SCIENZA E RICERCA

I resti umani: etica, conservazione, esposizione

Una recente conferenza internazionale dal titolo Human remains, Ethics, Conservation, Display ha fatto incontrare a Pompei e Napoli specialisti italiani e internazionali per una riflessione sui resti umani come materiale sensibile.

Il tema della conservazione, studio ed esposizione dei reperti umani in contesti museali è indubbiamente delicato e spesso fonte di scelte diverse tra le varie istituzioni. Sebbene esistano dei riferimenti e dei codici di comportamento internazionali, spesso intervengono situazioni di convenienza che possono portare a scelte a volte discordanti. Questo perché l’ambito di riferimento di questi temi è di tipo etico: non essendoci un’etica universale è, dunque, inevitabile che le scelte possano essere differenti.

È proprio l’aspetto dell’esposizione di resti umani – come mummie, preparati anatomici e resti scheletrici – all’interno di percorsi espositivi da parte dei musei scientifici, che più di tutti riaccende il dibattito ideologico: è giusto esporre i resti umani? Si tratta di presentare i risultati di ricerche archeologico-scientifiche o della profanazione di defunti?

Al di fuori delle istituzioni scientifiche, il dibattito è altrettanto caldo visto che la mostra itinerante Bodies… The Exhibition, in ogni sua tappa, riesce ad attrarre migliaia di visitatori nonostante le numerose polemiche scaturite dalla dubbi provenienza e causa di morte dei corpi plastinati di uomini e donne cinesi, messi in mostra per puro scopo esibizionistico. 

Le esposizioni dei resti umani possono urtare la sensibilità dei visitatori perché ritenute, in taluni casi, irrispettose dei costumi e tradizioni locali o, in altri casi, del singolo individuo. Ad alimentare la controversia, particolarmente nel nostro Paese, è il background culturale e religioso che ha plasmato un rapporto con la morte che si fonda sulla sacralità del corpo umano come dono della divinità. Tuttavia, nello stesso mondo cattolico vi sono delle eccezioni come le Catacombe dei Cappuccini di Palermo, San Bernardino alle Ossa a Milano con le pareti adornate di teschi o il Convento dei Frati Minori Cappuccini a Roma che mostra le ossa dei monaci utilizzate per realizzare decorazioni architettoniche; in quei contesti il corpo era considerato un semplice involucro dell’anima che, dopo il trapasso, perdeva ogni importanza. 

Studiare e mostrare la morte significa non solo conoscere e far conoscere uno degli aspetti più intimi dell’umanità, ma misurarsi anche con preconcetti sociali e ostacoli psicologici, educando alla riflessione su di essi. Questa forma di educazione, in cui i musei scientifici sono protagonisti, ha come obiettivi prevalenti quelli di rimuovere i tabù sulla morte e di promuovere forme di interazione con essa al fine di affrontarla con la minima apprensione, cercando di far comprendere la struttura sociale del morire – il cosiddetto death system –, nonché riconoscendo le diversità e le peculiarità esistenti tra le varie culture sul tema. Tutto questo deve giustamente passare attraverso una scelta appropriata dei linguaggi, perché è sentire comune che le collezioni dei resti umani non siano semplicemente “oggetti insoliti” da ammirare. La comunità scientifica è senz’altro concorde nel non considerarli oggetti, ma bensì individui carichi di cultura, memorie, storie individuali e collettive, estrapolando e presentando ogni dato possibile che possa far conoscere, attraverso lo studio della morte, soprattutto la loro vita.

In questo solco si colloca un quesito carico di rilievo posto da Christian Greco (direttore del Museo Egizio di Torino) durante la conferenza: “Sottrarre i resti umani alla visione pubblica è davvero la soluzione migliore?”. E ancora: “Porre i reperti antropici e sigillarli dentro una scatola all’interno di un magazzino è davvero dimostrazione di rispetto?”. A complicare il quadro generale è la definizione di “mummia”. Oggigiorno non sappiamo come definire precisamente una mummia: è un resto antropico? o è un “manufatto”, un “preparato anatomico” con lo scopo di trasfigurare il defunto e donargli la vita nell’aldilà? 

La continuità biologica e/o culturale tra individui o popolazioni viventi e i resti umani conservati nei musei è una questione che molte istituzioni, anche italiane, hanno dovuto porsi a seguito di alcune richieste di restituzione da parte di comunità indigene (Nativi Americani, Aborigeni Australiani e Maori). Il codice etico ICOM (International Council of Museums) del 2004 – in tre articoli – si dedica al tema della gestione dei resti umani nei musei con particolare attenzione ai diritti dei discendenti, al valore etico della diversità culturale, all’identità culturale e al diritto umanitario internazionale. Su queste questioni, Telmo Pievani, nel suo intervento, augura che si possa arrivare ad un accordo in cui tutte le esposizioni antropologiche possano esser discusse con la partecipazione attiva delle comunità native e locali. Così facendo si potranno ottenere dei musei che presentino e condividano questi reperti in modo rispettoso, facendo riferimento alla storia culturale dei gruppi umani a cui appartengono e aumentando la consapevolezza del pubblico sul patrimonio conservato.

Ma quanto indietro nel tempo si può andare nel rivendicare la restituzione dei resti umani? Anche di qualche centinaio di migliaia di anni, pare… Il Museo di Storia Naturale di Londra ha due richieste pendenti a riguardo: una da Gibilterra per il rientro di due crani neandertaliani (Gibraltar 1 e 2) vecchi di almeno 50mila anni; l’altra da parte dello Zambia per il cranio di Broken Hill, il fossile di un famoso ominino classificato come Homo heidelbergensis datato 300mila fa.

È ovvio che le comunità che rivendicano questi resti non hanno nessun legame né culturale né biologico con essi e queste restituzioni non avranno mai luogo perché esiste un’altra comunità che va considerata: gli studiosi e i visitatori dei musei. Cosa succederebbe – viene detto provocatoriamente durante il convegno – se i musei smettessero di conservare, studiare e valorizzare i resti umani? Andremmo a colpire mortalmente la libera scienza, quella ricerca e produzione di sapere che è componente essenziale nelle nostre società.

Sempre Pievani sottolinea come il valore etico della ricerca rimanga un tema piuttosto marginale nei documenti ICOM, quando dovrebbe essere per i musei uno degli argomenti portanti, in quanto ci permette di progredire nella conoscenza e di condividere le scoperte con il pubblico. Un esempio riuscito di coesistenza tra etica e ricerca è il progetto dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo, “Morti senza nome”. In questo caso si usano le conoscenze scientifiche sui resti umani – frutto della ricerca scientifica antropologica – per ridare un nome ai migranti naufragati con l’intento di darne un’identità e liberare i loro parenti dall’incertezza dilaniante nel non essere a conoscenza della sorte dei loro cari, raggiungendo un valore etico straordinario.

L’Università di Padova partecipa a questo dialogo perché coinvolta in esso dal suo patrimonio centenario: da pochi mesi è aperto il Museo di Anatomia Patologica che attraverso le sue collezioni riflette su come si ammala il corpo umano. Per celebrare i suoi 800 anni di storia, l’ateneo aprirà il Museo della Natura e dell’Uomonella splendida sede di Palazzo Cavalli: in esso troveranno spazio le ricche collezioni del Museo di Antropologia che racconteranno la storia biologica e culturale della nostra specie.

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