CULTURA

Salvatore Lombino, Evan Hunter, Ed McBain: un autore da riscoprire

Non c’è alcuna ricorrenza da celebrare, un anniversario significativo di nascita o di morte, una edizione o riedizione di particolare impatto, una notizia odierna di collegamento. Si tratta di un cold case, chi può e vuole dovrebbe riesumarlo, è una lettura da fare, prima o poi. Per suscitare forse un iniziale interesse e qualche curiosità potremmo provare a definirlo il caso (freddo) di Salvatore Lombino in Basilicata, di Evan Hunter a Venezia, di Ed McBain nel noir. Eppure, Salvatore Lombino non nacque in Basilicata né in Italia, Evan Hunter non era a Venezia nel 1956 quando doveva essere presentato il film tratto dal suo romanzo, Ed McBain è uno pseudonimo divenuto invero celeberrimo per romanzi più di genere giallo e poliziesco che per il noir. Fatto sta, semplicemente, che si tratta della stessa persona, nata Lombino il 15 ottobre 1926 e morta Hunter il 6 luglio 2005, perlopiù conosciuta al mondo dal 1956 al 2021 (e parecchio oltre, ipotizzo) come McBain.

Salvatore Albert Lombino è un americano nato a New York, vissuto neonato con la famiglia d’origine a Manhattan (poi nel Bronx dodici anni), divenuto ricco e famoso con un altro nome e cognome, risiedendo sempre sul lato orientale degli Stati Uniti (Connecticut e Florida oltre a New York). Tre nonni su quattro erano italiani. Il padre della madre si chiamava Giuseppantonio Coppola ed era nato in Basilicata, a Ruvo del Monte in provincia di Potenza. Emigrò a fine Ottocento, fra i tanti italiani che in quei decenni fecero la stessa scelta. Nel 1974 è uscito negli Stati Uniti il romanzo autobiografico del nipote Lombino-Hunter-McBain (allora quasi 48enne) che ricostruisce la vicenda dell’emigrato di prima generazione, il comune lucano nell’estate 2019 ha coraggiosamente promosso l’ottima traduzione da parte di Giuseppe Costigliola e l’edizione italiana del testo. Si chiama “Le strade d’oro” (Streets of Gold, Hui corporation 1974), è dedicato appunto al nonno, narrato in prima persona in forma romanzata e jazzistica dal nipote cieco 48enne Dwight Ike Jameson (nome cambiato all’anagrafe nel 1955), e racconta l’emigrazione di Pietro Bardoni dal paese di Fiormonte, in fuga dalla filossera che aveva colpito le vigne, per immigrare verso strade che potevano forse essere lastricate d’oro.

L’Italia ha una lunga storia multidirezionale di migrazioni. In media, fra gli italiani emigranti circa un terzo sono successivamente tornati in Italia, mentre due terzi si sono definitivamente stabiliti all’estero (65%). A fine Ottocento una delle mete principali erano gli Stati Uniti d’America, tanti con rotta New York (passando per Ellis Island). I Lombino vi si trasferirono per sempre, il padre di Salvatore era un postino, la mamma (seconda generazione) non volle che il figlio (terza generazione) imparasse l’italiano, nemmeno a casa: ormai si consideravano americani e tali andavano riconosciuti da tutti, era ormai lì che si giocavano oneri e onori della vita quotidiana. Salvatore aveva fatto il servizio militare in marina, si era poi iscritto alla principale scuola pubblica di arti varie, ben presto iniziò a sperimentare narrazioni e generi, insegnò per mantenersi e, appena poté, cambiò il proprio nome all’anagrafe americana (come il suo alter ego letterario), divenne Evan Hunter. Ottenne un grande successo con il romanzo The Blackboard Jungle (in cui raccontò anche il proprio apprendistato di quegli anni), un plot subito adocchiato dalle produzioni cinematografiche intelligenti.

In Italia sono uscite varie edizioni. Il romanzo giunse, però, dapprima come un film. Era stato selezionato per il concorso della XVI Mostra di Venezia del 1955, senza avere ancora un titolo italiano: si parlava di “Giungla della scuola” o letteralmente di “Giungla della lavagna”, ed era ispirato a fatti realmente accaduti! All’ultimo momento l’invito fu ritirato: era intervenuta addirittura la censura e il divieto da parte dell’ambasciatrice americana in Italia Claire Booth Luce, per evitare un’immagine traviata e autoritaria del proprio paese. La produzione lo presentò il successivo 11 settembre al festival inglese di Edimburgo, e il clamore della notizia favorì poi un positivo apprezzamento della critica e del pubblico nelle sale italiane. Il romanzo era uscito alla fine del 1954 con grande successo da Simon and Schuster (al quale Hunter aveva mandato un’anteprima intitolata “The Tiger Pit”, un verso di T.S. Eliot, citazione d’apertura dell’opera finita); l’autore aveva 28 anni, ed era riuscito a pubblicare fino ad allora solo testi “minori”. Vendette cinque milioni di copie e la immediata trasposizione cinematografica (quando il volume era ancora in bozze ed era uscito a puntate in un periodico).

Il rapporto fra il giovane Hunter e l’esperto regista Richard Brooks finì in tribunale, ma il differente approccio (con gli stessi personaggi, identici nomi, simili trame ed eventi) tra romanzo e film non condizionarono il giudizio (per lo più ottimo) sulle due distinte produzioni intellettuali. Gli attori principali del film erano Glenn Ford (l’insegnante bianco) e Sidney Poitier (lo studente nero caporione bravo); la memorabile colonna sonora si incentrava, fin dai titoli di testa, su “Rock Around the Clock”; e quattro furono le candidature agli Oscar 1956, inaugurando così i pessimi rapporti fra l’Hunter sceneggiatore e il cinema (ricordate Gli uccelli di Hitchcock?) o la tv (ricordate Hill Street giorno e notte?). Il romanzo invece uscì per la prima volta in italiano pochi mesi dopo il film, nel marzo del 1956, in una celebre ambiziosa collana degli Editori Riuniti in formato tascabile (563 pagine, lire novecento), 5.000 copie vendute, 5 ristampe.

Siamo a New York durante l’anno scolastico 1953-54. Si tratta del primo anno in un istituto professionale americano per un giovane professore d’inglese. Richard Rick Dadier ha studiato nel Bronx (l’Hunter College), da due anni è sposato con Anne, dalla quale aspetta un figlio; vive nel Bronx e viene assunto dalla North Manual Trades High School. Tra metà settembre e metà gennaio viene iniziato alla impossibile didattica in un sistema scolastico malato: “il nostro lavoro consiste nello stare seduti sul coperchio di questo secchio di mondezza e badare che la sporcizia non ne esca e si riversi nelle strade”. In quel tipo di scuole molti ragazzi (quasi tutti neri) non sanno leggere, non vogliono imparare, lavorano dopo le lezioni, sono violenti. L’istituzione svolge altre funzioni: quali, perché, chi lo ha deciso, ne hanno informato (o formato) gli insegnanti? Dadier lo impara a sue spese. Lui è alto e sottile, segaligno, nervoso e indulgente, bianco. Ha fatto a botte nel quartiere e a cazzotti in marina. Ha recitato all’università e sperimenta “tutto” per principio: assomiglia molto al poco più vecchio autore Evan Hunter, la narrazione è in terza sul protagonista, raramente su chi sta per incontrare.

Il romanzo The Blackboard Jungle è diviso in tre parti: le prime due si chiudono sull’intenso rapporto matrimoniale, con affettuosi quadretti; il terzo, più breve, in sala insegnanti negli ultimi giorni di scuola. Il fenomeno della violenza giovanile e razziale è sullo sfondo, il riferimento è più a una condizione di disagio sociale che a deviazioni comportamentali (anticipando così il successivo filone di indagine sociologica o, più recentemente, i diversi somari di Pennac): la didattica è dal vivo, è la vita, ovvero paure dubbi errori successi di una “prima volta” dell’insegnamento. Se Hunter è diventato McBain lo si deve proprio al grande successo del romanzo del 1954: gli editori chiesero all’autore una serie basata su un eroe fisso, lui innanzitutto scelse uno pseudonimo.

Ed McBain è autore soprattutto di due serie di gialli: la prima con un protagonista collettivo, i poliziotti dell’87° distretto, innovazione cruciale nella letteratura di genere; la seconda, iniziata molto tempo dopo, ambientata in Florida con protagonista un avvocato (Matthew Hope, 13 romanzi 1978-1998). Non discettiamo qui su come nacque lo pseudonimo, sono note ricostruzioni e leggende, forse c’entrano anche il periodo militare in marina e Dashiell Hammett. Concentriamoci sulla magnifica serie poliziesca. Dell’87° distretto sono usciti circa 55 romanzi e molti racconti (poi ci sarebbe da aggiungere qualche gioco letterario dell’autore con il proprio pseudonimo). Se li avete letti teneteli in biblioteca a disposizione (vostra e altrui), se non li avete letti forse è ora di cominciare, avendone tempo e opportunità.

Hunter rifletté a lungo con lungimiranza sulla serie di romanzi di genere per cui aveva stipulato il contratto: scelse innanzitutto e definitivamente uno pseudonimo hard-boiled; inventò l’eroe collettivo, ovvero propose non un singolo “eroe” protagonista ma i tanti poliziotti di un’ampia squadra, a coppie di due (non proprio e sempre fisse, causa turni e vicende personali); ben presto provò a far morire quello di origini italiane, ovviamente (Steve Carella), ma editori e lettori glielo impedirono; ne “caratterizzò” di ogni origine nel melting pot metropolitano per fotografare la realtà e allargare i potenziali lettori; ne “caratterizzò” di bravi e somari, buoni e cattivi, belli e brutti, macchiette ed esempi; lavorò molto su nomi e dinamiche di coppie, talora inserendo rilevanti figure femminili, relazioni extra-lavoro, competizioni e gelosie; utilizzò inserti di alta letteratura nello schema del romanzo con cadavere nelle prime pagine; via via introdusse il cattivo seriale (il Sordo, quasi sordo davvero, in tutte le lingue), giochi di parole e coi lettori seriali, anagrammi e rimandi culturali; aggiornò le trame all’evoluzione della moderna violenta criminalità, sociale e familiare.

Del 1956 sono i primi tre romanzi avventura delle coppie di poliziotti dell’eroico distretto, firmati Ed McBain. All’inizio ne produceva tre l’anno, vendeva bene, guadagnava molto, poi circa uno l’anno accanto ad altre attività artistiche multimediali (talora con differenti pseudonimi o con il suo vero nome Hunter), qualche decennio dopo fu uno dei primi Italia a chiedere di andare in libreria con rilegatura invece che in edicola col settimanale della Mondadori. Ne sono, comunque, usciti più di uno l’anno, alcuni capolavori, tutti di ottima fattura: inizio con un assassinato, trame ingegnose e originali imperniate su realistiche procedure di polizia e sul contesto metropolitano, sempre alta letteratura senza genere. L’ambientazione è originale e divertente: per avere maggiore libertà nella trama di ciascun romanzo McBain trasforma Manhattan e New York in Isola e La Città, ruotate di 90 gradi (tutti e cinque i “quartieri”) rispetto all’originale; parla delle dinamiche biologiche e naturali di un’isola, delle dinamiche antropologiche e sociali di un’isola carcere e delle dinamiche evolutive di personaggi letterari che crescono poco (vanno a stagioni, circa ogni 4 anni ne invecchiano uno). Si tratta di una grande epopea gialla e nera, epica e avvincente, documentata e intelligente.

Nella seconda metà del Novecento l’autore ha conquistato milioni di entusiasti seguaci in quasi tutto il mondo. Se ne è parlato recentemente al Urbinoir 2021 (dovrebbero uscire gli atti entro l’anno). La letteratura italiana, non solo di genere, deve molto a Lombino-McBain-Hunter: per esempio Giancarlo de Cataldo ha poi rielaborato in parallelo il cattivo collettivo della Banda della Magliana narrata in Romanzo Criminale; per esempio Maurizio De Giovanni vi si è ispirato per l’eroe collettivo dei Bastardi di Pizzofalcone a Napoli e ha ben curato la recente riedizione di qualche romanzo; per esempio Robecchi ha chiamato Carella uno dei due poliziotti seriali dei suoi romanzi milanesi con Monterossi; si potrebbero fare innumerevoli altri esempi, anche nella migliore critica (Antonio D’Orrico lo cita di continuo in modo circostanziato e ammirato). Non vale solo da noi: scrittori di ogni lingua e paese lo riconoscono come maestro (da Henning Mankell a Fred Vargas, da Deon Meyer a Jo Nesbø).

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012