SOCIETÀ

Perché serve una legge contro l’omo e la transfobia

Due ragazze mangiano un gelato in una piazza di una qualsiasi città italiana. Chiacchierano, magari si tengono per mano, forse si baciano. Fino a quando passa un gruppo di ragazzi che urla loro contro: “fate schifo era meglio ai tempi di Hitler quando vi bruciavano” e passano poi alle vie di fatto, inseguendole e minacciandole con un coltello mentre fuggono per cercare riparo.

Un uomo sta camminando di fronte alla biblioteca pubblica del proprio paese. Vede un ragazzo sui trent’anni di fronte all’edificio, lo guarda. Quando questi se ne accorge, esplode la rabbia: “Frocio di merda, cosa cazzo ti guardi?!”. Seguono minacce di violenza fisica, alle quali l’uomo risponde abbassando lo sguardo e accelerando il passo.

Il percorso da scuola a casa è diventato una tortura. Ogni giorno viene seguita da un gruppo di ragazzi in bicicletta che le grida “ehi, trans!”. La spaventano e la rendono ancora più confusa: “all’epoca non sapevo ancora nulla di me, mi sono sentita violata, spaventata e fuori luogo. Non ho più portato i capelli corti”.

Scene di vita quotidiana di persone LGBT in Italia oggi. Episodi di odio, spesso accompagnati dalla minaccia o dalla violenza vera e propria, che rimangono sotto la soglia della visibilità. Sono solo tre delle testimonianze anonime che compaiono nel report Hate Crimes No More Italy, pubblicato lo scorso 17 maggio, in occasione della Giornata internazionale contro l'omofobia, la bifobia e la transfobia. È il risultato di una ricerca condotta dal Centro Risorse LGBTI, un’associazione che si occupa di discriminazioni e violazioni dei diritti umani nei confronti di lesbiche, gay, transessuali e intersessuali. “Raccogliamo da anni segnalazioni di episodi di questo tipo”, spiega la portavoce Valeria Roberti, “ma finora lo abbiamo fatto attraverso le associazioni sul territorio, mentre questa ricerca si basa su di una indagine condotta online che doveva servire a far emergere casi che altrimenti non saremmo riuscite a intercettare”. Si tratta di testimonianze spontanee, raccolte attraverso un questionario anonimo online, che non sono necessariamente rappresentativi di tutto il fenomeno, ma che lasciano intravvedere la diffusione dei crimini nei confronti delle persone LGBT. Non arrivano alle forze dell’ordine, non finiscono sui giornali, a volte arrivano alle associazioni sul territorio, ma altrimenti sono episodi invisibili.

Sono crimini d’odio sui quali in un prossimo futuro potrebbe intervenire la legge contro l’omo e transfobia che il 30 giugno scorso è stata depositata in Parlamento e verrà discussa  dalla Camera il 27 luglio 2020. Il disegno di legge, che ha come primo firmatario Alessandro Zan del Partito Democratico, prevede infatti pene maggiorate qualora l’autore dei reati venga ritenuto mosso da ragioni legate al genere (in questo caso, si tratta di misoginia), all'orientamento sessuale o all’identità di genere. 

Un sommerso di violenza e odio

In sei mesi di raccolta di dati, il Centro Risorse LGBTI ha registrato le storie di 672 persone. “Non sono un numero enorme, e crediamo che ci sia ancora moltissimo che non emerge, ma comunque offrono una fotografia della realtà”. Una fotografia che combacia con le sensazioni che arrivano dalle varie associazioni LGBT sparse per lo stivale e che tastano in tempo reale il polso della situazione a livello locale. E che risuona con le segnalazioni di episodi di violenza verbale e fisica che finiscono sulla stampa e che Arcigay raccoglie dai quotidiani di tutt’Italia. Negli ultimi cinque anni, gli episodi non sono mai stati meno di 100. Prendiamo il 2016 come primo anno di riferimento perché, come ci viene detto più volte dagli intervistati e come sottolineano molti documenti che arrivano dal mondo dell’attivismo, si è trattato di un anno importante, che ha visto entrare in vigore la legge Cirinnà sulle unioni civili. Si è trattato della prima legge nazionale che si occupasse dei diritti della minoranza LGBT, almeno del diritto a vedere riconosciute ufficialmente le relazioni tra persone dello stesso sesso. Ad alcuni è sembrato il primo passo di un percorso di accettazione e riconoscimento, ma i numeri delle violenze e la storia successiva mostrano che gli avanzamenti sono stati limitati.

I dati raccolti dalla ricerca del Centro Risorse LGBTI permettono di farsi un’idea più precisa di che cosa si cerchi di contrastare con la proposta di legge Zan, e quindi di dare un po’ di consistenza al concetto di contrasto attivo della discriminazione e della violenza nei confronti delle persone LGBT. È un odio che non si limita solamente alle parole e alle minacce, ma che in 82 casi si accompagna alla violenza fisica, in 5 allo stupro, in 14 alle aggressioni sessuali, fino all'attacco con un’arma.

Il dato più inquietante è forse quello che riguarda la percentuale di episodi denunciati: è successo solamente nel 6,7% dei casi raccolti e documentati dalla ricerca, come mostra il grafico qui sotto. Significa solamente 45 episodi denunciati su 672. 

Si può leggere come un segnale di sfiducia nei confronti delle forze dell’ordine che probabilmente avrebbe amareggiato Antonio Manganelli, scomparso nel 2013. Da capo della Polizia, nel 2010 ha istituito l’Osservatorio per Sicurezza Contro gli Atti Discriminatori (OSCAD) e era solito ricordare come “alle vittime di discriminazioni viene impedito di vivere”. 

Anche il database di OSCAD, purtroppo, non è molto significativo per capire la diffusione degli atti di discriminazione violenta. Da una parte, finché non ci sono un reato o un’aggravante specifici, non ci sono nemmeno le statistiche. Dall’altra parte, le stesse vittime non segnalano all’Osservatorio il proprio caso. Tra i casi raccolti dalla ricerca del Centro Risorse LGBTI, infatti, solamente l’1,6% del totale è finito nel database di OSCAD. Non si va dalla polizia o dai carabinieri perché c’è la sensazione che non si verrà creduti, “che i fatti vengano presi sottogamba” o che “anche loro [le forze dell’ordine, NdR] mi mettono ansia e paura”, come si legge nelle testimonianze.

Le radici dell’odio

La sfiducia nei confronti delle forze dell’ordine è forse ascrivibile a un clima omo e transfobico che contraddistingue l’Italia, un Paese dove il 32% degli intervistati dall’Eurobarometro (l’ultima edizione è del 2019) si dice in “totale disaccordo” con la frase «Gay, lesbiche, bisessuali dovrebbero avere gli stessi diritti degli eterosessuali», contro una media del 24% dell’Unione Europea.

Lo scorso ottobre il Williams Institute dell’Università della California a Los Angeles ha pubblicato uno studio intitolato Social Acceptance of LGBT people in 174 Countries (L’accettazione sociale delle persone LGBT in 174 Paesi) che mette in evidenza una tendenza negativa per il nostro Paese. L’analisi, infatti, copre il periodo tra il 1981 e il 2017 e mette in classifica i Paesi secondo un indice che rappresenta il livello di accettazione delle persone LGBT all’interno della società. Si tratta di dati ricavati da moltissime indagini, come per esempio proprio l’Eurobarometro, che permette, seppure con un certo grado di semplificazione, di paragonare situazioni diverse e capire gli andamenti nel tempo. 

L’indicatore principale della ricerca si chiama GAI, Global Acceptance Index. I ricercatori del Williams Institute lo elaborano analizzando le indagini d’opinione, come l’Eurobarometro, che vengono effettuate nei diversi continenti. Il risultato è un indicatore di sintesi, una sorta di super-media, che permette di confrontare i 174 Paesi presi in esame. Si tratta di una fotografia dell’accettazione sociale delle persone LGBT, che non corrisponde necessariamente alle tutele normative e al riconoscimento ufficiale dei diritti. Nelle ultime quattro edizioni dello studio l’Italia ha progressivamente perso posizioni: dalla 23 (2000-2003) alla 25 (2004-2008), per poi arrivare alla 27 (2009-2013) e alla 30 in questa ultima rilevazione. Non si è trattato di un peggioramento del punteggio individuale dell’Italia, che in realtà è cresciuto, passando dal 5,8 di vent’anni fa all’attuale 6,4. Per fare un paragone, il Paese oggi con il punteggio più alto è l’Islanda con 8,9 e l’ultimo il Tajikistan con 1,6. Quello che è cambiato è che nei Paesi in cui l’accettazione è cresciuta è aumentata molto di più di quanto non abbia fatto in Italia, che oggi ha solo un Paese dell’Europa occidentale dietro di sé, il Portogallo.

Andando ancora più in profondità nei dati dell’Eurobarometro si trova anche qualcosa in più. Alle domande se «ti senti a tuo agio con effusioni in pubblico tra due uomini o tra due donne», meno di un italiano su due ha risposto che si sente completamente a proprio agio. Come a dire che quella accettazione sul piano dei diritti, per cui poco meno di un italiano su due si diceva a favore della parità, si trasforma per alcuni in un pezzo delle vite di gay e lesbiche che non deve essere vissuto in pubblico, tutt’al più in privato, lontano dalla vista. Sul perché, Valeria Roberti batte sul tema degli stereotipi di genere. «Ancora oggi, la società italiana  è estremamente legata a degli stereotipi di genere che rientrano nella logica dell’eteronormatività,» spiega Roberti, «per i quali le norme di genere devono essere quelle che conosciamo, anche a livello storico, con l’uomo che ha un certo ruolo, la donna che ne ha un altro». Ruoli fissati e apparentemente immutabili dai quali discendono diversi livelli di potere per l’uomo e per la donna. «Questo tipo di stereotipi si riflettono anche sulle varie identità LGBT,» conclude Roberti, «con la persona gay o lesbica che non è abbastanza uomo o abbastanza donna, una persona trans che è indecifrabile e non si capisce perché ha deciso di rompere questi schemi».

Il ruolo di politici e rappresentanti

«L'omosessualità e la transessualità stridono con le immagini stereotipiche del maschile e del femminile, creano un ‘disordine’ nella logica binaria cui siamo abituati fin dalla prima infanzia». Sono parole di Vittorio Lingiardi, ordinario di psicologia dinamica all’Università di Roma La Sapienza, tratte dall’intervista che gli ha fatto Simone Alliva nel suo recente libro Caccia all’omo. Viaggio nel paese dell’omofobia, il resoconto di un anno da cronista passato a raccogliere storie di vittime dell’odio contro le persone LGBT. Cercando una risposta al perché di questo odio, Alliva si trova a parlare con Lingiardi, che conferma e dà profondità organica alle intuizioni di Roberti. «Omofobia e transfobia» si legge, «diventano dei meccanismi cognitivi che bollano difensivamente ciò che esce dai binari come osceno, patologico, amorale, contro natura, disumano». 

Ma se questo tipo di meccanismo profondo è probabilmente sempre esistito, i numeri delle aggressioni in questi ultimi anni mostrano una dimensione preoccupante del fenomeno. Come se fosse cambiato qualcosa nel clima del Paese. «Il 2016 è stato un anno fondamentale,» ci dice al telefono Alliva, «è stato l’anno dell’approvazione della legge sulle unioni civili che ha aiutato a dare visibilità alle persone LGBT». Coppie che si univano, che pianificavano la propria unione sono apparse in televisione, sui giornali, sono diventate parte del racconto di costume del Paese. A una maggiore esposizione, cioè, è corrisposta una maggiore visibilità anche dei fenomeni di odio. «A questo si deve però aggiungere anche il contributo che ha dato il dibattito politico,» aggiunge Alliva, che da cronista ha seguito il dibattito parlamentare: «politici che paragonavano il matrimonio tra persone dello stesso sesso all’ISIS, l’amore omosessuale a quello per un cane, altri che dicevano che le persone LGBT sono malate e via così, legittimando l’emersione e la liberazione di sentimenti omo e transfobici che già c’erano». Ma che probabilmente fino a quel momento non avevano trovato sponda nei discorsi dei politici in tv, sui giornali, sui social.

La sinistra, quella stessa parte politica che ha sostenuto la legge Cirinnà nel 2016, non è poi riuscita a continuare ad allargare la sfera dei diritti delle persone LGBT. «Quella sulle unioni civili è una legge che si occupa solamente di alcuni diritti,» spiega Alliva, facendo anche riferimento alle critiche che la legge ha ricevuto da una parte del mondo degli attivisti. «Ma bisogna tenere conto che il dibattito sulla gestazione per altri, la stepchild adoption e il matrimonio egualitario sono temi che interessano solo una parte della comunità LGBT. Ci sono le persone trans, ci sono adolescenti sbattuti fuori di casa dalle famiglie, ci sono gli anziani: persone che hanno altre priorità rispetto al matrimonio o alle unioni civili». Priorità che significano diritto alla salute, alla sicurezza, a non subire violenza, a non dover vivere per strada.

Partire dalla conoscenza e dalla scuola

Sollecitato su come si possa ridurre questa onda d’odio che si rifrange su tutte le regioni italiane dal nord al sud, Alliva racconta come nelle tante storie che ha attraversato in questo suo viaggio emerga spesso uno stesso elemento. «Molte volte, quando una famiglia respinge un figlio o una figlia perché gay, lesbica o trans, il sentimento omo e transfobico scompare con la conoscenza, che porta all’accettazione dell’altro o dell’altra». Dialogo, conoscenza reciproca, comprensione che portano al superamento di quegli stereotipi che, in prima battuta, hanno fatto nascere la distanza, il disagio e il rifiuto. «La legge contro l’omo e la transfobia serve,» conclude Alliva, «e serve che le condanne prevedano il servizio civile, magari dentro a un’associazione LGBT» per favorire conoscenza e comprensione.

Su questo tema è d’accordo anche Roberti del Centro Risorse LGBTI. Nel rapporto Hate Crimes No More Italy c’è  un capitolo dedicato proprio alla principale istituzione per la conoscenza: la scuola. Dove, purtroppo, la situazione in termini di emersione dell’odio non è migliore che altrove. Anzi, tra le sue mura si sono consumate la maggior parte delle storie raccolte.

Sulla scuola «non si sta facendo per niente abbastanza», dice con una punta di amarezza nella voce. «Ci sono sicuramente degli esempi molto validi, molto positivi in diverse zone d’Italia, ma il vero problema è che la stragrande maggioranza degli interventi non sono interventi strutturali, sono azioni portate avanti da associazioni, da cooperative e da gruppi anche informali che realizzano progetti di sensibilizzazione, di formazione e di educazione alle differenze». Ma serve una marcia, forse anche due, in più: un intervento strutturale a tappeto. «Il vero punto è che ci dovrebbe essere un approccio dal MIUR, una direttiva chiara che dice che l’educazione alle differenze va fatta obbligatoriamente perché di queste cose si deve parlare, perché ragazzi e ragazze devono crescere con una consapevolezza molto più ampia di quella che accumulano grazie, magari, a qualche serie TV». 

Le molte realtà locali virtuose a cui fa riferimento Roberti devono però fare i conti con l’agenda politica, magari anche solo locale, che spesso ostacola queste iniziative. Lo documenta Alliva nel suo libro, raccontando per esempio la storia dell’iniziativa “A Scuola per Conoscersi” che Arcigay Trieste ha portato nelle scuole superiori: premiati nel 2011 con la medaglia di bronzo dall’allora presidente Giorgio Napolitano, si sono ritrovati sotto attacco e senza fondi con il passaggio della Regione al centro-destra.

Non sarà forse la legge Zan a fermare l’odio e a cambiare nel profondo la società italiana, ma contribuirà a migliorare anche la scuola. «Se un ragazzino o una ragazzina subisce dai compagni o dai docenti discriminazioni per la propria identità di genere o per il proprio orientamento sessuale potrà finalmente avere una tutela», si infervora Roberti, che auspica che la legge nazionale sia approvata velocemente e senza venire depotenziata. La scuola, liberata almeno un po’ degli schizzi dell’onda d’odio, potrebbe tornare a essere quel luogo dove imparare. Anche a conoscere se stessi e gli altri, qualunque siano le loro preferenze sessuali e la loro identità di genere.

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