SCIENZA E RICERCA

Terremoti indotti dalle attività umane: uno studio sulla mitigazione del rischio nella Val D'Agri

Alcune attività industriali collegate all’estrazione di gas e petrolio, alla realizzazione di dighe o allo sfruttamento di energia geotermica possono favorire lo sviluppo di terremoti. E’ infatti noto da tempo che sebbene nella maggioranza dei casi un sisma sia la conseguenza dei movimenti naturali che coinvolgono le placche tettoniche del nostro pianeta, ci sono anche eventi correlati ad attività antropiche. Sono quelli che vengono definiti terremoti indotti e alcune pubblicazioni scientifiche propongono un’ulteriore distinzione, introducendo anche il concetto di terremoti innescati: con questo ultimo termine si intende un sisma che si sarebbe verificato ugualmente, ma che è avvenuto prima del tempo in conseguenza delle attività umane.

Recentemente si è tornato a parlare di terremoti indotti a seguito delle due scosse che si sono verificate a Strasburgo, in Francia. La più elevata ha raggiunto una magnitudo di 4.4 e secondo la rete nazionale francese di monitoraggio sismico (Renass) si è trattato in entrambi i casi di eventi indotti, provocati dai test geotermici avvenuti nella centrale alsaziana di Fonroche e realizzati nell’ambito di un progetto che era cessato alla fine del 2020, proprio in seguito ad altri terremoti.

Negli ultimi anni diverse regioni del mondo hanno subito cambiamenti significativi nei modelli di ricorrenza dei terremoti a causa dell'iniezione di fluidi su larga scala. Quando l’obiettivo è lo sfruttamento di energia geotermica le sollecitazioni sono dovute alla stimolazione idraulica con l’immissione di acqua ad alta pressione. Nel caso si tratti invece di attività finalizzate all’estrazione di idrocarburi le acque reflue prodotte durante il processo sono poi smaltite nel terreno. 

Tra le aree maggiormente colpite dal fenomeno figurano l'Oklahoma negli Stati Uniti, il bacino del Sichuan in Cina e il bacino sedimentario del Canada occidentale. E secondo la United States Geological Survey americana, l’agenzia scientifica del governo che si occupa di studi sul territorio e rischi naturali, sono circa sette milioni le persone che vivono in zone esposte al rischio dei terremoti indotti. Nel 2016 la USGS ha elaborato una mappa del rischio sismico che per la prima volta include anche la sismicità di origine antropica e questo ha portato ad ampliare in modo considerevole le aree geografiche dove la terra potrebbe tremare.

Nei giorni scorsi uno studio pubblicato su Nature ha proposto un approccio multidisciplinare finalizzato alla mitigazione dei terremoti nella Val D’Agri, in Basilicata. L’area si trova in un bacino tettonicamente attivo ed è la maggiore riserva petrolifera d’Italia, definita da Eni il più grande giacimento onshore dell’Europa occidentale. L'estrazione è iniziata nel 1993 e dal sottosuolo di Viggiano e dintorni arriva oltre la metà del greggio prodotto nel nostro Paese. Lo smaltimento delle acque reflue è cominciato nel 2006 e ha portato a circa 300 piccoli eventi sismici entro 5 km dal pozzo, nel giro di 13 anni (fino al giugno del 2019 quando è terminato il lavoro dei ricercatori).

Mirko van der Baan, del dipartimento di Fisica dell’università canadese dell’Alberta, ricorda sempre dalle pagine di Nature, nella sezione News e Views, che “storicamente ogni secolo si verifica una media di circa quattro terremoti tettonici di magnitudo momento pari o superiore a 5,5 entro 100 chilometri dal sito di iniezione del fluido” e sottolinea quindi l’importanza di individuare quale velocità di iniezione possa essere considerata sicura, ovvero tale da non poter innescare un'attività sismica sostanziale.

Lo studio realizzato da un team di scienziati del Massachusetts Institute of Technology, delle università della California, del Texas e di Harvard e da un gruppo di esperti di Eni, ha cercato di rispondere a questa domanda costruendo due modelli 3D con cui effettuare simulazioni sulla base di parametri stimati e calibrati utilizzando molte fonti di dati, inclusi dati GPS, registrazioni delle pressioni dei pozzi e sismologia a riflessione. Inoltre hanno anche inglobato nei loro modelli informazioni su terremoti avvenuti in epoche passate, sulla struttura delle rocce e delle faglie e sulle condizioni del suolo sottostante.

I ricercatori hanno poi usato questo approccio per prevedere, da qui al 2025, la risposta sismica dell’area della Val D’Agri, a tre diversi tassi di iniezione di fluidi: 2.000, 2.500 e 3.000 metri cubi al giorno. La conclusione dello studio è che mantenendo tassi di iniezione a 2.000 metri cubi al giorno (una quantità pari a quella che ha caratterizzato finora le operazioni condotte in Val D'Agri) è possibile evitare l’innesco di terremoti di magnitudo elevata.

Abbiamo approfondito i risultati di questo lavoro insieme a Giulio Di Toro, professore del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova ed esperto di fisica dei terremoti. Secondo il docente si tratta "di un lavoro eccellente dal punto di vista scientifico" ed è "sicuramente solido per le valutazioni che vengono fatte sui primi 3-4 km di profondità, che è il livello su cui l'uomo sta intervenendo". E' infatti a quella profondità, spiega Di Toro, che è stato costruito il pozzo di Costa Molina. Tuttavia, osserva il docente, l'acqua che viene iniettata può migrare e "non sappiamo bene cosa accada più sotto", in profondità che sono associate a terremoti naturali di magnitudo molto più elevata rispetto a quella che caratterizza la sismicità di origine antropica. Inoltre le previsioni degli autori prendono come riferimento un orizzonte temporale limitato ma gli effetti di queste attività possono manifestarsi in tempi molto più lunghi. "Il problema di questo lavoro - afferma Di Toro - è che non esente da una forma di hybris dell’uomo, quasi una sfida sulla natura".

Il docente individua poi un secondo punto critico, rappresentato dal fatto che è la stessa Eni ad aver finanziato lo studio. Al momento della pubblicazione, precisa Di Toro, la collaborazione era terminata e gli autori, quando hanno presentato l'articolo ai revisori erano indipendenti, però "io credo che questi meccanismi debbano essere assolutamente corretti: non doveva essere Eni a pagare direttamente queste persone anche perché c’era un contratto con tutti i relativi vincoli", osserva l'esperto dell'università di Padova. 

L'intervista completa al professor Giulio Di Toro sui terremoti di origine antropica e sullo studio che si è concentrato sulle attività estrattive nella Val D'Agri. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

Quali attività umane possono indurre terremoti?

Prima di analizzare nel dettaglio lo studio che si è concentrato sulla sismicità indotta nella Val D'Agri abbiamo chiesto al professor Di Toro di illustrare attraverso quali attività umane possono portare allo sviluppo di terremoti. "Una di queste - spiega il professore del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova - è l’estrazione di rocce che cambia lo stato di sforzo e incide sulla modalità con cui le faglie si trovano ad essere caricate. Le rocce  sono come delle molle, caricano energia elastica e se l’uomo gioca con questa fase di carico, ad esempio con l’attività estrattiva in cava, può cambiare lo stato di sforzo e quindi eccitare terremoti".

Ci sono poi attività molto più impattanti per quanto riguarda la possibilità di scatenare eventi sismici. "Una - prosegue il docente - è la costruzione di dighe artificiali che induce notevoli cambiamenti per quanto riguarda le spinte e gli sforzi a livello della crosta terrestre. Da questo punto di vista un caso eclatante è avvenuto in India: si tratta di un terremoto che si è verificato nel 1967 a seguito della costruzione della diga Koyna, ha avuto una magnitudo di 6.1 ed è il più grande terremoto su cui vi è la certezza che sia stato generato dall’uomo".

Altre attività sono quelle collegate all’iniezione di fluidi nel sottosuolo o la loro estrazione. "L’iniezione - approfondisce Di Toro - è l’attività di cui tratta anche l’articolo pubblicato su Nature e vuol dire pompare sotto terra dei fluidi. In genere è acqua ma adesso l’uomo inietta anche CO2 per diverse ragioni, tra cui quella di diminuirne la concentrazione in atmosfera. Questi fluidi immessi sotto terra cambiano di nuovo lo stato di sforzo, cioè le spinte che agiscono in prossimità delle faglie. L’attività di iniezione può avere delle conseguenze gravi soprattutto se si tratta di acqua e tra gli eventi di questo tipo abbiamo avuto un terremoto indotto in Oklahoma dove è stata raggiunta una magnitudo di 5.7. Il motivo per il quale questa acqua viene iniettata sotto terra è che è troppo sporca o troppo salata e non può essere usata per l’agricoltura e tantomeno bevuta dall’uomo. Altri terremoti indotti sono poi quelli collegati all’attività estrattiva: viene estratto petrolio, mescolato ad acqua e gas, e anche questo implica un cambiamento nello stato di sforzo del sottosuolo. Infine ci sono terremoti specificatamente indotti dall’uomo: ad esempio per estrarre dei fluidi molto viscosi, sostanzialmente olio, vengono iniettate nel sottosuolo delle soluzioni, che sono anche molto inquinanti, con l'obiettivo di produrre delle fratture artificialmente. Lo scopo è aumentare la permeabilità di queste rocce e consentire ai fluidi viscosi di venire estratti. Questa attività si chiama idrofratturazione ed è nota anche come fracking". Sebbene questo processo tenda a indurre terremoti di piccole dimensioni, produce a sua volta quantità di acque reflue da smaltire che vengono poi immesse nel sottosuolo e questa pratica pone rischi più alti perché può portare a terremoti più grandi. 

"Altri scopi ancora - continua Di Toro - sono quelli della geotermia che implica l’iniezione di acqua fredda dalla superficie per farla diventare calda a una profondità di 2-3 km e riportarla poi in superficie per ottenere energia geotermica. Sono attività che, per essere svolte in sicurezza, richiedono una profonda conoscenza della risposta delle rocce e delle faglie quando vengono iniettati fluidi".

L'area della Val D'Agri

Negli ultimi anni la mappa del rischio sismico globale si è modificata in conseguenza dell'intensificarsi delle attività industriali che comportano un aumento della sismicità indotta. Sull'Oklahoma, un tempo considerata un'area a basso rischio sismico, adesso appare una macchia rossa che la porta ad essere equiparata alla California. Un altro esempio è l'India "una zona cratonica e senza terremoti e dove l’uomo li ha cominciati a indurre intervenendo con la costruzione di dighe, come nel caso dell’evento sismico del 1967", spiega Di Toro.

Nel caso della Val D'Agri, e in generale dell'Italia, occorre ancora più cautela perché parliamo di un'area che presenta già una sismicità naturale. Per quanto riguarda nello specifico la Val D'Agri "siamo nella parte meridionale dell’arco appenninico dove sono avvenuti dei terremoti storici, neanche tanto lontani nel tempo. Nel 1857 ce ne fu uno che ha raggiunto magnitudo 7 e nel 1915 ad Avezzano si verificò un sisma che raggiunse la magnitudo di 7.1. Siamo ai livelli massimi per quanto riguarda la dimensione dei terremoti italiani. L’ultimo terremoto importante, e non è molto lontano dalla Val D’Agri, è il terremoto dell’Irpinia del 1980 che raggiunse una magnitudo di 6.9 e provocò 3.000 vittime", ricorda l'esperto dell'università di Padova. 

"In questa area c’è una sismicità naturale e l’uomo giocando con i fluidi, quindi estraendoli e soprattutto iniettandoli, può cambiare i tempi di ritorno dei terremoti, abbreviandoli. Il problema riguarda in generale tutta l’Italia perché è un paese sismico. La differenza sostanziale è che i terremoti naturali di queste dimensioni nascono a profondità intorno ai 10 chilometri. L’uomo invece interviene molto più in superficie, nei primi 3-4 chilometri. I pozzi più profondi arrivano a cinque chilometri ma lì c’è soltanto attività estrattiva e in questo caso è quasi un bene perché ha diminuito la sismicità naturale dei piccoli terremoti. Quando invece l’uomo pompa fluidi, come sta facendo in alcuni pozzi della Val D’Agri, si innesca sismicità antropica indotta dall’uomo, ma in genere questo avviene tra i 2 e i 4 chilometri proprio perché i pozzi in quella zona sono stati costruiti a quelle profondità", approfondisce Di Toro.

Lo studio pubblicato su Nature: aspetti metodologici

L'obiettivo dello studio pubblicato recentemente su Nature era quello di analizzare quali volumi di acque reflue, iniettate quotidianamente nel sottosuolo della Val D'Agri durante le operazioni di sfruttamento delle risorse petrolifere, fosse necessario non superare per evitare il rischio di far aumentare la sismicità dell'area. L'approccio proposto dagli autori di questo lavoro rappresenta un notevole passo avanti rispetto alla metodologia utilizzata in precedenza.

"Finora - spiega Di Toro - per capire l’effetto delle attività umane sui terremoti si è misurata la quantità di fluidi iniettati sotto terra e si è andati a osservare quanti terremoti si sono verificati in quelle aree. Questo è però un approccio molto empirico, senza una chiara relazione di causa ed effetto e senza un modello che voglia comprendere cosa avviene. I due parametri di riferimento in genere sono la velocità di iniezione dei fluidi e il loro volume. In questo articolo si fa un notevole passo avanti perché gli autori studiano proprio la fisica dei terremoti costruendo un modello della geometria delle faglie. Le faglie sono queste strutture che producono i terremoti: grazie a tutte le attività di esplorazione che sono state fatte in Val D’Agri negli ultimi 30 anni si hanno molte informazioni sui  primi 4 chilometri del sottosuolo di quella zona. Si conoscono cioè le faglie principali, la stratigrafia, le rocce del sottosuolo, le loro proprietà elastiche e la loro permeabilità. Quest’ultimo, che rappresenta la maggiore o minore capacità di una roccia di farsi attraversare da un fluido, è un parametro essenziale perché un aspetto fondamentale è proprio capire come questi fluidi migrano dal pozzo dove vengono iniettati dall’uomo fino alle faglie che sono nelle vicinanze. Gli autori introducono anche leggi di attrito delle rocce, un ambito su cui siamo al lavoro anche qui a Padova, e che permettono di capire come si comportano le faglie quando scivolano. Inoltre tutte queste informazioni geologiche, sulle proprietà meccaniche e su quelle di attrito, sono state messe insieme in modelli numerici molto complessi. Un lavoro di questo genere non era mai stato fatto prima perché non c’erano tutti questi dati. In questo caso i ricercatori si sono avvalsi delle informazioni fornite da Eni che, insieme a Shell, è la compagnia che sta sfruttando questo giacimento enorme". 

I risultati dello studio e i possibili limiti

Dalla Val D'Agri proviene circa il 63% della produzione di petrolio del Paese con una media di oltre 60 mila barili estratti ogni giorno. "E’ un giacimento che vale qualcosa come 4 milioni di euro al giorno. Insieme a 10 mila metri cubi di petrolio vengono estratti anche gas, ma soprattutto c’è dell’acqua sporca che deve essere ributtata nel sottosuolo perché è troppo salata. Da diversi anni il volume di acqua che viene iniettato nel terreno a seguito di queste operazioni è di 2.000 metri cubi al giorno: si tratta di una quantità di fluidi che ha indotto solo all’inizio un po’ di sismicità quando si è cominciato a utilizzare un pozzo particolare che si chiama Costa Molina", spiega Di Toro.

"La sismicità che ha cominciato a manifestarsi nei dintorni di questo pozzo si è mantenuta costante fino poi quasi a scomparire. La domanda che si sono posti gli autori dello studio è se questo numero abbia un senso e dimostrano in vari modi che se questa soglia di 2.000 metri cubi al giorno non viene superata la sismicità dovrebbe essere sotto controllo, mentre se si arrivasse a una quantità superiore, come 2.500 o 3.000 metri cubi al giorno, ci sarebbero conseguenze in termini di aumento della sismicità indotta. Qui, a mio avviso, si apre qualche interrogativo perché le conclusioni degli autori sono senz’altro vere per quanto riguarda i primi 3-4 chilometri di profondità, che è il livello su cui l’uomo sta intervenendo".

"Ma - osserva il docente dell'università di Padova - ritengo che non sia del tutto chiaro dove finisca tutta l’acqua che viene iniettata e quello che può accadere più in profondità non lo sa nessuno. Il problema di questo lavoro è una forma di hybris dell’uomo, quasi una sfida sulla natura. E’ uno studio sicuramente solido per le valutazioni che vengono fatte sui primi 3-4 km ma non sappiamo bene cosa accada più sotto. Ormai questi fluidi sono stati pompati per oltre 10 anni: il terremoto del 2011 in Oklahoma, che ha avuto una di magnitudo 5.7, è stato generato dalla migrazione di fluidi da pozzi che erano a 20 km di distanza e dopo 25 anni di tempo. Sono tempi lunghi, anche se nulla dal punto di vista geologico. Noi cosa sappiamo bene della migrazione di questi fluidi al di fuori di questa piccola faglia che è stata studiata dai ricartaori? Il pozzo di Costa Molina arriva a una profondità di 3-4 km e riattiva terremoti che nascono in una faglia che è lì sotto e che è piccolina e quindi può generare terremoti di magnitudo non troppo elevata. Però intorno ci sono faglie molto più grandi che vanno molto più in profondità e sono quelle che in tempi passati hanno prodotto un terremoto di magnitudo 7. La prima domanda che avrei è proprio questa: cosa accade sotto e quali sono i modelli a lungo termine se continuiamo a pompare 2.000 metri cubi al giorno? L’acqua che viene iniettata dove va? Si sostituisce all’olio che è stato estratto oppure finisce anche da qualche altra parte? Più in profondità ci sono infatti le rocce serbatoio, che sono dei carbonati, di cui non si conosce neanche lo spessore esatto e le loro caratteristiche. Altre domande che mi sono sorte riguardano aspetti ancora più di dettaglio. Il modello riproduce come si deformano queste rocce e lo fa registrando la deformazione dal punto di vista sismico. Le rocce però si deformano anche senza produrre terremoti e questo è importante perché consente alle faglie di caricarsi come molle senza che noi ce ne accorgiamo. Questa componente di deformazione non è presente nello studio perché il modello proposto dagli autori si basa su dati osservazionali e quindi non riesce a vedere questi aspetti. Il motivo è che si tratta di una componente che è difficilissima da misurare in profondità. Il risultato è però che vengono studiati e discussi solo alcuni aspetti delle modalità in cui può essere generato un terremoto in profondità, anche indotto dall’uomo negli ultimi 3-4 km".

Per questo motivo "dire che iniettando 2.000 metri cubi al giorno non succederà mai nulla è un'affermazione che non avrei mai fatto perché conosciamo ancora troppi pochi aspetti della meccanica dei terremoti e della complessità delle faglie. Da questo punto di vista anche i modelli più raffinati hanno dei grossi limiti", conclude Di Toro.

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