CULTURA

Ma Shakespeare era veramente un genio?

Ciclicamente vengono fuori delle ricerche che, in modo più o meno efficace, cercano di dimostrare che Shakespeare non ha scritto parte delle sue opere, che ha plagiato altri autori e che, in fin dei conti, non fosse così geniale come ce lo figuriamo. L’ultima indagine tira in ballo l’intelligenza artificiale: in uno studio apparso su arXiv, Petr Plecháč, ricercatore dell’Accademia di Scienze di Praga, è riuscito a stabilire con precisione quali parti dell’Enrico VIII fossero di Shakespeare e quali invece di John Fletcher, raccogliendo alcune opere dei due autori e confrontandole con l’Enrico VIII tramite un programma di machine learning.

“Questo si sapeva già, – commenta Rocco Coronato, docente di letteratura inglese all’università di Padova – i numeri hanno confermato ciò che i letterati avevano capito a naso. Già dall’Ottocento, infatti, tutte le prefazioni dicono che l’opera è più di Fletcher che di Shakespeare.” In effetti l’idea che Shakespeare non fosse l’unico autore dell’Enrico VIII lo aveva ipotizzato James Spedding e ora l’algoritmo non solo conferma l’ipotesi, ma spiega anche in quali punti dell’opera i due drammaturghi si sono scambiati la penna.

In passato Shakespeare era stato trattato come l’ultimo degli studenti indisciplinati: Dennis McCarthy e aveva inserito alcune delle sue opere nel programma antiplagio open source WCopyFind, che veniva usato per individuare gli studenti che copiavano. Da qui era emersa una nuova fonte, di cui si trovava traccia in undici opere del Bardo, tra cui Re Lear, Macbeth, Riccardo III e Enrico V: era un breve testo del Cinquecento faticosamente ritrovato alla British Library dal titolo Breve discorso sulla ribellione e sui ribelli, di George North, che era stato ambasciatore in Svezia per la regina, nonché traduttore delle Vite di Plutarco. McCarthy è stato molto criticato per questa ricerca, in quanto studioso autodidatta (si è sempre occupato di statistica computazionale e mai di filologia, e non si è mai laureato nemmeno in informatica), ma non si può negare l’importanza di una fonte mai individuata prima, che continua a tornare in più opere shakespeariane: secondo David Bevington, professore emerito di studi umanistici all'Università di Chicago, gli unici autori più citati sarebbero Holished, Hall e Plutarco. Oltre a questo, la co-autrice del libro di McCarthy, June Schlueter, è professoressa emerita di inglese al Lafayette College in Pennsylvania e fondatrice della rivista accademica Shakespeare Bulletin e ha definito McCarthty l’equivalente shakespeariano di Steve Jobs.

Non si parla solo di linguaggio, ma di interi personaggi che passano da North a Shakespeare, come Jack Cade di Enrico VI e il Matto di Re Lear, che recita una profezia attribuita a Merlino che non era mai stata rintracciata, ma che appare invece nel Discorso di North. In questo caso, però, anche David Bevington era stato più cauto, e aveva rilevato che quei temi si potevano riscontrare anche in altre opere contemporanee. Trovare nuove fonti, comunque, è sempre una bella conquista, visto che gli studiosi tendono a pensare che ormai quelle di Shakespeare siano già state tutte individuate.

Il problema, però, nasce quando si smette di parlare di “fonti” e si comincia a parlare di “plagio”, che invece è un concetto molto più moderno. “All’epoca – spiega Coronato – il nome dell’autore di un’opera teatrale non veniva nemmeno inserito nei frontespizi. I testi teatrali, tra l’altro, non venivano nemmeno considerati vera e propria letteratura ma più che altro artigianato artistico. Molte opere erano scritte in collaborazione tra più autori, con un meccanismo analogo a quello usato dagli sceneggiatori di oggi: alcuni sono più bravi nelle parti sentimentali, altri nelle parti comiche: si mettono insieme e creano il prodotto finale. Da notare che il teatro dell’epoca era una vera e propria impresa commerciale: la sceneggiatura doveva funzionare sulla scena e quindi un testo veniva modificato dalla compagnia a seconda di come andava la rappresentazione, veniva stravolto, rivisto, riscritto, recuperato anni dopo, all’occorrenza lo si riscriveva da capo secondo le mode.”

Shakespeare è stato il primo autore teatrale il cui nome comparve sul frontespizio. Anche all’epoca era straordinariamente popolare e sia a inizio carriera che alla fine aveva collaborato con altri autori. “Era un po’ come un’attività di bottega – spiega Coronato – tu arrivavi e qualcuno ti insegnava il mestiere, e poi tu lo facevi a tua volta. Andò così con Fletcher, che lo sostituì all’interno della sua compagnia teatrale. Lavorare a quattro mani era assolutamente normale. Tra l’altro, oltre a non essere considerato plagio il lavoro sulle fonti, non possiamo nemmeno paragonare il concetto di originalità con il nostro: era più simile a quello della letteratura medievale, in cui era normale attingere alle fonti senza attribuzione.”

Non per questo bisogna considerare Shakespeare meno geniale, spiega Coronato: “Dalle fonti storiografiche, Shakespeare copiava metafore, i temi, le immagini i collegamenti tra idee, ma quello che ne viene fuori non si trova da nessun’altra parte. Il modo in cui si esprimono i personaggi non ha precedenti, indipendentemente dalle fonti usate. Nelle opere venivano inseriti luoghi comuni che venivano insegnati appositamente, anche Amleto ne è pieno, e riutilizzarli al bisogno era parte del lavoro di scrittura. Quello che ne trae Shakespeare, però, è assolutamente originale e non ha precedenti neanche nelle opere più alte.”

A fare la differenza tra un genio e un autore mediocre è il modo in cui utilizzano le stesse fonti. A volte può farci comodo pensare che Shakespeare sia un po’ meno Shakespeare, un po’ meno geniale, ma ci vuole del genio a “rubare” parole come faceva lui: “Bisogna rassegnarsi all’idea che Shakespeare era un genio anche se copiava e anche se era bravo negli affari” conclude Coronato. “Le fonti gli davano una sorta di aiutino da casa, ma accadeva lo stesso anche agli altri autori. Bisogna saper rubare, e lui lo faceva magistralmente.”

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