SOCIETÀ

Recessione tecnica: di cosa si tratta e come uscirne

Ormai è ufficiale: l’Italia è in recessione. Nel linguaggio economico anzi per il momento si parla di ‘recessione tecnica’: “Si tratta solo di un problema di definizione – spiega Lorenzo Rocco, economista dell’università di Padova –. Un calo per un solo trimestre potrebbe essere dovuto a fattori stagionali o a uno shock temporaneo: per questo per gli economisti si tratta di recessione quando il Pil diminuisce per almeno due trimestri consecutivi”. E l’Italia oggi è proprio in questa situazione, dato che il prodotto interno lordo è diminuito dello 0,1% nel terzo trimestre e dello 0,2% nel quarto trimestre 2018. Una condizione che, oltre a incidere sui redditi e sul lavoro, potrebbe avere ripercussioni anche sulle finanze pubbliche.

Insomma professor Rocco, dobbiamo iniziare a preoccuparci?

Si tratta di una diminuzione in fondo modesta, più una stagnazione, molti economisti sostengono che si tratta di una fase temporanea e che nei prossimi trimestri torneremo a crescere. Difficile comunque fare previsioni: potrebbe trattarsi solo di un rallentamento, in futuro però potrebbero anche esserci fattori che peggiorino la situazione.

Quali?

Ad esempio l’aggravamento delle tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina, dove non è ancora chiaro se si troverà un accordo o se si andrà verso una guerra commerciale. C’è poi la Brexit, che non si sa ancora se sarà hard o soft, e le elezioni europee di maggio, con le loro possibili ripercussioni sul futuro delle istituzioni dell’UE. Tutti elementi di incertezza che potrebbero aggravare la crisi oppure, qualora superati, costituire motivi per un rilancio.

Che fare comunque?

Non si può stare con le mani in mano e attendere, bisogna comunque prepararsi per ogni eventualità; non esistono però ricette assolute: ogni Paese deve trovare la più adatta al suo sistema economico. Teniamo anche conto che il rallentamento non riguarda solo l’Italia ma tutto il mondo, in particolare i Paesi esportatori e manifatturieri come noi e la Germania, ma anche la Cina e gli Stati Uniti. Riguardo le soluzioni la Germania potrebbe ad esempio diminuire la tassazione, aumentare gli investimenti pubblici e sostenere i consumi: ho però l’impressione che questa via preclusa all’Italia, dove oggi non vedo spazio fiscale per una politica keynesiana. Per noi sarebbe meglio agire sulla deregolamentazione, sulla diminuzione delle incombenze burocratiche per le imprese e sulla semplificazione amministrativa: politiche a costo zero che potrebbero portare benefici all’economia e mobilitare il risparmio, che da noi fortunatamente ancora c’è, su nuovi investimenti e iniziative.

L'Italia è specializzata in settori maturi con pochi margini di crescita, mentre siamo inesistenti in quelli più profittevoli

La bassa crescita in Italia viene comunque da lontano: quali sono le ragioni e quali i provvedimenti da prendere?

Da decenni abbiamo un problema di crescita lenta, l’Italia è il Paese Ocse che dal 2000 è cresciuto meno. Certo nel frattempo ci sono state recessioni, ma noi le abbiamo sofferte più degli altri, con un Pil che è diminuito di più ed è cresciuto meno nelle fasi di espansione. Un male italiano che ha molte spiegazioni: ad esempio dal punto di vista della produzione siamo specializzati in settori maturi con pochi margini di crescita, mentre siamo inesistenti in quelli più profittevoli come l’elettronica, i media e il cinema. In secondo luogo fatichiamo anche nei settori tradizionali perché anche lì spendiamo poco in ricerca e innovazione, perdendo competitività sia sul mercato interno che su quello internazionale. Un’altra questione investe la regolamentazione del mercato lavoro e dei capitali, che appare decisamente ingessata rispetto a quella degli altri Paesi. Queste sono solo alcune delle cause del nostro declino, molte delle quali interconnesse tra loro: c’è ad esempio anche un problema di bassa scolarizzazione, dovuta al fatto che i settori tradizionali chiedono meno laureati, cosa che a sua volta fa sì che ci sia poca innovazione. Tutti errori magari piccoli singolarmente, ma che sommandosi nel giri di vent’anni ci hanno fatto perdere molta strada. Il nostro è una Paese che dagli anni ‘60 e ‘70 ha perso dinamicità, tendiamo un po’ a vivere sulle glorie del passato e facciamo fatica a buttare il cuore oltre l’ostacolo, a provare altri settori e nuove sfide.

La soluzione quindi è stimolare le aziende?

Attenzione però: si può investire sul futuro quando questo si presenta in maniera relativamente definita. Sull’Italia però incombono alcuni rischi: l’instabilità politica, causata anche dai continui cicli elettorali, un debito pubblico gigantesco e la necessità di gestirlo con continue correzioni. Quale sarà la tassazione futura? Una crisi del debito potrebbe ad esempio comportare un aumento dell’Iva, con quello che ne conseguirebbe sui consumi, e delle imposte su imprese. Eventualità che ovviamente riducono gli incentivi a investire: per questo suggerisco di mantenere una politica di bilancio oculata. In fondo in Italia il settore pubblico rappresenta già, direttamente o indirettamente, oltre metà del Pil: sarebbe quindi il caso di iniziare a scommettere soprattutto sull’iniziativa privata.

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