SOCIETÀ

Numeri, profili e orizzonti del volontariato in Italia

C'è chi sceglie di prestare attività di volontariato all'interno di un'organizzazione strutturata e chi invece preferisce farlo senza intermediazioni, magari in una logica di prossimità e di vicinato. Chi è mosso da valori religiosi e chi, nell'aiutare gli altri, trova anche una risposta al bisogno di socialità. La propensione al dare una mano non è correlata al disporre di un reddito alto, mentre esiste un legame forte tra impegno sociale e risorse culturali. Le motivazioni e i profili delle persone che in Italia sono impegnate nel volontariato sono diversi e complessivamente contribuiscono a formare un numero ampio: 7 milioni di persone che, agli impegni della vita quotidiana, decidono di affiancare azioni gratuite a supporto della collettività, con un impegno che si aggiunge agli strumenti, non sempre esaustivi, del welfare pubblico soprattutto in anni difficili come quelli successivi alla crisi globale del 2008 che, secondo dati Istat, hanno visto un raddoppio delle persone in stato di povertà assoluta.

Per approfondire i numeri, conoscere le tipologie di volontarie e volontari, ma anche capire quali sono le sfide future per il settore abbiamo intervistato Riccardo Guidi, docente del dipartimento di Scienze politiche dell'università di Pisa e curatore, insieme a Ksenija Fonović e Tania Cappadozzi, di un libro, intitolato Volontari e attività volontarie in Italia. Antecedenti, impatti, esplorazioni, che è l'esito finale del primo studio che in Italia ha analizzato anche le anime del volontariato individuale, oltre a quelle più note del volontariato organizzato. Il volume è frutto di una collaborazione tra Istat, CSVnet e Fondazione Volontariato e partecipazione che contiene i contributi di oltre venti studiosi e ricercatori dell'Istituto nazionale di statistica.

 

L'intervista al professor Riccardo Guidi, docente del dipartimento di Scienze politiche dell'università di Pisa

"Il fenomeno del volontariato in Italia - spiega il professor Riccardo Guidi - è molto sfaccettato, forse più di quanto pensiamo. Fornire i numeri è sempre molto pericoloso perché i dati sono passibili di difetti, anche quando a raccoglierli è l’Istituto di statistica ufficiale. Comunque possiamo dire che sono circa 7 milioni le persone che si impegnano in attività volontarie, o tramite organizzazioni, gruppi più o meno formalizzati, o individualmente, cioè senza far ricorso ad alcuna intermediazione organizzativa. Questi 7 milioni sono italiani ed italiane che fanno volontariato in modo molto diverso, quello che emerge è un numero complessivo ma all’interno ci sono tanti profili, tanti modi di fare volontariato".

Come si differenziano questi profili a seconda che che l’impegno sia all’interno di organizzazione o sia condotto individualmente?

Questa è una prima distinzione da fare. Circa 4 milioni di persone fanno volontariato attraverso una o più organizzazioni, dove per organizzazioni si intende di tutto: dalle quelle più classiche che siamo soliti frequentare o conoscere, ai gruppi più informali. Poi c’è l’altra faccia della medaglia, questi circa 3 milioni di persone che fanno volontariato direttamente, individualmente, informalmente cioè con nessuna intermediazione organizzativa. All’interno di queste due grandi famiglie di tipologie di volontariato, che hanno comunque delle sovrapposizioni tra di loro, ci sono dei profili specifici. Credo che il nostro studio sia il primo, non solo in Italia, che ha cercato di profilare i volontari del secondo tipo, quelli individuali. Mentre già altri tentativi erano stati fatti di profilare i volontari organizzati che forse sono anche quelli meno nuovi. E lì troviamo i classici tipi di volontariato italiano, quindi un volontariato che si sviluppa in alcuni ambiti, come quello socio-sanitario, o un profilo di volontari che sono molto attivi dentro funzioni di rappresentanza. Io però mi vorrei concentrare con maggiore attenzione sui profili di secondo tipo, quelli legati al volontariato individuale e diretto: lì troviamo figure molto diverse tra di loro e con questa indagine scopriamo che il volontariato diretto in Italia è in parte costituito da persone che offrono il proprio aiuto gratuito ad amici, conoscenti, familiari non conviventi, vicini di casa. E’ un po’ il circuito del volontariato di prossimità e di affinità e questo era tutto sommato atteso. Ma c’è un altro profilo che ci sorprende e che ci interessa molto ed è quello del volontariato individuale che viene prestato a beneficio della collettività e dell’ambiente che è un profilo molto simile a quello organizzato ma sceglie di fare da solo. 

Dal punto di vista delle fasce di età come si differenzia l’impegno?

In via generale il volontariato italiano segue la curva tipica del volontariato nel mondo, cioè sono più attive le persone nella fascia di età tra i 40 e i 60 anni. Tra i più giovani e i più anziani ci sono tassi di volontariato più bassi, nonostante queste fasce di età abbiano una quantità maggiore di tempo libero, sia che si tratti di studenti sia che si tratti di pensionati. Quindi, anche se può sembrare paradossale, chi si impegna di più nel volontariato sono le persone con età di mezzo, soprattutto quelle che hanno figli in età scolare, sono impegnate in un’attività lavorativa a tempo parziale o pieno. In sostanza sono persone che hanno già molto da fare ma che, forse non sorprendentemente, aggiungono al molto da fare anche l’attività di volontariato. Dico non sorprendentemente perché gli ambienti lavorativi, quelli del classico impiego retribuito, alimentano anche relazioni che guidano, motivano l’attività di volontariato. Come pure avere dei figli in età scolare che ovviamente richiedono molto tempo ma offrono anche l’opportunità di entrare in contatto con molti ambienti, dalla società sportiva alla ludoteca per intenderci, che possono alimentare l’attività di volontariato. Dovremmo poi spendere qualche parola per le tipologie di volontariato degli studenti e dei pensionati. Come dicevo in via generale giovani e anziani fanno meno volontariato degli italiani in fascia media di età ma questo non significa che non sia un volontariato interessante. Quello eseguito dai pensionati si caratterizza principalmente per essere motivato da un’aspettativa di socialità, mentre tra gli studenti, soprattutto tra coloro che sono all’interno di un percorso universitario e alla conclusione del loro ciclo di studi hanno un’aspettativa di ingresso nel mondo del lavoro, lì c’è una motivazione interessante che può avere una natura “individualistica”, cioè l’idea che fare qualcosa per gli altri possa anche avere un impatto positivo ai fini della propria occupabilità e alimentare dei contatti che possono essere un valore aggiunto successivamente sul mercato del lavoro. 

Quindi per quanto riguarda i fattori che determinano una maggiore propensione al volontariato possiamo sfatare l’esistenza di una correlazione, che un tempo si dava per assodata, e cioè che aiutare gli altri sia un'attività "da ricchi"?

Il volontariato non è una roba da ricchi, se per ricchi intendiamo il possedere risorse materiali e denaro. Su questo tema c’è un bel dibattito. L’elemento che con maggiore probabilità predice se una persona deciderà di impegnarsi nel volontariato non è il reddito ma è il titolo di studio e, ancora di più, il livello di consumo culturale. Più cultura, più volontariato. La potremmo tradurre così con uno slogan: ovviamente la realtà è molto più complessa, ma se dovessimo individuare un fattore che fa la differenza, e che spiega perché alcune persone fanno volontariato e altre no, questo è un elemento culturale e più precisamente il possesso di risorse che hanno a che fare con la capacità di riflessività e di pensare autocriticamente all’utilizzo del proprio tempo e del tempo libero. Questo è, secondo me, un dato molto interessante anche per alimentare l’azione di politici, addetti ai lavori, referenti delle grandi e delle piccole associazioni, dei centri di servizio per il volontariato. Quindi se noi dovessimo fare una politica a sostegno del volontariato questa politica, secondo i risultati del nostro lavoro, dovrebbe essere costruita su interventi che sostengono la cultura.

Veniamo alle motivazioni e gli impatti: è vero che chi fa del bene alla collettività migliora anche la propria qualità della vita?

Dai nostri dati emerge proprio questo. Chi fa volontariato non produce solo un beneficio agli altri, ma anche a se stessi e più complessivamente alla società italiana. Uno dei contributi del volume dimostra che le persone impegnate nel volontariato hanno livelli di soddisfazione per la propria vita e livelli di benessere maggiori rispetto ai non volontari. E questo può alimentare la visione che, fermo restando che il volontariato è un gesto altruistico e questo è chiaro, le attività volontarie fanno bene anche a chi le esegue. L’altro elemento interessante, e per certi versi anche più di sistema, è che se non consideriamo il complesso dei volontari, dobbiamo pensare che chi fa volontariato alimenta un tessuto di risorse civiche di cui il nostro Paese ha moltissimo bisogno. Chi fa volontariato ha livelli di implicazione politica maggiori rispetto a chi non lo fa, partecipa di più non solo perché vota di più ma è più attivo, si informa maggiormente sulle questioni politiche, dove per politica non si intende qualcosa che ha a che fare solo con i partiti, ma la cura del bene comune, la polis. Chi fa volontariato ha livelli di fiducia nell’altro più alti e sappiamo che la fiducia è un bene preziosissimo per le nostra società e quindi dovremmo vedere il volontariato anche come un fenomeno che alimenta positivamente il vivere insieme. 

Durante la cerimonia inaugurale di Padova capitale europea del volontariato 2020 il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un passaggio del suo discorso, ha detto che i volontari sono “corpi intermedi della Repubblica pronti all’intervento di urgenza, impegnati nelle ricostruzioni delle lacerazioni patite dalle popolazioni, delle ferite presenti nel nostro tessuto sociale - e alle quali non sempre le istituzioni riescono a porre rimedio - nella gestione e nel perseguimento di obiettivi di sostenibilità ambientale”. Secondo lei quanto le diverse forme del volontariato e della cooperazione stiano sopperendo alle difficoltà del sistema di welfare statale? 

Non so se purtroppo o per fortuna ma la risposta è che sopperisce molto, soprattutto in alcune aree del nostro Paese che non sono solo quelle del sud Italia, ma sono le aree svantaggiate del centro-nord. Il mio pensiero va alle periferie delle medie e grandi città. Su questo c’è un lungo dibattito: negli anni ’80 c’era un’attenzione specifica a non rendere il volontariato l’ambulanza della storia, come diceva in quel periodo, ma a far sì che il volontariato andando oltre a una funzione di sostituzione alle mancanze dello Stato potesse reagire a tali mancanze alimentando migliori politiche pubbliche per offrire, soprattutto ai soggetti più svantaggiati della nostra società, servizi migliori. Io credo che soprattutto in questo momento storico la funzione politica del volontariato debba essere salda e rinnovata perché è sicuramente vero che a chi chiede aiuto non si può negare assistenza, e i volontari lo sanno benissimo, è altrettanto vero che non si può offrire un’assistenza dignitosa se ad un certo punto non è solo il volontariato che se ne occupa ma è anche lo Stato con le sue articolazioni. 

Come vede il futuro del volontariato? Quali sono gli obiettivi e le strategie per perseguirli?

Immagino un futuro che in parte deve seguire la strada della continuità perché il patrimonio dei volontariati in Italia deve essere preservato, custodito e mantenuto. Ma in parte per il futuro io vedo una strada che si muove su terreni nuovi che in qualche misura anche la nostra ricerca mette in rilievo. Secondo me dobbiamo guardare ai tanti volontari che presentano la loro attività gratuita in Italia, ma dobbiamo anche e soprattutto guardare con interesse verso chi non fa volontariato. E sono tanti: sono molti di più coloro che non fanno volontariato, rispetto a coloro che lo fanno. Quindi il futuro di questo momento secondo me dipende anche dalla capacità che avranno le associazioni, i centri di servizio e tutti gli addetti implicati in questo settore di riuscire a coinvolgere persone che finora non hanno dedicato neanche un’ora di tempo all’aiuto verso gli altri. Noi dobbiamo porci l’obiettivo di coinvolgere quell’80% di italiani che non fa niente per gli altri, abbiamo questa sfida davanti ed è una sfida molto difficile. Secondo me dobbiamo cercare di essere molto aperti e pensare che si può fare volontariato in tanti modi e non necessariamente soltanto dentro le organizzazioni di volontariato che siamo soliti conoscere e frequentare di più. 

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