La vita è movimento (oltre che movimentata), il movimento spesso diventa migrazione, ovvero cambio duraturo o stabile di luogo di vita, sopravvivenza e riproduzione altrove. Il nostro pianeta è stato anche un fattore abiotico, privo di vita, tra circa 4,5 e 4 miliardi di anni fa, giorno più giorno meno. Da quando vi è emersa vita, l’evoluzione dei fattori biotici è dipesa dal nesso tra preesistenti, geodifferenziate, mutevoli e perturbanti condizioni climatiche (energia solare, temperatura, ciclo dell’acqua, correnti atmosferiche e marine e così via) e migrazioni della vita, dapprima unicellulare, poi multicellulare, poi diversificata. Non c’è migrazione senza azione di superamento di un qualche barriera o confine esterni all’essere in movimento, si va altrove rispetto alla propria nicchia ecologica ed esistenziale, o addirittura si cambia ecosistema biologico d’appartenenza.
Noi abbiamo classificato la biodiversità per biomi, suoli, mari e arie; per regni vitali (soprattutto vegetale e animale) e, poi, per taxa, fili classi ordini famiglie generi specie. Sul pianeta tale biodiversità muta di continuo e convivono ecosistemi vitali diversi, in un intreccio biologico inestricabile e interdipendente, associabili a luoghi e tempi in continua evoluzione. Ogni specie sopravvive e si riproduce in relazione al proprio percorso biologico, al clima, alle relazioni con le altre specie e alle “barriere” delle nicchie, entro cui agisce e si muove, che capita vengano discutibilmente definite confini naturali. Molte riescono ad andare oltre, hanno evoluto una certa capacità di migrare e talaltre comunque migrano casualmente, pur non avendone la capacità. La migrazione di individui delle diverse specie (anche non migratorie) può essere parzialmente passiva o intergenerazionale, ma non è mai completamente solitaria, entra in un rapporto di reciproci adattamenti con gli ecosistemi, con la propria e le altre specie.
Si migrava anche prima che fra le specie vi fossero quelle umane o ominidi, sembra circa forse da tre miliardi di anni fa fino a sei milioni di anni fa. Senza tralasciare ere geologiche ed ere glaciali, Pangea e continenti attuali (circa 200 milioni di anni), grandi estinzioni e dinosauri, il fenomeno migratorio esiste da centinaia di milioni di anni per le piante (prima) e per gli animali (poi), uno e tanti. Ebbene i fenomeni migratori di classi, ordini, famiglie, generi, specie, soprattutto animali, sono esistiti ma non sono stati abbastanza studiati e comparati. Restano aperte varie questioni interdisciplinari ma non l’esistenza di nicchie “confinate” individualmente e di fenomeni migratori sociali delle specie prima di quelle umane: come sono evolute per ciascuna l’esperienza e la capacità di migrare, o anche solo di fuggire, va ancora esaminato ed è essenziale lo studio specifico delle varie agentività vitali, come già accennato.
Appare ormai abbastanza ben dimostrato che le forme basilari dell’attività psichica e cognitiva non hanno bisogno di grandi cervelli. Se guardiamo ai processi psicologici elementari, in realtà sono svolti con facilità straordinaria dalle primordiali creature agentive, anche quando hanno solo pochi neuroni. Riescono a sopravvivere, a riprodursi, in vario modo a muoversi e, ben presto, a fuggire, ad andare altrove rispetto alla propria localizzazione primaria. Qui c’è il primo carattere fondante del fenomeno migratorio, il movimento in un altro differente contesto di sopravvivenza, quella che potremmo forse definire (anche da centinaia di milioni di anni) una asimmetria spaziale, cambio di spazi nicchie habitat areali ecosistemi che implicano il superamento di una qualche barriera (confine), ecologica ed esperenziale. In tal senso, non basta che riesca a fuggire un singolo individuo, devono esistere le condizioni per cui si riproduca altrove, la “migrazione” dura troppo poco se si muore presto oppure è solitaria. Emerge qui il secondo carattere fondante, un trasferimento durevole e duraturo, che determina, comunque, una diacronia temporale, un primo e un dopo nella vita biologica degli individui coinvolti e in parte negli stessi ecosistemi di partenza, di transito e di arrivo.
Quasi tutto ciò che ci circonda o che abbiamo dentro (noi sapiens) è immigrato da altrove, perlopiù ormai da un altro ecosistema umano. Stabilire cosa sia alieno in un ecosistema è abbastanza complicato; una pianta o un animale vivi, e in grado di sopravvivere e riprodursi, sono magari l^ perché “sconfinati” ma non sono mai “fuori posto”, e molto raramente sono davvero “autoctoni” da immemorabile tempo. Possono necessitare di adattamenti biologici, creare problemi ad altre specie, attentare a equilibri dell’ecosistema, indurre speciazioni, ma la cornice identitaria viene fissata da leggi e Stati solo attraverso artifizi culturali, in genere retorici. Le estinzioni, gli adattamenti, le relazioni fra specie hanno spesso riguardato il sopraggiungere di specie precedentemente lì aliene, oltre che la minore o maggiore capacità di sopravvivere e riprodursi in ecosistemi climaticamente e biologicamente trasformati o di trasferirsi in ecosistemi diversi, anche molto lontani.
Occorre studiare non tanto le esperienze e capacità dei singoli individui, quanto le capacità di gruppo e di specie, nel lungo periodo dell’evoluzione per selezione naturale. In questo processo, se da una parte ci sono le mutazioni e le ricombinazioni dei geni, dall’altra sono le migrazioni a provocare un’ulteriore variazione, spostando individui da un gruppo a un altro della stessa specie e, occasionalmente, introducendo geni di una specie in un’altra, modificando il contesto delle altre specie presenti nello stesso ecosistema. È urgente una biologia evoluzionistica delle migrazioni vegetali e animali. Il contesto non è sempre e solo dato: in parte gli organismi scelgono e modificano il proprio habitat e ogni ecosistema reagisce al cambiamento e lo determina. Anche la migrazione costituisce una pressione selettiva.
La capacità animale di migrare meriterebbe studi accurati, non antropocentrici: gli umani raccoglitori cacciatori dovettero imparare a adattarsi alle migrazioni animali per sopravvivere e alimentarsi. Le migrazioni animali sono connesse agli areali e alle migrazioni vegetali. Le migrazioni umane sono connesse agli areali e alle migrazioni vegetali e animali. Molti dei tratti che un tempo venivano considerati unicamente umani non lo sono: gli animali sono dotati di dimensioni e neuroni del cervello non minori dei nostri; svariati utilizzano utensili e strumenti (né siamo gli unici coltivatori); alcuni (pochi) gestiscono il fuoco; quasi tutti conoscono il sonno ciclico, praticano violenza intraspecifica e possiedono uso di tecnologie; diversi cantano a modo, fanno talvolta sesso senza riprodursi e anche tra membri dello stesso sesso; tanti hanno capacità ed esperienze di comunicazione; quasi tutti a loro modo convertono la luce in visione ovvero possiedono la vista, e si potrebbe continuare.
Il nostro programma genetico deriva originariamente dalle forme di vita unicellulari, lentamente e biodiversamente evolute; condividiamo i geni e alcune loro funzioni con molti altri organismi unicellulari (con o senza nucleo) e pluricellulari; non abbiamo ereditato da un antenato comune nemmeno tutto il nostro Dna, virus autoreplicanti si sono lì innestati. Sono immigrati in noi. L’albero genealogico è una rappresentazione semplificata e teorica delle relazioni filogenetiche interspeciali e infraspeciali: andrebbe sempre discusso insieme ai motori e alle tappe dell’evoluzione e della coevoluzione negli ecosistemi. Tutte le specie viventi risultano componenti della stessa megadimensione filogenetica.
Ogni specie ha poi maturato un diseguale popolamento del diseguale pianeta, legato anche agli spostamenti delle placche e dei continenti o delle acque dolci e salate, sempre intrecciando movimenti e migrazioni, radiazioni e isolamenti, estensioni e restrizioni dell’areale, con l’alternarsi delle glaciazioni, sempre in parallelo ad altre specie (convergenti, divergenti, complementari, disgiunte), sempre più relazionando le proprie migrazioni con quelle di altre specie, ancor più lasciandosi condizionare dalla evoluzione geografica e demografica dei sapiens, fino alla nostra continuità planetaria di habitat. Cambi di biodiversità hanno indotto variazioni genetiche adattative. Prima e dopo di noi, alcune specie sono divenute migratorie. Dopo di noi, le specie (forse anche alcune di quelle estinte) si sono adattate soprattutto riuscendo a evitare i predatori umani; talune sono restate migratorie.
Lungo l’intero complesso percorso evolutivo, il fenomeno migratorio di ogni specie non conosce un’unica forma di manifestazione, molteplici differenti tipologie di diffusione umana sono forme del fenomeno complessivo. Per i due milioni di anni di convivenza e coevoluzione delle forme del genere Homo, la stessa estensione degli areali non è un movimento radiale netto e definito, lineare e centrifugo; conosce invece erranze e fughe, andate e soste, fallimenti e dispersioni, rallentamenti e accelerazioni, estinzioni e speciazioni, sovrapposizioni e ibridazioni. Le migrazioni su piccole distanze non sono per forza sottese ai fenomeni di diffusione o dovute a un successo adattativo e demografico delle singole popolazioni. L’attendere che la selezione naturale faccia il suo corso premiando le varianti genetiche più adatte al nuovo ambiente non riguarda solo l’espansione dell’areale e nemmeno solo la diffusione agricola di Homo sapiens. Non si tratta della progressiva conquista di spazio o dell’inaugurazione di percorsi stabili.
Certo, il fenomeno migratorio umano primordiale, in un pianeta popolato da sparuti gruppi di specie umane, fra ecosistemi ostili e sconosciuti, è assolutamente diverso da quello odierno, in un pianeta sovrappopolato ovunque da Homo sapiens, navigatore di mare, di terra e di cielo. Il fenomeno è ancor più diverso per ogni specie animale, migratoria o meno. Si manifesta in più forme, spesso non comparabili fra specie. Gli animali che volano, quelli che nuotano, quelli che camminano sugli arti hanno avuto migrazioni originarie e ataviche, hanno manifestato forti capacità di migrare e, talvolta, sono divenuti specie migratorie. In parte questo ha riguardato anche gruppi del nostro forestale antenato comune, scimpanzé quadrupedi sugli alberi nelle stagioni fredde, bipedi alternativi al suolo nelle stagioni calde. Una componente importante della “prima” migrazione umana è stato probabilmente il passaggio dagli alberi al suolo, siamo noi gli unici bipedi. Oggi, per definire il superamento di un confine e una migrazione di sapiens, abbiamo vari criteri (pure giuridici), che ancora una volta chiamano in causa gli spazi e i tempi, la geografia e l’antropologia.
Se ne sono bene occupati di recente Marco Aime e Davide Papotti in Confini, Edizioni Gruppo Abele 2023, pag. 174 euro 18. Nel momento in cui ci siamo trovati a definire lo spazio (umano) ove ci troviamo, individuo sapiens e comunità vitale, siamo stati costretti a ritagliarlo un poco. Per dargli un senso occorre chiuderlo e separarlo da qualcosa che diventa altro. Dobbiamo perciò tracciare una linea, reale o immaginaria, lineare o sinuosa, che lo delimiti: ecco il confine. Il termine, nella lingua italiana, deriva dal latino cum finis, il luogo dove qualcosa finisce, che segna comunque quel punto dove le diverse identità (biologiche e geografiche) si incontrano e si riflettono l’una nell’altra. Finisce la nostra nicchia o habitat o ecosistema. I confini forniscono uno straordinario principio di rafforzamento della realtà: contribuiscono a far sembrare più unitario ciò che circoscrivono e, allo stesso tempo, aiutano a pensare più “diverso” ciò che sta fuori. La frontiera rimanda più a una fascia di territorio non ancora compiutamente definita, in continua evoluzione, più facile alla dimensione anche mitica. Un confine può impedire il passaggio, una frontiera lo regola.
Proprio la sperimentazione di Stati rinchiusi in confini chiaramente determinati segna il passaggio dal Medioevo all’età moderna: la nascita dell’idea di confine territoriale, così come la concepiamo oggi, ha così come premessa lo sviluppo della cartografia e può essere fatta risalire al 1648 e alla pace di Vestfalia, ma il concetto ha subito poi mostrato natura versatile e proteiforme, declinandosi in mille forme, assumendo mille sembianze, con un’impronta politica, giuridica, sociale, morale e anche psicologica che ha continuato a mutare nel tempo e nello spazio. Per sviscerarlo occorre muoversi a zigzag sul “confine” tra varie discipline, soprattutto geografia e antropologia culturale, seguendo un criterio (aperto) di commistione e compenetrazione. L’antropologo Marco Aime (Torino, 1956) e il geografo Davide Papotti (Parma, 1965) insegnano alle università di Genova e di Parma, hanno scritto separatamente molti interessanti testi scientifici e divulgativi, escono ora insieme con un bel saggio sui confini, ricco e documentato.
Dopo l’introduzione congiunta, Aime e Papotti hanno deciso di articolare il volume in diciotto capitoli (equamente divisi, più o meno), partendo dalle molteplici forme e funzioni, senza pretesa di esaustività, e proponendo quindi le principali tipologie, da quelle geografiche e territoriali a quelle culturali e politiche, con opportune autorevoli citazioni di bibliografia ed esempi, istruttivi e curiosi. I titoli delle specificazioni del confine sono indicativi: del colore; nella cartografia; culturale; simbolico; a tavola; la relativa archeologia; come meta turistica; tra gli umani; religioso; generazionale; di classe; tra noi e la natura; di genere (e coi generi di confine); linguistico; nella rappresentazione artistica; nel raccontare. La conclusione è interrogativa: assenza di confini? Sicuramente il mondo dell’antica preistoria dell’umanità era un mondo potenzialmente senza confini (perlomeno senza contare gli elementi naturali che, in determinate condizioni fisico-climatiche, potevano divenire ostacoli alla mobilità umana).
Man mano che le strutture sociali si sono rese più complesse (proprio a partire da quella soglia di avvio della sedentarietà delle comunità umane, avvenuta in concomitanza con la prima rivoluzione agricola, circa dodicimila anni fa) la proliferazione di confini di diverso tipo e natura ha cominciato a trasformare il pianeta. Sicché una totale assenza di confini creerebbe oggi forse non pochi problemi ai sapiens: il confine è un’idea così perfetta che tende a costituirsi come tipologia ideale, come archetipo dell’immaginario. E qui si dovrebbe sviluppare la questione implicita, visto che la storia del confine si confonde con la storia del migrare, ovvero se e come spostarsi oltre quel confine, emigrare e immigrare (con connessi diritto di restare e gradi di libertà di migrare). Ma le migrazioni (non solo umane) e alcuni tipi di nicchie e di confini (pure biologici) esistevano anche prima della lenta contraddittoria conflittuale svolta stanziale agricola: bisognerà approfondire insieme l’evolutiva persistente continuità e contiguità di migrazioni e di confini. Magari a partire dalla definizione “ufficiale” di migrazione umana: cambio di Stato (o di sistema istituzionale amministrativo) per almeno un anno. Asimmetria e diacronia.