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Nel 2017 l’Organizzazione mondiale della Sanità pubblica per la prima volta un elenco ufficiale che indica gli agenti patogeni con il più alto potenziale epidemico e pandemico: l’obiettivo è di indirizzare e accelerare la ricerca sulle malattie che potrebbero costituire una minaccia, riducendo il tempo necessario allo sviluppo di misure di prevenzione e trattamento. Attualmente la lista – che dovrebbe essere aggiornata proprio quest’anno – comprende Covid-19, febbre emorragica di Crimea-Congo, malattia da virus Ebola e malattia da virus Marburg, Mers, Sars, infezione da virus Nipah, febbre della Rift Valley, Zika e malattia X (con cui si indica un possibile agente patogeno attualmente sconosciuto). A queste si somma la febbre di Lassa, malattia poco nota probabilmente ai non addetti ai lavori, che (finora) ha interessato principalmente il continente africano. Tuttavia, non senza qualche incursione in Europa e in altri Paesi del mondo.
Da alcuni anni il numero di infezioni è in aumento, anche al di fuori delle aree endemiche. Molti casi non vengono diagnosticati né segnalati e le persone muoiono nei loro villaggi. Fino ad oggi, nonostante il peso significativo della malattia, non sono stati approvati trattamenti specifici né vaccini. Proprio per questa ragione la Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (Cepi), fondazione che raccoglie donazioni da organizzazioni pubbliche e private per sostenere la ricerca, si sta impegnando in questa direzione.
Abbiamo fatto il punto con Giuseppe Ippolito, professore di malattie infettive all’università Unicamillus di Roma, fino a pochi mesi fa direttore generale per la ricerca e l'innovazione in sanità del ministero della Salute e per lungo tempo direttore scientifico dell’istituto nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani”.
Una patologia trasmessa dai ratti
La febbre di Lassa fa parte del gruppo delle febbri emorragiche virali ed è una zoonosi causata dal virus Lassa, appartenente alla famiglia degli Arenaviridae (virus a RNA con una dimensione che varia tra i 50 e i 300 nanometri di diametro). Il virus viene trasmesso all’uomo principalmente attraverso il contatto con roditori infetti del genere Mastomys (che costituiscono il serbatoio naturale), attraverso alimenti o oggetti domestici contaminati con urina o feci di questi animali. Si tratta di ratti che abitano i villaggi poveri, che entrano ed escono dalle case in cerca di cibo, specie durante la stagione secca.
Il contagio però può avvenire anche da uomo a uomo: “La malattia si trasmette attraverso il contatto con soggetti infetti – spiega Ippolito – o per contatto con i tessuti o i materiali biologici di queste persone, dunque attraverso sangue, urina e feci. È stata riportata tuttavia anche la trasmissione sessuale del virus di Lassa: del virus rimane traccia per almeno tre settimane dopo l’infezione nelle urine e per tre mesi nello sperma. È stato rilevato anzi un caso di permanenza nello sperma ancora più lungo. Il contatto casuale con chi è infetto non è considerato un rischio, c'è rischio di trasmissione quando le secrezioni vengono aerosolizzate e diventano droplet, soprattutto da urina contaminata”.
L’esordio della febbre di Lassa è graduale e il periodo di incubazione può variare dai tre giorni alle tre settimane. L’infezione è difficile da diagnosticare senza gli opportuni esami di laboratorio, perché può presentarsi con vari quadri clinici, che vanno dall'assenza di sintomi (nell’80% dei casi) all'insufficienza multiorgano fino alla morte. “L'assoluta maggioranza di chi contrae il virus manifesta sintomi trascurabili che molto spesso vengono confusi con i sintomi influenzali. Chi è affetto dalla malattia può presentare febbre, nausea, mal di gola, astenia, dolori articolari. Il quadro clinico però può via via diventare più severo: possono comparire dolori addominali, diarrea, sintomi respiratori, emorragie gravi e prolungate ed effetti sul sistema nervoso”.
Intervista completa a Giuseppe Ippolito, professore di malattie infettive all’università Unicamillus di Roma. Servizio di Monica Panetto, montaggio di Barbara Paknazar
Endemica in Africa occidentale
La malattia è stata documentata per la prima volta nel 1969, quando un piccolo focolaio ha causato la morte di due infermiere missionarie che prestavano servizio nella città di Lassa, in Nigeria. Dopo l'identificazione iniziale del virus, sono stati diagnosticati casi ogni anno in due regioni geograficamente separate dell'Africa occidentale, dove la malattia è endemica: Nigeria e Sierra Leone/Guinea/Liberia (nota come regione del fiume Mano). Successivamente il virus è stato riscontrato anche in Paesi precedentemente non esposti, tra cui Ghana, Benin, Burkina Faso, Mali e Costa d'Avorio.
Infezioni da virus Lassa sono state via via rilevate anche in altre parti del mondo, importate dalle regioni africane. Nel febbraio 2022 per esempio si sono verificati tre casi nel Regno Unito, tra cui un decesso, in una famiglia di ritorno dalle vacanze in Mali. Altri sono stati registrati in Germania e nei Paesi Bassi, ma anche in Giappone, Israele, Canada e Stati Uniti. “Secondo l’Oms – sottolinea Ippolito – i casi che vengono esportati dall'Africa sono estremamente limitati, ma determinano una grande preoccupazione, come è successo nel Regno Unito. La diagnosi è stata tardiva, perché mancavano persone con esperienza sufficiente a identificare le fasi precoci della malattia. Gli operatori sanitari sono potenzialmente esposti all’infezione sia durante l'assistenza ordinaria, ma soprattutto durante gli accertamenti e in particolare durante gli esami radiografici. In Inghilterra si è visto che un solo caso di sospetta febbre emorragica poteva esporre fino a 300 operatori sanitari”.
Le attuali stime parlano di 100.000-300.000 casi all’anno nell’Africa occidentale, con circa 5.000 decessi. Un rapporto dell’Oms riferisce però che questi numeri sono estrapolati da un unico studio longitudinale condotto più di 30 anni fa in Sierra Leone: il vero peso della febbre di Lassa sulla salute pubblica dunque non sarebbe realmente noto, ma anzi è probabile che i contagi siano di più. I dati di sorveglianza della patologia sono limitati e studi di sieroprevalenza in aree non endemiche hanno identificato un numero elevato di infezioni che in precedenza non erano state individuate. I rapporti di sorveglianza più recenti, inoltre, hanno rilevato un aumento sostanziale nel numero e nella diffusione geografica dei casi. Alcuni ricercatori stimano che ogni anno in Africa occidentale siano due milioni le nuove infezioni, con 300.000-500.000 casi clinici e 10.000 decessi. Altri fanno salire il numero di morti per anno a 18.000. Proprio per comprendere meglio il tasso, la localizzazione e la diffusione del virus di Lassa, Cepi ha finanziato il progetto Enable, lanciato nel 2020.
Aumento dei casi: quali possibili cause?
Ippolito spiega che la circolazione del virus nell'Africa sub-sahariana ha una correlazione diretta con l'aumento delle zone aride nel continente e con l’aumento della densità di popolazione in alcune di queste aree, legato a condizioni di vita non sempre civili: “Uno studio condotto nello Stato di Ondo in Nigeria – argomenta l’infettivologo – consente di affermare che l’aumento di esposizione senza filtri alla luce solare, l’innalzamento della temperatura e l'urbanizzazione sono fattori importanti per l'aumento dell'incidenza dei casi di Lassa. Dall’analisi emerge anche che l’espansione del numero dei mercati come luogo di aggregazione di persone è considerato un pericolo”. Le cattive pratiche igienico-sanitarie e di gestione dei rifiuti possono fungere da terreno di coltura per i roditori, aumentando il rischio di esposizione umana. E anche l'accesso limitato ai servizi sanitari e i ritardi nella diagnosi e nel trattamento possono aggravare l'impatto della malattia. “Gli abbassamenti della temperatura, un aumento delle precipitazioni e il mantenimento della vegetazione sono considerati invece fattori protettivi rispetto all'incidenza di Lassa”.
Come il resto del mondo, anche i Paesi africani saranno sempre più colpiti dai cambiamenti climatici, con temperature in aumento e precipitazioni più estreme, ma più rare. Questo, insieme all’aumento della pressione umana sulle risorse del territorio dovuta alla crescita della popolazione, potrebbe espandere la nicchia ecologica del virus di Lassa: secondo uno studio pubblicato su Nature Communications, anche regioni dell’Africa centrale e orientale potrebbero diventare idonee alla circolazione dell’infezione nei prossimi decenni.
Come trattare la malattia
Se questa è la situazione (e le proiezioni) dal punto di vista epidemiologico, si intuisce la necessità di terapie specifiche che oggi purtroppo sono carenti. “Per il trattamento della febbre di Lassa negli ultimi 20 anni è stata usata la ribavirina che si è rivelata efficace quando viene prescritta molto precocemente. Quando il farmaco viene somministrato soprattutto per endovena riduce significativamente la letalità. Purtroppo si tratta però di un medicinale veramente raro in Africa e difficilmente reperibile anche nei Paesi occidentali. Più recentemente è stato impiegato il favipiravir i cui effetti tuttavia non sono ancora stati studiati su larga scala e questo rende necessarie ulteriori ricerche. Il farmaco è già registrato in alcuni Paesi come il Giappone per l'influenza”. È stato ipotizzato inoltre che l’antivirale Lhf 535 possa essere efficace per il trattamento dell’infezione da Lassa virus, ma Ippolito sottolinea che condurre trial clinici è estremamente difficile.
Per garantire la sopravvivenza è fondamentale la terapia di supporto precoce con reidratazione e il trattamento dei sintomi: “È importante riuscire a garantire la terapia di supporto, cioè il sufficiente apporto di liquidi o la dialisi ai pazienti con insufficienza renale. Proprio per questo, nell’ambito di programmi internazionali, sono state fornite all’Africa le opportune apparecchiature per la dialisi. Inoltre sono stati avviati programmi per spiegare dettagliatamente agli operatori sanitari come comportarsi, e predisposti piani per il trattamento e la profilassi immediata in caso di esposizione”.
Attualmente non esistono vaccini efficaci per la febbre di Lassa, ma alcuni sono in fase di sviluppo, grazie anche al sostegno della Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (Cepi).