SCIENZA E RICERCA

L’ultimo teorema di Alexander Grothendieck

Tra pochi giorni, il 13 novembre, saranno esattamente cinque anni che Alexander Grothendieck è morto, ma le circa 70.000 pagine del suo archivio misterioso giacciono ancora nello scantinato di una libreria antiquaria parigina, in attesa che qualcuno le valuti e che qualcun altro (la Bibliothèque Nationale de France o qualche ricca università nordamericana) le acquisisca e ne permetta l’accesso ai ricercatori.

Ma perché quelle migliaia di pagine sono così misteriose e così importanti? A molti il nome di Alexander Grothendieck non dirà granché. Eppure, a nessun matematico, neppure di quart’ordine, c’è bisogno di spiegare chi fosse. Nessun cultore dei numeri e della geometria ignora, infatti, che l’eccentrico e geniale ottantaseienne morto nel 2014 all’ospedale di Saint-Girons, nell’Ariège, non lontano da Lasserre, il villaggio di duecento abitanti nel quale si era ritirato e nascosto fin dal 1991, è stato il più grande matematico del XX secolo, le cui idee, come ha detto Pierre Deligne, uno dei suoi allievi, «sono penetrate nell’inconscio»degli studiosi di questa disciplina.

I suoi «pari» spesso lo paragonano a Einstein, ma faticano a trovargli un equivalente tra i grandi matematici: secondo loro, né Hilbert, né Cantor, né Poincaré, né André Weil possono dirsi esattamente alla sua altezza. Noi profani dobbiamo fidarci. Tuttavia, a giudicare dai riconoscimenti ottenuti, il suo talento sembra immenso: nel 1966 ottiene la medaglia Field (il Nobel dei matematici, assegnata ogni quattro anni), nel 1977 gli viene attribuita la medaglia Émile Picard, dell’Accademia delle Scienze francese, poi, nel 1988, vince il premio Crafoord dell’Acca­demia di Svezia. Lui, se ne frega: la medaglia Field la rivende e trasferisce il denaro al governo del Vietnam del Nord nel pieno della guerra contro gli Usa; la seconda la trasforma in uno schiaccianoci «molto efficace», come dirà a un amico; il terzo, coronamento di qualunque carriera, dotato di 270mila dollari dell’epoca, semplicemente lo rifiuta e morta lì.

Ma, a quel punto, la svolta radicale della sua vita è già avvenuta da un pezzo: a contatto con gli «arrabbiati» del maggio francese, infatti, ha lasciato l’insegnamento e ha smesso di pubblicare, per la costernazione di tutto il mondo scientifico, abituato alle performances e alle geniali «invenzioni» matematiche del genio venuto dal nulla, dell’apolide naturalizzato francese soltanto nel 1971, quando era sicuro che nessuno l’avrebbe più chiamato a fare il servizio militare.

Grothendieck era nato, infatti, nel 1928 a Berlino da un padre fotografo e da una madre giornalista che, nel 1933, per sfuggire al nazismo, lasciano il figlio a un amico e si trasferiscono in Francia, per poi prendere parte alla guerra civile spagnola nelle milizie anarchiche. È solo nel 1939 che l’undicenne Alexander li raggiunge nel sud della Francia. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, però, il primo ministro francese Daladier decide di internare gli esuli tedeschi antinazisti, insieme ai «sospetti» di ogni risma,in terribili campi d’internamento. Vi finiscono Walter Benjamin, Hannah Arendt, Arthur Koestler… E la famiglia Grothendieck. Il padre sarà poi mandato ad Auschwitz, dove morirà, e Alexander e la madre nel campo di Rieucros. Lì, però, i ragazzi possono andare a scuola, e Grothendieck farà il liceo a Mende, a tre chilometri dal campo. Bravo studente, ma «senza essere brillante», si metterà in luce soltanto quando, per la tesi di laurea all’università di Montpellier, verrà mandato a Parigi con una lettera di raccomandazione per Henry Cartan, che lo spedirà a Nancy. Incaricato di seguirlo è Jean Dieudonné: un po’ per gioco, un po’ per metterlo alla prova, il grande matematico gli sottopone quattordici problemi irrisolti da molti anni e gli dice di provare a sviscerarne almeno uno. Pochi mesi dopo, il giovane Grothendieck si ripresenta dal professore: li ha risolti tutti, e in maniera fortemente innovativa.

I vent’anni che seguono, tra il 1950 e il 1970, sono quelli della sua massima produttività scientifica, sebbene, essendo un apolide, sia complicato trovargli un posto statale. Risolverà il problema un’istituzione privata, l’IHES, nata sul modello dell’Institute for advanced studies di Princeton. Lì Grothendieck scrive i suoi Elementi di geometria algebrica, che rivoluzionano gli studi matematici così come lo spaziotempo einsteiniano ha rivoluzionato la nostra stessa idea di mondo, descrivendo con precisione estrema spazi esotici in cui aritmetica e geometria sono un tutt’uno. Fonda la geometria algebrica, formula la «teoria dei fasci», inventa il concetto matematico di schema che generalizza il concetto di «varietà algebrica». Nessuno mai si è spinto così avanti nell’affascinante universo delle forme e degli spazi. Come ha scritto Luca Barbieri Viale, «il profano che si accosta all’opera matematica di Grothendieck dovrà abbandonare il senso comune che guarda al matematico come un problem solvere provare veramente a guardare la matematica come un’arte e il matematico come un artista».

Il Sessantotto spezzerà quest’incantesimo: Grothendieck si ritira dall’insegnamento, abbandona la comunità scientifica, lascia il Collège de France e l’IHES, perché finanziato (in minima parte) dal ministero della Difesa, e fonda Survivre et vivre, un’associazione che si batte per l’ecologia radicale e sostiene la necessità di abbandonare il nostro modo consumistico di vivere. Poi, per qualche altro anno, torna a insegnare a Montpellier, scrivendo e lavorando molto, ma senza mai pubblicare nulla né frequentando i colleghi, finché, nel 1988, il suo ultimo atto pubblico è il rifiuto del premio Crafoord. Alexander Grothendieck vive già da tempo come un eremita, ma nel 1991 va oltre: come Salinger, sparisce, si volatilizza. Nessuno sa più dove si trovi. Prima di far perdere le sue tracce, affida 20.000 pagine di appunti e di lavori conclusi a un amico, con l’ordine di distruggerle. Per fortuna l’amico a cui le aveva affidate si comporta come Max Brod con Kafka, e non le brucia: sono cinque scatoloni che resteranno per anni in un garage prima di essere destinati all’Università di Montpellier. 

Poi, alla morte di Grothendieck, i suoi cinque figli, penetrando finalmente in quella casetta sperduta sui contrafforti dei Pirenei dove nessuno poteva mettere piede da più di vent’anni, trovano altre cataste di appunti e scartafacci. Sono le 70.000 pagine misteriose. I pochi che vi hanno potuto dare un’occhiata dicono che, scritte a mano e con grafia spesso incomprensibile, sono redatte in francese, tedesco e inglese, che parlano di matematica, di fisica, di religione, di astronomia, ma, per esempio, uno dei quaderni contiene una minuziosa lista, costellata di segni indecifrabili, degli ebrei deportati dalla Francia occupata nei campi di concentramento nazisti.

Difficile sviscerare quel teorema. Difficile trovare un ordine e un senso in quegli appunti. Forse contengono tesori scientifici o forse sono soltanto le elucubrazioni di un uomo perso nei complicati meandri del proprio cervello. Difficile, perciò, anche valutarli. La Bibliothèque Nationale de France ne stima il prezzo in circa 45.000 euro (che li renderebbe abbordabili per un’istituzione pubblica), ma qualcun altro parla di un valore di cinque milioni. Chi può dirlo? Intanto, però, continuano a giacere in quello scantinato. Quando finalmente i ricercatori potranno accedervi, forse anche noi potremo aggirarci nei meravigliosi spazi che Alexander Grothendieck ha studiato, descritto e inventato. Magari quelle carte non conterranno alcuna scoperta clamorosa, magari ci diranno soltanto qualcosa in più sulla sua storia romanzesca. Del resto, come ha fatto notare Denis Guedj, «se un romanzo è presenza di passioni, di domande, di angosce, di emozioni, di ossessioni, di amore e di morte, allora la matematica è a pieno titolo un romanzo. E per di più, un romanzo davvero appassionante».

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012