione critica che è su Internet - vale a dire centinaia di università di tutto il mondo, ricercatori, scienziati, giornalisti, ideatori di servizi come Wikipedia - di creare una forma di solidarietà attiva nei confronti dell’opinione di massa per farla crescere. Il nemico non è l’opinione di massa, come traspare invece dai titoli che leggevo all’inizio, non sono loro i disturbatori e non è giustificato questo atteggiamento così sprezzante che arriva a parlare volgarmente di “shitstorm”, tempesta di letale, attribuita poi di fatto a queste persone. E questo è un tema che riguarda da vicino i partiti politici - in particolare i progressisti, i liberali, i democratici, visto che attraversano una crisi profonda di identità e di organizzazione - perché devono pensare alla rete non come uno strumento di propaganda populistica, ma come opportunità di crescita.

Durante il lockdown Internet e le tecnologie legate allo smart working sono stati strumenti fondamentali per permettere a molti settori di continuare ad andare avanti. E lo stesso è accaduto, seppure con delle criticità, nel mondo della scuola con le lezioni online. Gli esempi potrebbero essere molti altri visto che, ad esempio, anche la fruizione di iniziative culturali è avvenuta tramite il web. Che riflessioni possiamo fare sul ruolo della rete durante questa difficile esperienza della pandemia?

Il principale aspetto positivo che ho rilevato durante l’esperienza della pandemia è che i cittadini sono stati indotti dalle circostanze a misurarsi con l’autorevolezza della scienza. C’è stato quindi il riconoscimento che non tutte le opinioni si equivalgono - perché questo è uno dei problemi del cosiddetto popolo della rete, dove ognuno ha la sua opinione ed è il mondo della doxa, per ricordare Platone - e si è stati indotti ad ascoltare gli scienziati. Oltretutto questo è avvenuto in un contesto particolare visto che gli stessi scienziati avevano opinioni diverse e facevano valutazioni diverse. Quindi si è anche potuto far capire che la scienza non è una verità assoluta e che esiste una dialettica interna alla scienza. Abbiamo avuto un esempio pratico di come può essere un’opinione critica e di come le persone comuni, che tendenzialmente potrebbero essere attratte dalle notizie false e sensazionali e dalla post-verità, siano state invece indotte ad ascoltare le cifre, il parere degli esperti e abbiamo visto sparire dalle cronache i no-vax, i terrapiattisti, le scie chimiche. Si è visto che è possibile stabilire un rapporto dialettico tra l’opinione critica e l’opinione di massa. E’ un buon segno e vuol dire che proseguendo su questa strada si possono avere ottimi risultati.

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