SOCIETÀ

In Italia manca la cultura della crisi

La gestione della crisi è come il backup del computer: è quella cosa che andava fatta prima. Prima che fosse troppo tardi, prima del patatrac, quando il mondo era fermo e le persone avevano ancora una soglia di attenzione accettabile per prendere decisioni ponderate e razionali.
Si è parlato molto di comunicazione in questi giorni di Covid-19, delle bufale che spuntano ogni giorno, di chi si diverte a diffondere audio allarmistici via WhatsApp e di chi dovrebbe avere il controllo della situazione e invece si lascia sfuggire una bozza di decreto scatenando il panico generale, con treni presi d'assalto da cittadini che volevano rientrare a casa prima del blocco (che poi non c'è stato, perlomeno non nella forma paventata) e appelli alla calma che in pochi hanno ascoltato.

Il problema è che il pesce puzza dalla testa: "È impensabile affrontare correttamente una crisi quando è già in corso - dichiara Giampietro Vecchiato, professore a contratto di Relazioni pubbliche ed esperto di crisis management - è un lavoro che va preparato prima: per esempio è necessario individuare delle linee guida per il comportamento dei dipendenti e un portavoce, che avrà il compito di comunicare all'esterno. Certo per un'azienda è più facile, per lo Stato non lo è altrettanto".

In effetti i cittadini sono turbati, e una certa dose di anarchia continua a serpeggiare, alimentata da domande meno scontate di quanto sembrino ("Si può fare sport all'aperto da soli?" "Comprare le sigarette è una necessità?" e via dicendo). Il problema, secondo Vecchiato, è che nessuno si è preoccupato di far capire ai cittadini che la situazione è sotto controllo: "E sotto controllo non vuol dire che si hanno le idee chiare su tutto, vuol dire dare la sensazione che gli esperti stanno lavorando, che c'è un team che cerca di comprendere le dinamiche e che probabilmente prenderà le decisioni giuste. Invece si sono susseguite varie decisioni senza una vera e propria regia, con le regioni che non erano sulla stessa linea dello Stato, i dipendenti sanitari che si lasciavano andare a dichiarazioni a dir poco imprecise e con i medici che battibeccavano sui social".

La comunicazione medica, in effetti, ha sempre sofferto di varie criticità. È normale che gli addetti ai lavori possano avere visioni differenti di una stessa situazione, ma sicuramente ricevere messaggi contrastanti non giova a nessuno. Un altro problema è quello del tono, che nella comunicazione online, ma anche in quella televisiva, è costantemente troppo alto. Roberto Burioni, per esempio, aveva caldeggiato la chiusura delle attività fin dall'inizio, ma era stato trattato come il più classico degli uccelli del malaugurio, anche da colleghi altrettanto illustri. I fatti gli hanno dato ragione, ma è comprensibile che sia rimasto inascoltato: "Un'emergenza consente di alzare i toni - conferma Vecchiato - ma a bocce ferme non si può tenere un tono costantemente alto: il prevedibile effetto di una comunicazione sopra le righe è che possa intervenire un senso di assuefazione nel pubblico e nelle autorità, che non si renderanno di conto si trovarsi di fronte a una vera emergenza come quella di adesso".

Un altro problema, nel caso del Covid19, è che quando c'è una crisi bisognerebbe parlare "a voce sola", perché le divisioni spiazzano i destinatari della comunicazione. In un'azienda è più semplice, basta dire chiaramente ai dipendenti che non si possono esprimere sull'argomento: i dipendenti seguiranno quasi di sicuro l'indicazione, anche solo per paura delle conseguenze. In questo caso è più complicato, perché ci sono moltissime forze in gioco: Governo, Regioni, Protezione civile, dirigenti dei vari ospedali, prefetti. Anche se tutte queste entità parlassero a voce sola, è inevitabile che possano nascere delle divergenze spiazzanti. "In questa situazione - dichiara Vecchiato - probabilmente non si poteva fare meglio di così".

Saperlo, però, non è molto consolante. È anche vero, però, che da ogni crisi si può imparare qualcosa (il crisis management prevede anche un'analisi post crisi per capire come migliorare nel malaugurato caso che una crisi si ripresenti). In questi giorni ci stiamo rendendo conto che in Italia, ma non solo, manca la cultura della crisi. Quella che permetterebbe di chiarire e avere ben presenti tutte quelle azioni che dovremo compiere se e quando la crisi si presenterà: "A livello di Stato, non si è mai ragionato sulla possibilità di crisi sanitarie e sulle norme da seguire - conclude Vecchiato - e quindi questa volta i vertici hanno dovuto agire un po' a braccio. Speriamo che, quando finirà l'emergenza si cominci a ragionare in chiave preventiva".

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012