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In Salute. Operare il bambino nel grembo materno: le frontiere della chirurgia fetale

Operare il bambino finché è ancora nel grembo materno: è la grande svolta degli ultimi anni nell’ambito della chirurgia pediatrica, che permette di minimizzare gli eventuali danni di una patologia al momento della nascita o addirittura di salvare la vita del nascituro.  

Di chirurgia fetale abbiamo parlato con Ernesto Leva, direttore della Chirurgia pediatrica del Policlinico di Milano, responsabile del Centro di riferimento per la chirurgia perinatale e co-autore di due articoli scientifici pubblicati in questi mesi sul New England Journal of Medicine, dal titolo Randomized Trial of Fetal Surgery for Severe Left Diaphragmatic Hernia e Randomized Trial of Fetal Surgery for Moderate Left Diaphragmatic Hernia: gli studi in questione, condotti da esperti internazionali di chirurgia fetale, di terapia intensiva neonatale e di chirurgia pediatrica, confermano la validità di una tecnica chirurgica denominata Fetoscopic endoluminal tracheal occlusion (FETO) e utilizzata sul feto per il trattamento dell’ernia diaframmatica. Uno degli interventi possibili, quando il bambino è ancora nell’utero della madre. 

“Quando si parla di chirurgia fetale - spiega Ernesto Leva -, si intendono tutte quelle procedure che possiamo condurre sul feto quando è ancora nel grembo materno. Ciò significa che abbiamo la possibilità di intervenire sulla donna, ma in realtà andando a lavorare dentro l’utero e quindi direttamente sul bambino. È una disciplina che ha avuto i primi sviluppi all’inizio degli anni Duemila. In questi 20 anni sicuramente sono stati fatti molti progressi. All’inizio si era molto focalizzati sul feto, oggi invece sulla coppia mamma-feto, per cui le procedure  che noi scegliamo, spesso portano un beneficio al feto, ma nel rispetto della salute materna, oltre che della salute fetale ovviamente”. 

Intervista a Ernesto Leva, direttore della Chirurgia pediatrica del Policlinico di Milano, responsabile del Centro di riferimento per la chirurgia perinatale. Riprese e montaggio di Barbara Paknazar

Il docente spiega che sono diverse le patologie su cui si può intervenire chirurgicamente, ma quelle che vengono più frequentemente trattate al Mangiagalli Center del Policlinico di Milano sono proprio l’ernia diaframmatica e la spina bifida. Ogni anno un bambino ogni 4.000 nasce con ernia diaframmatica: il mancato sviluppo o lo sviluppo incompleto del diaframma causa la fuoriuscita degli organi addominali che tendono a svilupparsi nella cavità toracica, comprimendo in questo modo i polmoni e compromettendone il corretto sviluppo. “Trattare l’ernia diaframmatica in epoca fetale significa entrare con uno strumento nella trachea del bambino, posizionare un ‘palloncino’ che impedisce il deflusso del liquido che viene accumulato nei polmoni,  stimolando in questo modo la crescita del polmone. Soprattutto nelle ernie più severe, in cui (i feti ndr) avevano una sopravvivenza intorno al 15%, con questa tecnica oggi siamo passati a una sopravvivenza di circa il 50%”. Il palloncino poi, dopo essere rimasto posizionato poco sotto alle corde vocali per circa sei settimane, viene rimosso con un secondo intervento intorno alla 34esima settimana di gestazione, così da liberare le vie aeree prima della nascita. 

La spina bifida è invece una malformazione congenita dovuta alla chiusura incompleta di una o più vertebre, che compromette anche il midollo spinale e può causare disabilità, paralisi e disturbi neurologici, quando non risulta addirittura fatale. “A causa di questa patologia - spiega Leva -, il midollo rimane esposto al liquido amniotico. Ci sono studi che hanno dimostrato anni fa  che il contatto del liquido amniotico sul midollo causava gravi danni e quindi la possibilità di intervenire, già in epoca fetale, dava un miglioramento in termini di motilità degli arti dei bambini. Questa seconda tecnica non è una tecnica curativa, non guariamo la malattia, ma sicuramente facendo un trattamento fetale l’outcome di questi bambini  è migliore, motivo per cui abbiamo scelto di iniziare con questa procedura”. Il docente spiega che ci sono differenti metodiche di intervento: “Nel nostro centro - e siamo tre in Europa a farlo - utilizziamo una tecnica mininvasiva, cioè non apriamo l’utero materno, ma entriamo con dei piccoli strumenti nell’utero, lavorando sul difetto per andarlo a correggere. Il vantaggio è che i rischi materni sono molto bassi: quindi la nostra scelta di adottare questa tecnica, che è sicuramente più impegnativa rispetto alla tecnica aperta, ha il grosso vantaggio che il rispetto per la salute materna è estremo”. 

I chirurghi, dunque, operano attraverso un costante monitoraggio ecografico, raggiungono la colonna vertebrale e riparano il danno causato dalla patologia. In questo modo si cercano di minimizzare i danni di una malattia che può compromettere la qualità di vita del bambino, o addirittura salvare la vita a bimbi che altrimenti potrebbero anche non nascere. 

“Con queste tecniche mininvasive che utilizziamo i rischi per la salute materna sono ridotti al minimo. C’è sicuramente un rischio fetale  e il grosso problema con cui ci dobbiamo interfacciare sempre è la prematurità, quindi sono bambini che a volte nascono prima del termine della gravidanza. Soprattutto in caso di ernia diaframmatica, però, questa prematurità comunque viene compensata dagli outcome favorevoli che queste procedure ci danno, quindi anche un parto prematuro a 34-35 settimane è accettabile, rispetto a quello che altrimenti sarebbe l’outcome di questi bambini senza trattamento fetale”.  

Il professor Leva si sofferma sul numero di interventi che vengono eseguiti ogni anno: “Nel caso di spina bifida purtroppo c’è un alto tasso di abortività, quindi le coppie che scelgono di continuare una gravidanza  quando viene fatto questo tipo di diagnosi sono  intorno al 3%. In questo 3%, però, poter offrire un trattamento fetale sicuramente è un vantaggio per i bambini. L’ernia diaframmatica invece è una patologia più frequente, trattiamo feti da tutta Italia e mediamente nel nostro centro facciamo intorno alle 20 procedure all’anno. Tre o quattro all’anno sono invece i casi di spina bifida su cui interveniamo”. Il docente pone in evidenza, infine, l’importanza della collaborazione multidisciplinare tra le varie figure coinvolte che vanno dall’ostetrico al ginecologo, al chirurgo pediatrico, fino all’anestesista, al ginecologo, al neonatologo: “Nel momento in cui si approccia questo tipo di chirurgia, è molto importante aver ben chiaro il concetto che non è una procedura  del chirurgo, ma una procedura del team”. 

 

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