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In Salute. Malattie cardiovascolari, cosa sono e come prevenirle

Le malattie cardiache (la cardiopatia ischemica, nello specifico) sono la principale causa di morte a livello globale, ormai da 20 anni. Il numero di decessi è aumentato di oltre due milioni dal 2000, stando ai dati riferiti dall’Organizzazione mondiale della Sanità, fino a raggiungere quasi i nove milioni nel 2019. Più della metà di questi due milioni di morti in più si è verificata nella regione del Pacifico occidentale dell'Organizzazione mondiale della Sanità, mentre la regione europea ha visto un relativo calo delle malattie cardiache, e un calo dei decessi del 15%.

In Italia le malattie cardiovascolari in generale rappresentano la principale causa di morte, ancora con le cardiopatie ischemiche (patologie come l’infarto del miocardio o l’angina pectoris) al primo posto. E se nel 2020 nel nostro Paese, profondamente segnato dalla pandemia, l’89% dei decessi è stato causato da Covid-19, per il restante 11%, secondo i dati Istat,  le cause di morte più frequenti sono sempre attribuibili a patologie che interessano il cuore e i grandi vasi (4,6%), seguite da tumori, malattie del sistema respiratorio, diabete, demenze e le malattie dell’apparato digerente.

Per avere un quadro generale sull’argomento, ci siamo rivolti a Sabino Iliceto, direttore della Cardiologia dell’Azienda ospedaliera – università di Padova e della scuola di specializzazione in malattie dell’apparato cardiovascolare dello stesso ateneo. “Il termine tecnico – spiega il docente – delinea un ambito anatomico, ovvero il cuore e i grandi vasi. Il cuore e i grandi vasi si possono ammalare indipendentemente dagli altri organi o possono essere espressione di malattie dette sistemiche, che si manifestano cioè quando cuore e vasi si ammalano per motivazioni che arrivano da lontano”. Si sofferma in modo specifico sulla cardiopatia ischemica, che tra le malattie cardiovascolari è la patologia più diffusa, spiegando quale ne sia l'origine: “La malattia delle coronarie (cioè i vasi del cuore) in genere è quella cosiddetta aterosclerotica: i vasi diventano più rigidi, si dilatano di meno o addirittura possono chiudersi, occludersi o restringersi. Quando si genera una situazione di questo tipo, arriva meno sangue al muscolo cardiaco, ma ogni distretto del nostro organismo ha bisogno di ricevere sangue per poter vivere. Il sangue porta ossigeno e l’ossigeno è il carburante del muscolo cardiaco: quando si riduce la quantità di sangue di un qualsiasi organo, si dice che quell’organo può andare incontro a ischemia”.

Guarda l'intervista completa a Sabino Iliceto. Montaggio di Barbara Paknazar

Per la cardiopatia ischemica esistono “campanelli d’allarme” di due tipi, osserva il docente, legati da un lato alla sintomatologia, dall’altro ai fattori di rischio. Il sintomo più frequente è il dolore toracico, che deve avere tuttavia determinate caratteristiche: fra i tanti dolori che portano al pronto soccorso il dolore toracico infatti è il più comune, dato che può manifestarsi anche per un banale piccolo trauma.  

È importante, poi, tener conto dei fattori di rischio che aumentano la probabilità di contrarre la malattia. Tra questi rientrano innanzitutto i fattori di rischio genetici, la familiarità e anche il luogo in cui si vive. L’inquinamento ambientale, infatti, può aumentare il rischio cardiovascolare, sottolinea Iliceto. E infine ci possono essere fattori di rischio acquisiti nel tempo, legati ad abitudini particolari, come l’abitudine al fumo di sigaretta, o a malattie, come il diabete, l’ipertensione, l’obesità o l’ipercolesterolemia. Tra il 2016 e il 2019, per esempio, stando ai risultati del programma di sorveglianza Passi (Progressi delle Aziende Sanitarie per la Salute in Italia), nel nostro Paese 20 intervistati su 100 hanno riferito una diagnosi di ipertensione, 23 di ipercolesterolemia, 5 di diabete; 25 hanno dichiarato di essere fumatori, 34 di non svolgere attività fisica e 42 sono risultati in eccesso ponderale (IMC ≥ 25). E solo 10 persone su 100 consumavano cinque porzioni di frutta e verdura al giorno.

“La prevenzione della cardiopatia ischemica – osserva il docente – rappresenta la gran parte della prevenzione delle cardiopatie cardiovascolari”. Per altri tipi di malattie quasi scomparse, come la malattia reumatica, la cosiddetta febbre reumatica, le valvulopatie su base reumatiche, fare prevenzione significa essenzialmente adottare uno stile di vita sano già in tenera età, evitando dunque di vivere in ambienti umidi o igienicamente poco protetti. 

Iliceto spiega che la prevenzione della cardiopatia ischemica si compone fondamentalmente di due capitoli. “Innanzitutto, molto semplicemente, si possono effettuare degli screening abbastanza banali, per capire se si rientri in una categoria particolarmente a rischio, dunque il controllo della pressione, dei livelli glicemici nel sangue, o di altri fattori di rischio che con un semplice prelievo di sangue possono essere molto ben identificati”. In secondo luogo, è importante adottare uno stile di vita sano. “Fino a qualche tempo fa questo era un concetto aleatorio, poi in appena venti, trent’anni si è imparato che l’esercizio fisico fa bene, come pure una buona alimentazione. Ciò non significa mangiare alimenti specifici, ma seguire una dieta equilibrata e la dieta mediterranea è certamente la più equilibrata. La dieta mediterranea è varia, ma il peso degli ingredienti deve essere particolarmente a favore della frutta, dei vegetali, di carni bianche, del pesce e meno spinta verso le carni rosse, i grassi e alimenti di questo tipo”. Quando si parla di stile di vita, osserva Iliceto, ci si riferisce come si è visto anche all’ambiente: vivere in un ambiente inquinato, infatti, può contribuire ad aumentare il rischio cardiovascolare. Un articolo pubblicato su Nature pochi mesi fa, per esempio, si concentra su questi aspetti, evidenziando che l’inquinamento atmosferico è il più importante fattore di rischio cardiovascolare ambientale.  

L’importanza dell’esercizio fisico, poi, è stata indagata dall'European Heart Network, in collaborazione con l'Ufficio europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili dell'Oms, che ne hanno riferito nel rapporto Physical activity policies for cardiovascular health 2019. Ebbene, l’indagine dimostra che la sedentarietà aumenta il rischio di contrarre malattie cardiovascolari di oltre il 20%. Nonostante ciò, si stima che in Europa il 25% delle donne e il 22% degli uomini non pratichino attività fisica. Le linee guida del 2016 dell’European Society of Cardiology, invece, raccomandano – alle persone sane di tutte le età – di eseguire almeno 150 minuti a settimana di attività fisica di intensità moderata o 75 minuti a settimana di attività fisica ad alta intensità (o una combinazione equivalente), distribuiti uniformemente durante la settima su quattro, cinque giorni (meglio ancora se l’esercizio è quotidiano).

Cambiare abitudini e stili di vita incide, dunque, positivamente sulla salute dell’apparato cardiovascolare (ma non solo). Si prenda, per esempio, il fumo di sigaretta: quando si smette di fumare, la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna diminuiscono entro 20 minuti, il monossido di carbonio nel sangue scende a livelli normali in 12 ore, la circolazione migliora in 2-12 settimane. Un anno dopo aver smesso, il rischio di malattia coronarica è circa la metà rispetto a quello di un fumatore e dopo 15 anni il rischio è quello di una persona che non ha mai fumato.

Merita qualche osservazione, infine, l’impatto che ha avuto la pandemia nella gestione di pazienti con patologia cardiovascolare. Stando ai dati riferiti da Quotidiano sanità, durante la prima ondata pandemica, un cardiopatico su due ha evitato i controlli per paura del contagio o per liste d’attesa troppo lunghe. La tendenza, infatti, è stata di posporre a un momento migliore l’analisi della propria situazione clinica, con la conseguenza però che i medici hanno rilevato successivamente dei quadri clinici di gran lunga più severi rispetto alle condizioni standard che erano state osservate nel tempo, fino a quel momento: “Avendo noi la possibilità di analizzare dati relativi ai numeri, alla quantità, ai flussi, alla tipologia di patologie – osserva Iliceto – ci siamo resi conto che il malato aveva avuto paura di andare in ospedale, e si era tenuto il dolore o il problema fintantoché non era più dilazionabile. Ciò ha causato però l’aggravarsi della patologia, per il semplice fatto che gli interventi precoci, che in quasi tutte le malattie sicuramente attenuano la severità della malattia, non erano stati messi in atto”. E aggiunge il docente: “Nell’epoca Covid, il problema è serio.  Non è facile consigliare di andare in ospedale, perché gli ospedali tendenzialmente vanno verso la saturazione. Uno dei grandi problemi di quest’ultimo anno, infatti, non è solo la cura degli individui che si ammalano di Covid-19, ma anche l’assistenza a coloro che, pur non avendo contratto il virus, hanno bisogno di avere accesso a un ospedale dove, invece, una grossa fetta delle risorse umane e logistiche e degli spazi viene spostate da quella che è la tradizione verso l’emergenza in cui viviamo".

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