SOCIETÀ

Sudafrica. Nelle comunità più esposte ai disastri climatici aumenta il rischio di depressione

L’impatto negativo dei disastri ambientali sul benessere psicologico è stato ampiamente dimostrato e documentato nella letteratura scientifica degli ultimi anni. I cambiamenti climatici mettono a rischio la salute mentale globale in diversi modi, tant’è vero che alcune studiose di climatologia e psicologia ambientale hanno recentemente lanciato un appello perché le ripercussioni psicologiche della crisi climatica diventino oggetto di valutazione nei futuri rapporti IPCC. Moltissimi giovani in tutto il mondo sperimentano infatti i sintomi della cosiddetta ecoansia (o ansia climatica) o del lutto ambientale e, in alcuni casi, arrivano addirittura a mettere in discussione la decisione di avere figli a causa della preoccupazione per il futuro del pianeta.

Un articolo pubblicato recentemente su Plos climate riporta i risultati di un lavoro decennale condotto da alcuni studiosi dell’università di KwaZulu-Natal e finanziato dal programma di ricerca Sustainable and healthy food systems (SHEFS). Il primo autore Andrew Tomita e i suoi colleghi hanno indagato la relazione tra l’esposizione cumulativa al rischio comunitario e la prima insorgenza della depressione su un campione che comprendeva più di 17.000 abitanti del Sudafrica, che è uno dei paesi più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico in tutto il mondo. I risultati hanno dimostrato, in particolare, che alcuni gruppi sociodemografici corrono un rischio più alto di contrarre questo disturbo in relazione all’esposizione a disastri climatici: le donne, i cittadini di colore, le persone con un reddito inferiore alla media e quelle con un basso livello di istruzione.

I dati rilevati dal lavoro di Tomita e coautori dipingono un quadro particolarmente allarmante se pensiamo che il problema della siccità (menzionato anche nello studio) ha continuato ad aumentare dopo il 2017, anno in cui si è concluso il monitoraggio svolto degli autori. Il Sudafrica, infatti, sta attraversando un problema di scarsità d’acqua senza precedenti.

“Il lavoro svolto dai colleghi sudafricani è molto interessante soprattutto perché analizza l’aspetto cumulativo del disastro nel corso del tempo”, commenta Adriano Zamperini, professore di psicologia della violenza e psicologia del disastro sociale all’università di Padova e direttore del CIRSIM (Centro Interdipartimentale di Ricerca per gli Studi Interculturali e sulle Migrazioni) dello stesso ateneo. "Una delle principali problematiche che emergono dallo studio riguarda, in particolare, l’impossibilità di considerare le comunità umane separatamente dagli ambienti in cui vivono. Questo legame è già stato ampiamente rilevato e approfondito nella letteratura scientifica, ma è sempre necessario continuare a ribadirlo e a documentarlo poiché sembra che ci sia una certa “sordità collettiva” a riguardo. Dobbiamo sempre ricordare, infatti, che non esiste solo un ambiente “fisico”, naturale o urbano che sia, ma anche un ambiente umano, che riguarda la dimensione esistenziale e psicologica degli esseri umani ed è formato da quell’insieme di legami sociali e comunitari su cui si fonda la quotidianità”.

Il collasso della quotidianità

Come riflettono gli autori dello studio, un disastro climatico è tale quando ostacola o, addirittura, impedisce il regolare svolgimento della vita quotidiana di una comunità e la gravità dei danni causati supera la capacità di quella comunità di reagire e rimettersi in sesto. L'Africa subsahariana è particolarmente esposta al rischio di disastri climatici non solo perché la sua posizione geografica la rende una delle aree maggiormente soggette agli impatti devastanti del cambiamento climatico che nel corso dei prossimi decenni investiranno anche il resto del mondo, ma anche perché la sua capacità di mettere in atto adeguate strategie di resilienza è relativamente limitata.

“La questione del collasso della quotidianità emerge chiaramente nell’articolo”, sottolinea Zamperini. “Possiamo pensare al quotidiano come l’intero sistema di aspettative che nella nostra vita tende a rinnovarsi continuamente e quindi garantisce una prevedibilità dell’ambiente non umano rispetto a quello umano. I disastri, in questo frangente, oltre ad avere un grosso impatto economico e ambientale, poiché causano danni fisici a cose e persone, hanno anche il potere di minare il senso di sicurezza delle comunità, com’è stato ampiamente documentato nella letteratura scientifica nell’ambito della psicologia sociale e della epidemiologia.

Gli autori dello studio hanno individuato nella depressione un indicatore del collasso della quotidianità perché, al di là dell’aspetto più classificatorio e psicopatologico del disturbo, da un punto di vista esistenziale, gli individui che vivono in una comunità perennemente esposta ai disastri climatici tendono a ritirarsi in una postura depressiva: provano un senso di resa per la condizione in cui si trovano e, invece di reagire per cercare di difendersi e proteggere la quotidianità, ne subiscono passivamente gli effetti. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la capacità di resilienza di una comunità è alimentata da una sorta di “benzina psicologica” in cui gioca un ruolo chiave la speranza. La postura depressiva determina l’abbandono di ogni speranza e l’aumento del rischio percepito non fa altro che accentuare il senso di vulnerabilità delle persone e incrinare la loro resilienza.

Razzismo ambientale e ingiustizia climatica

Il professor Zamperini individua, inoltre, un’altra questione che emerge a più riprese nello studio, per quanto non venga menzionata esplicitamente dagli autori, e che ha a che fare con il razzismo ambientale. Il lavoro di Tomita e coautori, infatti, ha rilevato che i gruppi umani che già di per sé hanno un livello di vulnerabilità più alto corrono un rischio maggiore di sviluppare i sintomi della depressione rispetto al resto della popolazione.

“L’indagine svolta dai colleghi sudafricani evidenzia che le fasce di popolazione già socialmente ed economicamente svantaggiate subiscono ancora di più le conseguenze negative causate dall’esposizione comunitaria ai disastri climatici”, spiega il professor Zamperini. “Questo accade principalmente perché tali fasce di popolazione hanno più probabilità di vivere in ambienti insalubri e particolarmente vulnerabili agli effetti degli eventi metereologici estremi, come inondazioni, incendi e frane. Inoltre, non possiamo ignorare che proprio l’ingiustizia ambientale a scapito di molte popolazioni a livello globale intensificherà i flussi dei migranti ambientali provenienti soprattutto dai paesi dell’Africa subsahariana”.

Disastri naturali e antropogenici

“Infine, per quanto gli autori dello studio non facciano distinzione tra catastrofi naturali e disastri ambientali causati dall’azione umana, altri lavori di ricerca hanno dimostrato che le reazioni comunitarie a questi due tipi di eventi sono diverse dal punto di vista psicologico”, aggiunge il professor Zamperini.

“Nel caso in cui gli eventi disastrosi vengano percepiti come “naturali” o “inevitabili” da parte della popolazione (come, ad esempio, nel caso di un terremoto), dove la causa non viene ricondotta all’azione umana, i membri delle comunità tendono a sperimentare un senso di responsabilità distribuita. Al contrario, quando la percezione collettiva è che il disastro sia stato provocato da un’attività antropica (pensiamo, ad esempio, ai problemi dovuti all’inquinamento), il modo in cui le comunità vivono il disastro ha una connotazione diversa. In questo caso, il senso di spossatezza fisica ed esistenziale suscitato dall’evento avverso viene amplificato dalla sofferenza per l’ingiustizia subita. I gravi problemi causati dalla crisi ambientale non solo stanno ridisegnando la mappa geopolitica dei paesi a livello mondiale, ma stanno anche mettendo a dura prova, dal punto di vista psicologico, le popolazioni che vengono maggiormente colpite dagli eventi climatici estremi”.

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