SOCIETÀ

La pandemia ha esposto i limiti strutturali del digitale in Italia

Le difficoltà dell'Italia nella transizione digitale sono state acuite dalla pandemia, soprattutto sul fronte dei servizi della pubblica amministrazione, che investe troppo poco nella formazione.

La travagliata transizione al digitale dell’Italia sembra voler a tutti i costi contraddire una famosa frase del sociologo dei media Marshall McLuhan: “Quando una nuova tecnologia penetra in un ambiente sociale non può cessare di permearlo fin quando non ha saturato ogni istituzione”. Nel nostro paese sembra che si concentri un numero più alto di ostacoli per l’avverarsi della sua previsione. Per esempio, da quando il primo giugno dello scorso anno è disponibile l’app Immuni che dovrebbe contribuire al monitoraggio dell’epidemia, i download complessivi sono stati 10.258.891 (dato al 3 febbraio 2021). Sono molti di meno di quelli che servirebbero perché il sistema possa essere davvero efficace: siamo al 19,3% della popolazione nazionale (con età maggiore di 14) rispetto all’obiettivo dichiarato del 60%. Certo, ci sono state inizialmente delle perplessità sulla tutela della privacy, ma l’operazione ha finora permesso di individuare in tutto poco più di 10 mila casi di positività.

L’app Io è diventata popolare dal dicembre scorso, da quando cioè è lo strumento per poter guadagnarsi il cashback speciale di Natale. Il solo 2 dicembre i download sono stati più di 539 mila e un altro picco di 846 download si è registrato l’8 dicembre. Complessivamente gli utenti sono 9 milioni e mezzo: un numero molto simile a quelli di Immuni. Certo, i due dati non si possono paragonare perché Io serve anche per molte altre cose (per pagare bollettini emessi dagli enti pubblici, richiedere il bonus vacanze e accedere ad altri servizi della pubblica amministrazione) e, per esempio, il Comune di Milano l’aveva già integrata nei propri servizi già nell’aprile del 2019 in fase sperimentale. Ma anche qui siamo di fronte a una fetta relativamente piccola, attorno al 20% della popolazione italiana maggiorenne. Immuni e Io sono state scaricate da un italiano maggiorenne su cinque, evidenziano quale sia la reale proporzione di cittadini adulti che decidono o sono impossibilitati a utilizzare questi servizi digitali.

L’amministrazione pubblica non era pronta

Secondo quanto emerge dall’ultimo rapporto annuale del Forum PA, la società di servizi che accompagna amministrazioni e aziende interessate ai processi di cambiamento e innovazione della PA, c’è un problema generale di arretratezza strutturale del paese nei confronti del digitale. Si può partire anche solo ricordando l’ineguale distribuzione sul territorio della banda larga, con territori come quello montano, che ha accesso limitato alla connessione veloce necessaria per poter usufruire dei servizi della pubblica amministrazione o, vista l’esperienza dell’ultimo anno, alla didattica a distanza. Ma, scrivono gli autori del rapporto, il “cigno nero, cioè la pandemia con i lockdown e la chiusura degli sportelli fisici, ha mostrato decisamente come il Paese non fosse pronto”. 

Alla fine del 2019, pochi mesi prima dell’inizio della pandemia meno del 37% delle amministrazioni territoriali aveva nominato un Responsabile per la Transizione al Digitale e in due casi su tre (il 68%) risultava privo di specifiche competenze nel campo dell’Information Technology. Meno del 6% degli enti aveva definito una data governance interna e solo l’1% aveva messo in piedi una unità che si occupasse degli open data. Metà degli enti utilizzava servizi cloud e solo il 19% consentiva l’accesso ai servizi online attraverso la SPID (Sistema Pubblico per l’Identità Digitale), mentre solo il 33% consentiva il pagamento di servizi e tributi attraverso la piattaforma PagoPA (la stessa integrata nell’app Io).

Alla fine del 2019, metà degli enti utilizzava servizi cloud e solo il 19% consentiva l’accesso ai servizi online attraverso la SPID Report annuale Forum PA

Il 2020, sul fronte della digitalizzazione, ha portato effettivamente qualche novità positiva. Nell’arco dello scorso anno, infatti, le identità digitali rilasciate da tutti i provider accreditati sono passate da 5,4 a 14,1 milioni. Nello stesso periodo le transazioni registrate da PagoPA sono raddoppiate, passando dagli 81,7 milioni di gennaio agli oltre 165 milioni di dicembre. Il valore complessivo delle transizioni del 2019 era stato di 8,3 miliardi di euro, mentre la stima riportata dal rapporto per il 2020 parla di 18,3 miliardi. Sono numeri che mostrano un deciso scarto in avanti nell’utilizzo sotto la spinta delle restrizioni imposte dalle norme per la pandemia. Da parte della maggior parte degli enti pubblici del Paese si è però trattato di un anno di grandi sforzi per garantire la continuità dei servizi senza che ci fosse alle spalle una strategia e una pianificazione adeguata.

Una forza lavoro non più giovane

Uno dei problemi principali individuati dal rapporto del Forum PA è l’età media dei dipendenti pubblici. Rispetto al 2019, lo scorso anno l’età media è salita di poco, ma salita, passando da 50,6 a 50,7 anni. Le dipendenti donna sono mediamente più anziane (51,3 anni) rispetto agli uomini (49,9). Inoltre, a fronte di un 16,9% di over 60, i 93 mila under 30 corrispondono appena al 2,9% dei dipendenti pubblici totali. A questo quadro demografico sul quale è meno facile far penetrare le innovazioni legate al digitale, gli autori del rapporto sottolineano la diminuzione della spesa per la formazione tra i fattori che hanno rallentato la trasformazione digitale. Tra il 2008 e il 2018 questa voce di spesa si è dimezzata, passando da 262 milioni a 154 milioni di euro. Sono 48 euro per ciascun dipendente, con i quali si è potuto offrire solo una giornata di formazione all’anno a persona. 

In questo quadro, in cui appare miracoloso che non si sia bloccato tutto per un anno intero, il direttore del Forum PA Gianni Dominici rimane comunque ottimista. Si potrebbe dire che vede le difficoltà emerse a causa della pandemia, e in alcuni casi superate, come lo slancio ottenuto obtorto collo dall’insieme del sistema troppe volte rimandato a un indeterminato futuro. Non a caso c’è un capitolo del rapporto intitolato “l’inizio di un circolo virtuoso?”. Quanti di questi passi in avanti ottenuti in emergenza rimarranno anche a pandemia terminata è la domanda per i prossimi anni. 

Cittadini che decidono nell’era dell’online forzato

Intanto, dall’OCSE arriva qualche preoccupazione per la potenziale esclusione dalla partecipazione alla vita pubblica del paese da parte della fetta di popolazione che per diversi motivi è tagliata fuori dalla transizione digitale. Lo scrive su Nature Claudia Chwalisz, che per l’OCSE si è occupata di strumenti partecipativi per le delibere pubbliche. Quella che l’OCSE stessa ha chiamato l’«ondata deliberativa» è cominciata negli anni Ottanta del Novecento. «I processi deliberativi riuniscono persone scelte per rappresentare uno spaccato della società e incaricate di fornire indicazioni dettagliate su politiche pubbliche complesse. Attraverso una discussione facilitata, prendono in considerazione gli argomenti degli esperti e delle parti interessate per trovare un terreno comune e sviluppare proposte informate». Sono strumenti molto utili per colmare la distanza tra Stato, nelle sue molte ramificazioni amministrative, e i cittadini, che possono così avere una voce in alcune scelte che influenzano la loro esistenza.

I processi online potrebbero spingere le persone a un pensiero più lineare e binario attraverso strumenti di voto, piuttosto che cercare una comprensione sfumata del ragionamento e dei valori di altre persone Claudia Chwalisz, OCSE

Fino alla fine del 2020, questo tipo di attività prevedeva che le persone si incontrassero di persona, ma è una situazione che si è bloccata con il coronavirus. Chwalisz e il suo team stanno studiando che cosa succede a spostare online le attività partecipative e deliberative. C’è una preoccupazione che la migrazione dal fisico al digitale possa escludere una parte della popolazione o alcune categorie. Ma c’è anche qualcosa di più che appare come dato preliminare che deve essere ulteriormente studiato. «I professionisti che adattano le assemblee al mondo virtuale», scrive Chwalisz, «avvertono che i processi online potrebbero spingere le persone a un pensiero più lineare e binario attraverso strumenti di voto, piuttosto che cercare una comprensione sfumata del ragionamento e dei valori di altre persone. Per essere aperte alla ricerca del consenso, le persone devono creare fiducia, che è più difficile senza connessione fisica e contatto visivo. I momenti informali davanti a un caffè aiutano le persone a conoscersi e sono importanti per creare una dinamica in cui siano disposti a trovare un terreno comune». Vedremo che cosa mostreranno le ricerche del team di Chwalisz dopo che avrà studiato l’andamento di questi processi durante i lockdown e i periodi di restrizione al movimento. Si dovrà capire che limite alla partecipazione alla vita democratica ha prodotto questo forzato trasferimento online, ma anche che effetti potrà avere sulla qualità delle deliberazioni.

Nel frattempo, questo racconto dei limiti della transizione digitale del nostro Paese, soprattutto sul fronte della pubblica amministrazione, mostra la complessità del tema. Alla mancata erogazione dei servizi che potenzialmente rallentano il progresso della nostra società e alla potenziale esclusione di alcune categorie di cittadini si devono però aggiungere anche le incognite legate alla digitalizzazione di alcune attività pubbliche, come nel caso dei processi deliberativi. In questa situazione ci si aspetterebbe che fosse maggiormente al centro del dibattito pubblico, sia politico, sia culturale. Anche solo per capire che progetto di investimenti c’è in questo settore a fronte dei fondi europei che arriveranno nei prossimi anni, a cominciare da quelli del Recovery Plan, che dovrà essere in buona parte speso proprio per l’innovazione del paese.

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