SCIENZA E RICERCA
I PFAS sono presenti nell'acqua potabile che arriva a più di 20 milioni di statunitensi

Perfluorinated alkylated substances, abbreviato PFAS. Una sostanza microscopica o per meglio dire una sostanza perfluoroalchilica che accompagna oramai la nostra vita. “Quella che deriva dall’inquinamento di PFAS è una violenza invisibile”, scrivevano Elisabetta Tola e Marco Boscolo in un’inchiesta internazionale a puntate pubblicata su questo giornale proprio su questi composti chimici. E l’inquinamento da PFAS, purtroppo, oramai si ritrova dall’Italia alla Danimarca, dagli Stati Uniti fino alle Isole Faroe. È proprio di inizio gennaio 2025 uno studio, pubblicato su PNAS, che ha analizzato la presenza di sostanze organofluorate nei sistemi di trattamento delle acque reflue municipali negli Stati Uniti. I ricercatori hanno cercato di capire la quantità di PFAS e il loro impatto sulla qualità dell'acqua potabile.
I PFAS nell'acqua potabile
I risultati non sono stati per nulla positivi. I campioni d’acqua, provenienti da otto grandi impianti di trattamento delle acque reflue negli Stati Uniti, cioè quelli che portano l’acqua a circa il 70% degli americani dicono che le tecnologie attualmente in uso non sono in grado di eliminare efficacemente i PFAS. Anche i metodi più avanzati, come la filtrazione con carbone attivo o l’ozonizzazione, hanno mostrato un’efficacia inferiore al 25% nel rimuovere i fluorurati organici.
Da qui i ricercatori di Harvard e della New York University sono riusciti a stimare che la contaminazione delle acque reflue compromette l’acqua destinata a oltre 20 milioni di persone. Inoltre durante periodi di siccità o di bassa portata dei fiumi, questa cifra potrebbe salire fino a 23 milioni.
Uno dei problemi evidenziati dallo studio poi, riguarda la regolamentazione di queste sostanze. La maggior parte delle sostanze chimiche rinvenute nelle acque reflue statunitensi non è regolamentata e le conseguenze per la salute dell'esposizione a molte di esse sono ancora sconosciute.
L'intervento di Trump
Era il 10 aprile 2024 quando, per la prima volta, il governo statunitense chiese ai sistemi idrici comunali di rimuovere sei sostanze chimiche sintetiche. A farlo fu l'Environmental Protection Agency, che voleva imporre ai fornitori di acqua di ridurre le sostanze perfluoroalchiliche e polifluoroalchiliche, cioè i PFAS, a livelli prossimi allo zero., ha definito la nuova regolamentazione "un cambiamento di vita".
"Questa azione impedirà migliaia di morti e ridurrà decine di migliaia di gravi malattie - aveva dichiarato Michael S. Regan, l'amministratore dell'EPA -. Siamo un passo avanti enormemente più vicini a chiudere finalmente il rubinetto delle sostanze chimiche una volta per tutte". Nel frattempo però, il 20 gennaio 2025, a capo degli Stati Uniti è salito Donald Trump e nella sua smania da firma di decreti, in uno di questi ha inserito proprio all’interno dell’EPA funzionari che hanno lavorato come avvocati e lobbisti per le industrie petrolifere e chimiche, molti dei quali, dichiara il New York Times, hanno lavorato nella sua prima amministrazione per indebolire le protezioni per il clima e l'inquinamento.
I costi della bonifica
Ma quanto costerebbe “pulire” le acque statunitensi dai PFAS? Una domanda che ci eravamo fatti anche noi. La risposta è stata chiara: “più di 21 milioni di euro spesi in 10 anni, dal 2013 al 2023, per la gestione complessiva della centrale dell’acqua di Madonna di Lonigo, di Acque Venete, di cui ben 13 milioni, quindi più del 60%, dovuto alla rimozione dei PFAS.” Le associazioni di servizi idrici USA invece, hanno affermato che il costo per eliminare i PFAS dall'acqua del rubinetto potrebbe raggiungere i 3,2 miliardi di dollari all'anno e che parte di questa spesa si tradurrebbe in bollette dell'acqua più elevate per i cittadini.
I PFAS negli uccelli migratori dell'Australia
Ma sappiamo che i PFAS ormai sono veramente dappertutto. Ne da conferma uno studio che ha analizzato campioni di molluschi da 11 siti lungo la costa cinese e campioni di sangue e fegato da uccelli migratori in Australia. L'obiettivo era proprio quello di capire la concentrazione di PFAS ed i risultati sono stati allarmanti. I ricercatori hanno utilizzato una tecnica innovativa chiamata Total Oxidizable Precursor (TOP) assay, che permette misurare meglio la presenza del PFAS, scoprendo che nei molluschi, i livelli di queste sostanze sono aumentati del 182% dopo il trattamento con il test TOP. Ciò significa che probabilmente la contaminazione è molto più alta di quanto si pensasse.
Nel sangue degli uccelli migratori, l’aumento è stato del 583% nei globuli rossi e il 122% nel siero mentre nel fegato degli uccelli, l'incremento ha raggiunto il 18.156%. Sembra un refuso ma non lo è, il dato è esattamente diciottomilacentocinquantasei per cento in più, che dimostra come questi animali immagazzinino grandi quantità di PFAS durante la loro migrazione. Significa quindi che, spostandosi anche per tratte molto lunghe, questi uccelli entrano in contatto con i PFAS in zone che tra di loro sono distanti migliaia di chilometri.
Anche in questo caso lo studio si pone la domanda: cosa possiamo fare? La regolamentazione è il primo passo, a cui dovrebbe seguire un monitoraggio ambientale, una bonifica ed un minor utilizzo dei PFAS.