SCIENZA E RICERCA

La pesca illegale individuata dall'IA e dalle immagini satellitari

Tre pescherecci su quattro non sono tracciati: si muovono nelle acque degli oceani di tutto il mondo senza che la loro posizione e la loro rotta sia nota. È la conclusione di una ricerca che, grazie all’impiego di mappature satellitari e intelligenza artificiale, ha rivelato una probabile enorme attività di pesca illegale in acque internazionali praticamente invisibile alle autorità. Lo studio è stato pubblicato sulle pagine di Nature ed è stato guidato da Fernando Paolo e David Kroodsma di Global Fishing Watch, un progetto fondato nel 2014 da Google e due organizzazioni no-profit, Oceana e SkyTruth: la prima si occupa della tutela degli oceani, mentre la secondo impiega tecniche satellitari per la monitorare minacce all’ambiente marino.

Il tracking delle imbarcazioni in mare viene effettuato attraverso un sistema chiamato Automatic Identification System (AIS): un transponder trasmette a intervalli regolari la posizione, la velocità e la rotta della nave allo scopo di evitare collisioni con altri natanti. A ogni nave corrisponde un codice identificativo cosicché intercettando il segnale del transponder è teoricamente possibile seguirne in tempo reale gli spostamenti.

Il funzionamento è analogo a quanto avviene per il traffico aereo, che può essere seguito, per esempio, sul portale Flightradar24. Nel caso delle navi, però, l’obbligo di utilizzo del transponder è molto meno cogente. Secondo le regole attuali, l'Unione Europea obbliga alle trasmissioni AIS tutte le navi da pesca di lunghezza superiore a 15 metri, mentre per le autorità americane il limite è di 19 metri. In altri contesti, come per esempio la Cina, il Giappone e la Corea del Sud, non esistono normative specifiche sull’AIS. In altre zone del mondo, come il quadrante pacifico meridionale, inoltre, la ricezione dei segnali AIS è scarsa. Tutti questi fattori rendono possibile pescare senza essere visti.

Che cosa si è scoperto

Il gruppo di ricerca di Global Fishing Watch, sostenuto dall’Università del Wisconsin a Madison, dalla Duke University e dall’Università della California a Santa Barbara, hanno potuto analizzare oltre 2 milioni di gigabyte di immagini ottenute dai satelliti che coprivano il periodo 2017 - 2021. L’idea era di individuare le navi e le infrastrutture offshore, come per esempio le piattaforme petrolifere, che si trovano nelle acque costiere di tutto il mondo sfruttando le informazioni GPS, le immagini radar e le immagini ottiche. Dall'analisi coadiuvata da tecniche di machine learning, il team è riuscito a individuare quali navi non trasmettevano le proprie informazioni via AIS. Dalle mappe così ricavate è stato inoltre possibile identificare le aree dove questa presunta attività illegale si concentra: il sudest asiatico e l’Africa. L’ipotesi più probabile, si legge nel paper, è che si tratti di imbarcazioni dedite alla pesca illegale. 

A suggerirlo è, tra le altre cose, l’enorme concentrazione di navi senza AIS nelle acque della Corea del Nord, in una zona che è notoriamente oggetto di pesca illegale. Un altro punto caldo è la grande barriera corallina al largo delle coste australiane che tra il 2017 e il 2021 è stata visitata da una media di tre vascelli al giorno. È possibile che l’area marina protetta abbia subito danni da questa attività illegale. Ma la situazione a livello globale riguarda anche paesi con norme più stringenti. Per esempio, già nel 2022 Oceana denunciava il fatto che solo il 12% degli oltre 19 mila pescherecci commerciali registrati negli Stati Uniti avevano l’obbligo di montare a bordo un transponder.

Per Ferdinando Paolo, come riporta il comunicato stampa di Global Fishing Watch, quanto emerge dalla ricerca è un risultato importante, perché “storicamente, l’attività delle navi è stata scarsamente documentata, ponendo un limite alla nostra comprensione dell’utilizzo della più grande risorsa pubblica del mondo, l’oceano”.

Le strutture offshore

L’analisi non si è limitata ai pescherecci, ma ha anche monitorato la presenza di strutture offshore. Si tratta di un settore in cui non è disponibile alcun database pubblico che permetta di conoscere lo stato delle cose. Paolo e i suoi colleghi hanno così potuto documentare un aumento incredibile di pale eoliche nelle acque cinesi: nel periodo 2017 - 2021 sono cresciute del 900%. Per dare un’idea della velocità di crescita, significa che ogni anno la Cina ha installato mediamente 950 nuove pale eoliche.

Nel Regno Unito, invece, la crescita è stata più modesta, ma comunque significativa: +49%. A rimanere indietro è invece l’Europa, con un +28%. Secondo i ricercatori, questa crescita ha portato nel 2021 al sorpasso del numero complessivo di pale eoliche rispetto alle strutture petrolifere.

Nello stesso periodo, però, le piattaforme petrolifere sono comunque cresciute del 16%. La maggior parte di queste strutture sono collocate al largo delle coste dei 13 principali produttori di petrolio del mondo. La massima concentrazione si registra nel Golfo del Messico, dove si concentrano anche le attività del maggior proprietario di piattaforme, ovvero gli Stati Uniti. Le piattaforme americane, infatti, sono oltre 2.200 e rappresentano circa un quarto del totale globale. Al secondo posto si trova l’Arabia Saudita, con oltre 770 piattaforme, seguita dall’Indonesia con più di 670.

I dati utilizzati dalla ricerca sono disponibili in open data e lo studio è in open access. Questo, secondo il gruppo di ricerca, potrebbe favorirne l’utilizzo anche da parte di governi o istituzioni internazionali che volessero identificare potenziali punti caldi per attività illegali in mare. O per lo meno contribuire a una migliore conoscenza di che cosa stia realmente accadendo, in termini di traffico e infrastrutture, nelle acque di tutto il mondo.

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