Lo Space Shuttle: un "aeroplano" nello spazio

Lo Space Shuttle al decollo. Foto: NASA
C’era un tempo in cui l’America pensava di poter rendere lo spazio una cosa “di tutti i giorni”. Un tempo in cui il decollo di un veicolo orbitale non doveva più essere un evento irripetibile, ma un gesto di routine: come prendere un aereo, ma verso l’orbita. Era l’ambizione che, a metà degli anni Settanta del secolo scorso, prese forma nel programma Space Transportation System, più noto come Space Shuttle: la prima navetta spaziale parzialmente riutilizzabile della storia.
Per trent’anni – dal 1981 al 2011 – ha accompagnato la NASA in un’epoca di luci e ombre, trasformando per sempre la relazione tra l’umanità e lo spazio.
Dall’epopea Apollo al bisogno di continuità
Dopo le missioni Apollo e il primo passo dell’uomo sulla Luna, gli Stati Uniti si trovarono di fronte a un dilemma. Il sogno lunare era compiuto, ma insostenibile: ogni lancio Saturn V costava centinaia di milioni di dollari e la corsa allo spazio perdeva slancio politico (ed economico).
L’idea di fondo dello Shuttle nacque in quel vuoto strategico. Serviva un sistema meno costoso, capace di volare più volte e di mantenere la presenza americana in orbita con continuità. La NASA, nel 1972, ottenne l’approvazione per sviluppare un veicolo “riutilizzabile”, con un design che richiamava più l’aviazione che i razzi tradizionali.
Fu un progetto ingegneristico colossale, coordinato dal Johnson Space Center e dal Marshall Space Flight Center. Lo Shuttle doveva combinare tre elementi: l’Orbiter – il veicolo alato che portava l’equipaggio –, un serbatoio esterno e due booster a propellente solido. Solo l’Orbiter e i booster sarebbero stati recuperati e riutilizzati; il serbatoio principale si sarebbe invece disintegrato al rientro.
Un aereo nello spazio
Il 12 aprile 1981, vent’anni esatti dopo il volo di Gagarin, lo Shuttle Columbia si sollevò dal Kennedy Space Center. La missione STS-1, con a bordo John Young e Robert Crippen, inaugurava una nuova era.
L’Orbiter raggiungeva l’orbita in otto minuti e mezzo, spinto dai tre motori principali RS-25 e dai due booster. Poteva trasportare fino a 29 tonnellate di carico utile nella grande baia centrale, grande abbastanza da ospitare satelliti, laboratori o persino moduli spaziali. Al rientro, planava come un aereo, senza motori, fino alla pista di atterraggio.
Era una macchina complessa: 37 metri di lunghezza, 80 tonnellate di peso a vuoto, un mosaico di oltre 24.000 piastrelle termiche, ognuna numerata e sostituibile. A bordo, un equipaggio di 5-7 astronauti poteva vivere e lavorare per settimane.
La promessa era rivoluzionaria: uno spaceplane riutilizzabile, capace di ridurre i costi e moltiplicare le missioni. Ma presto la realtà avrebbe imposto i suoi limiti.
La routine impossibile
Nelle intenzioni originarie, lo Shuttle avrebbe dovuto volare fino a 50 volte all’anno. In pratica, non superò mai le nove volte. Ogni missione richiedeva mesi di preparazione e migliaia di ore di manutenzione. Il riuso, che avrebbe dovuto essere la chiave dell’economia spaziale, divenne il suo principale ostacolo operativo.
Eppure, negli anni Ottanta del secolo scorso, il programma accumulò successi notevoli: il lancio di satelliti commerciali, le missioni militari per l’USAF (che chiesero e ottennero modifiche al progetto originario), gli esperimenti scientifici nei laboratori Spacelab costruiti con l’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Era un laboratorio orbitante ante litteram e una piattaforma che ridefiniva il modo stesso di pensare all’accesso allo spazio.
Il giorno che cambiò tutto
Il 28 gennaio 1986, alle 11:39 del mattino, la navetta Challenger esplose settantatré secondi dopo il decollo. Le immagini in diretta fecero il giro del mondo.
L’indagine della Rogers Commission rivelò che il disastro era stato causato dal cedimento di un anello di tenuta (O-ring) nei booster a propellente solido, indurito dalle basse temperature della Florida. Il rapporto non si limitò a descrivere l’errore tecnico: mise in luce problemi organizzativi e di comunicazione all’interno della NASA, eccesso di fiducia, pressioni politiche e una cultura della sicurezza indebolita.
Il programma venne sospeso per oltre due anni. Quando riprese, nel 1988, con la missione STS-26, lo Shuttle volò con nuovi protocolli, ma l’illusione della “navetta di routine” era ormai svanita.

Lo Shuttle in fase di atterraggio con il paracadute dispiegato. Foto: NASA
Le grandi missioni scientifiche
Nonostante tutto, gli anni Novanta segnarono il periodo più fecondo. Nel 1990 lo Shuttle Discovery portò in orbita il Telescopio Spaziale Hubble, forse la missione più iconica di tutto il programma. Quel cilindro argentato, lanciato come un esperimento di frontiera, avrebbe spalancato all’umanità una finestra sull’universo profondo. Le immagini di galassie, nebulose e ammassi stellari raccolte nei decenni successivi cambiarono per sempre la percezione del cosmo, e le cinque missioni di manutenzione che seguirono – tutte eseguite da equipaggi Shuttle – divennero un modello di ingegneria in orbita. Era la dimostrazione che lo spazio poteva essere non solo esplorato, ma anche manutenuto, riparato e potenziato da mani umane.
Ma fu a metà degli anni Novanta che la navetta americana divenne anche un simbolo politico e culturale. Nel pieno del dopo Guerra fredda, il programma Shuttle-Mir rappresentò la prova più concreta che la cooperazione poteva sostituire la competizione. Stati Uniti e Russia decisero di unire le loro esperienze per preparare la futura Stazione Spaziale Internazionale: era la cosiddetta “Phase 1”, il laboratorio di addestramento alla convivenza nello spazio. Tra il 1994 e il 1998 gli Shuttle attraccarono per dieci volte al complesso orbitale russo Mir, portando rifornimenti, esperimenti e astronauti destinati a restare a lungo a bordo.
Il primo incontro avvenne nel febbraio del 1995, con la missione STS-63, quando il Discovery si avvicinò alla stazione fino a poche centinaia di metri senza attraccare, dimostrando la precisione dei sistemi di guida e la sicurezza del profilo di volo. Pochi mesi dopo, il 27 giugno 1995, Atlantis realizzò il primo vero aggancio, inaugurando una stagione di visite regolari e di scambi umani e tecnologici che non aveva precedenti. Gli equipaggi americani trascorsero complessivamente quasi mille giorni sulla Mir, vivendo in un ambiente pensato per i cosmonauti e adattando procedure, linguaggio e abitudini quotidiane. Fu un esperimento di diplomazia orbitale, ma anche un banco di prova tecnico per imparare a operare in un sistema internazionale complesso, con strutture modulari, turni di permanenza prolungati e gestione condivisa delle emergenze.
L’esperienza di Shuttle-Mir insegnò alla NASA come condurre manutenzioni congiunte, come pianificare EVA con attrezzature diverse, e come affrontare imprevisti in collaborazione. Le lunghe permanenze di astronauti come Shannon Lucid, che nel 1996 trascorse 188 giorni consecutivi sulla Mir stabilendo un record per gli Stati Uniti, furono decisive per comprendere gli effetti psicofisici della vita in orbita prolungata. Ogni attracco rappresentava una lezione in tempo reale: sul funzionamento dei sistemi, ma anche sul dialogo umano tra due culture spaziali diverse.
Quando nel giugno del 1998 lo Shuttle Discovery, con la missione STS-91, compì l’ultimo volo del programma Shuttle-Mir, il testimone era ormai pronto a passare alla nuova Stazione Spaziale Internazionale. I protocolli di sicurezza, le sequenze di docking, la gestione della logistica e persino l’interoperabilità dei computer e delle comunicazioni provenivano da quel laboratorio orbitale condiviso. In quelle manovre, ripetute e affinate nel tempo, prese forma la capacità della NASA e di Roscosmos di costruire insieme un habitat permanente nello spazio.
Il programma Shuttle-Mir rimane così uno dei capitoli più significativi nella storia della cooperazione scientifica del XX secolo. Dimostrò che la tecnologia poteva diventare linguaggio comune e che l’orbita terrestre, da campo di battaglia, poteva trasformarsi in una zona di incontro. Senza quella fase intermedia, la ISS – e con essa la cultura di collaborazione che oggi la sostiene – non avrebbe mai potuto nascere. Lo Shuttle, in quegli anni, non fu solo un veicolo, ma un ambasciatore con le ali.
Il Columbia e la fine di un’epoca
Il 1° febbraio 2003, il Columbia, al rientro dalla missione STS-107, si disintegrò nei cieli del Texas.
L’indagine della Columbia Accident Investigation Board (CAIB) accertò che un frammento di schiuma isolante staccatosi dal serbatoio esterno durante il decollo aveva danneggiato l’ala sinistra dell’Orbiter, aprendo un varco che sarebbe risultato poi fatale durante le operazioni di rientro atmosferico.
Ancora una volta, dietro al guasto tecnico emerse un nodo culturale: una catena di decisioni organizzative che aveva ignorato i segnali di rischio. La NASA scelse di ripensare profondamente la propria governance e la gestione dei voli con equipaggio.
Il ritorno in volo avvenne solo nel 2005. Ma la sorte del programma era segnata: nel 2011, dopo 135 missioni complessive, lo Shuttle volò per l’ultima volta con Atlantis, chiudendo tre decenni di storia.
Numeri e eredità
In trent’anni di servizio, lo Space Shuttle ha compiuto 20.952 orbite, trascorso oltre 1.320 giorni nello spazio e percorso più di 800 milioni di chilometri.
Ha lanciato e recuperato satelliti, ospitato esperimenti in microgravità, formato generazioni di astronauti e aperto la strada alla cooperazione internazionale.
Ma ha anche mostrato la fragilità dell’idea di “spazio accessibile”: ogni volo costava, secondo le stime del Government Accountability Office, tra i 450 e i 1.500 milioni di dollari, a seconda del metodo di calcolo. Una cifra lontana dalla promessa di un sistema economico e in grado di essere utilizzato con grande frequenza.
Oggi i suoi cinque Orbiter – Columbia, Challenger, Discovery, Atlantis ed Endeavour – sono simboli museali. Discoveryè conservato allo Smithsonian’s Udvar-Hazy Center, Atlantis al Kennedy Space Center, Endeavour al California Science Center, mentre Enterprise, il prototipo, accoglie i visitatori dell’Intrepid Museum di New York. Il Columbia e il Challenger, restano invece nei memoriali di Cape Canaveral, a testimoniare il prezzo della conquista.
Un’eredità che continua
La tecnologia dello Shuttle non è scomparsa. I suoi motori principali RS-25 sono stati utilizzati nella progettazione del nuovo razzo Space Launch System (SLS) del programma Artemis, destinato a riportare astronauti sulla Luna.
Anche l’idea di “riutilizzo” è tornata d’attualità, questa volta affidata ai vettori privati di SpaceX e Blue Origin, nati proprio raccogliendo la lezione – e gli errori – del programma Shuttle.
Più che un semplice veicolo, lo Shuttle fu un esperimento sociale, tecnico e culturale. Un simbolo di fiducia nell’ingegneria e nella cooperazione umana, ma anche un monito sui limiti della complessità.
Oggi, mentre la NASA prepara nuovi viaggi lunari e i privati trasformano l’orbita bassa in un’arena commerciale, lo Shuttle resta un riferimento di frontiera.
Ha rappresentato la transizione tra due epoche: quella eroica dei razzi monouso e quella moderna dei sistemi integrati e riutilizzabili.