UNIVERSITÀ E SCUOLA
Tornare a scuola: sì ma come? La costruzione delle scuole italiane
Riapriranno le scuole a settembre? Pare di sì. Ma anche se quanto dichiarato in diverse interviste dalla ministra dell'Istruzione Azzolina nei giorni scorsi sarà mantenuto, la vera domanda è se e come sarà possibile riaprire mantenendo le misure di sicurezza e distanziamento previste in tempi di Covid-19. Al momento, i ministri Azzolina e Speranza hanno congiuntamente dichiarato, come si legge sul sito del MIUR, che sono al lavoro per “consentire il rientro nelle aule in sicurezza a settembre. Il Comitato tecnico-scientifico, dopo aver definito il documento, presentato la scorsa settimana, relativo agli esami di Stato, è ora concentrato sul protocollo di sicurezza che guarda al nuovo anno scolastico.”
C’è un grande bisogno di riflessione, senz’altro, sulla cosiddetta DAD, la didattica a distanza, che ha caratterizzato queste settimane di lockdown totale e di chiusura delle scuole. E ci sono molti temi sul piatto: dall’effettiva opportunità e capacità di utilizzare la didattica digitale all’impatto sulla salute degli oltre 8 milioni di studenti delle scuole italiane, ragazzi di diverse età e fasi di sviluppo. Ma, per chi si occupa di edilizia scolastica il focus della riflessione è su come si possa immaginare di mettere in sicurezza un patrimonio edilizio che in sicurezza non è da molto, molto tempo. Sotto nessun punto di vista: sismico, norme antincendio, elementi non strutturali e tanto meno, per quanto riguarda ora la nuova necessità, disponibilità di spazio. Quello spazio che necessitiamo in abbondanza se vogliamo poter mantenere il distanziamento sociale, quella misura di prevenzione e limitazione del contagio che più di altre è necessaria ed efficace. La verità, come ben sa chi frequenta le scuole, è che lo spazio manca tanto che spesso le classi sono definite, più o meno scherzosamente, dagli insegnanti e dai ragazzi piccionaie, pollai, e via dicendo.
E come abbiamo fatto in passato?
La pandemia attuale è probabilmente un’esperienza quasi unica nella storia recente, non solo italiana. Per dimensione, per impatto economico, e sotto molti altri punti di vista. Ma non è la prima volta che in Italia ci si trova davanti a un’enorme sfida per quanto riguarda la scuola. E forse uno sguardo a come abbiamo ragionato e gestito la scuola nel corso della storia recente del nostro paese può essere di ispirazione per le decisioni che dobbiamo prendere adesso. In passato, certo, l’esigenza non era quella di distanziare, ma di alfabetizzare. E però, per riuscire a tagliare quel traguardo, sono state fatte vere e proprie maratone di messa a punto, costruzione e organizzazione di spazi scolastici. Una storia che a rimetterla insieme ora ci dice anche quanto la scuola sia stata tenuta in considerazione come elemento portante della nostra società e quanto, al contrario, negli ultimi decenni si sia scelto, più o meno consapevolmente, di non occuparcene quasi più.
Quanti anni hanno le scuole italiane. Partiamo dai dati: le scuole italiane sono vecchie. In qualche caso molto vecchie, secolari addirittura. Ma anche senza andare così indietro nel tempo, l’anagrafe scolastica pubblicata dal MIUR finalmente nel 2015 e parzialmente aggiornata negli anni successivi, dopo anni e anni di dilazione, ci aiuta a fare un po’ di conti.
In totale, all’anagrafe per l’anno scolastico 2018-19 risultano censiti e attivi come uso scolastico circa 45.430 scuole. Ci sono altre 13mila scuole censite che però non sono più destinate a uso scolastico.
Di quelle attive, non conosciamo la data di costruzione di più di un terzo, cioè ben oltre 16mila scuole in anagrafe non hanno una data di costruzione nota. Per le restanti 29mila invece ci sono sia la data di costruzione che in qualche caso anche quella di adattamenti e ristrutturazioni successive. Facendo un po’ di calcoli, come indicato nel grafico sottostante, vediamo che meno di un migliaio sono state costruite prima del 1920 e altre 2000 circa tra il 1920 e la fine della seconda guerra mondiale. Il grande sforzo costruttivo prende il via invece subito dopo la guerra, in parte perché molte città sono state bombardate e anche le scuole esistenti hanno subito enormi danni, e in parte perché è proprio nel secondo dopoguerra che la neonata Repubblica decide di alfabetizzare tutti i suoi cittadini. Molti ricordano le trasmissioni televisive del maestro Manzi e molte licenze elementari, ad esempio, sono state date anche grazie ai programmi educativi radiofonici. Ma sono davvero moltissimi gli italiani che siedono per la prima volta sui banchi di scuola. Negli anni ‘50 vengono costruite più di 3000 scuole, nei ‘60 il numero sale a più di 5000. Nel decennio successivo, gli anni ‘70, addirittura arriviamo a più di 7000. Anche nella decade degli ‘80 lo sforzo è notevole, e vengono costruite altre 5000 e più scuole. Dagli anni ‘90 i numeri scendono drasticamente: sono infatti circa 6000 in totale le scuole costruite nell’ultimo trentennio.
Nonostante, come detto, la data di costruzione sia assente per oltre un terzo delle scuole in anagrafe, c’è però un altro dato che invece può aiutarci a dare una stima dei periodi di costruzione. Vengono infatti indicate anche delle fasce di periodi costruttivi, come vediamo dal grafico qui sotto. Questo dato, per quanto poco preciso, permette almeno di capire quali scuole sono state costruite dopo l’approvazione delle norme antisismiche e di sicurezza introdotte dagli anni ‘70 in poi. Più della metà delle scuole italiane, però, risale a prima di quella data: il 13% (+6000 scuole) tra il 1945 e il 1960; il 30% (oltre 13.500 scuole) tra il 1960 e metà anni ‘70. Solo quattro scuole su dieci (le restanti più di 17mila) è stata costruita dopo il 1976 e, in ogni caso, gran parte di queste ultime hanno oggi più di 30 anni.
La lunga marcia contro l’analfabetismo: fatta l’Italia, nasce la scuola.
Fino alla seconda metà dell’800 gran parte delle lezioni scolastiche, per chi a scuola ci andava, si tenevano in edifici privati. Con l’Unità e poi lo sforzo di costruzione del Paese e di una identità nazionale, nasce anche una vera e propria edilizia pubblica scolastica. Il primo censimento, quello del 1861, dice che circa l'80% della popolazione femminile italiana era completamente analfabeta. Andava un po' meglio per la popolazione maschile, ma comunque nemmeno un uomo su due era in grado di firmare un atto ufficiale.
Quando leggiamo i dati dobbiamo anche capire i riferimenti precisi utilizzati all’epoca: a inizio '900 un analfabeta era una persona incapace di leggere. Si riteneva che chi non sapeva leggere non potesse essere in grado di scrivere. Dagli anni ‘30 in poi la definizione diventa più esplicita, ed è analfabeta chi non sa né leggere né scrivere. Gli alfabeti, che vediamo indicati nel grafico sottostante, sono dunque persone che hanno almeno la capacità di leggere un atto e di firmarlo.
Nel 1877, con l’introduzione della legge Coppino, diventa obbligatorio per tutti frequentare almeno tre anni di scuola, che diventano poi cinque nel 1904 con la legge Orlando. L’obbligo scolastico fino ai 14 anni viene introdotto con la riforma scolastica fatta da Giovanni Gentile nel 1923, che è rimasta lungamente il riferimento principale anche per i programmi della scuola italiana.
Il vero salto in avanti, comunque, è quello degli anni del II dopoguerra. Finalmente la Costituzione sancisce il diritto all’istruzione e l'obbligo scolastico gratuito di 8 anni (elementari e medie) con gli articoli 33 e 34. Infine, con la legge di riforma 1859/62 viene istituita la scuola media unica, obbligatoria e gratuita dopo la scuola elementare. Da quel momento, chiunque abbia un diploma di scuola media può anche accedere a tutte le scuole superiori.
I dati del Censimento del 1951 mostrano chiaramente che nella popolazione sopra i 6 anni, 13 persone su 100 analfabete, quasi 20 sanno leggere e scrivere ma non hanno alcun titolo di studio, 60 hanno la quinta elementare e solo 6 hanno completato la scuola media. Al diploma di scuola superiore erano arrivate poco più di 3 persone su 100, e solo una alla laurea. Già 10 anni dopo la situazione è migliorata, con circa 10 persone su 100 che hanno il titolo di scuola media. Il tasso di analfabetismo scende all’8%. Certo, i dati sono ancora indicativi di un paese che arriva a malapena al livello minimo di alfabetizzazione.
E da lì non si muove molto, nemmeno nei decenni successivi, visto che ancora al censimento del 2011 ci sono quasi un terzo degli italiani sopra i 6 anni con una licenza media. E non è perché il numero degli alunni ancora in età scolare pesi su questo dato. Se infatti prendiamo come riferimento la popolazione italiana tra i 18 e i 24 anni, indicatore utilizzato per ragionare di abbandono scolastico in diversi contesti di confronto internazionale, la percentuale media di italiani che ha solo un titolo di terza media è ancora oggi del 14%, con enormi differenze tra regione e regione, con punte, ad esempio in Sicilia e Sardegna, del 20%. Una persona su cinque. Un dato ancora molto grave.
Ma rimane indubbio che lo sforzo fatto negli anni ‘50 e ‘60 per portare il paese a un livello almeno accettabile di alfabetizzazione abbia dato i suoi frutti. Grazie anche a un massiccio impegno nella costruzione e organizzazione di spazi dedicati all’apprendimento.
Un secolo di edilizia scolastica
Per alfabetizzare migliaia, prima, e milioni poi di italiani, dall’Unità d’Italia in poi una specifica attenzione, per molto tempo, è stata posta sulla costruzione o il riadattamento di spazi adeguati, le scuole appunto. La legge Coppino del 1877 dà il via a un maggiore impegno degli enti locali nell’organizzazione del servizio scolastico, con specifici meccanismi di supporto alla spesa, sia sul fronte dell’edilizia che dell’arruolamento degli insegnanti. In questi anni si hanno anche le prime rilevazioni dello stato del patrimonio scolastico. Francesco De Sanctis, in qualità di Ministro della pubblica istruzione, presenta un disegno di legge che indica in sussidi e mutui i meccanismi per sostenere gli enti locali nello sforzo di migliorare il patrimonio edilizio scolastico, accompagnato da una analisi dello stesso che risulta molto allarmante anche all’epoca. Nonostante i meccanismi messi a disposizione, in termini di mutui e sussidi, e l’idea di utilizzare la neonata Cassa depositi e prestiti, sono pochi i Comuni che riescono a dare il via a una massiccia opera di costruzione.
Tra le città più impegnate su questo fronte c’è ad esempio Torino. Già prima dell’Unità nella città piemontese c’erano stati progetti avanzati di edilizia scolastica. Su una pagina specifica del proprio Museo della città, inaugurato a 150 anni dall’Unità d’Italia, Torino racconta la storia delle sue scuole. Ed è proprio lì che leggiamo che già a fine ‘800, nella città piemontese, si riteneva che una scuola dovesse ospitare, oltre alle aule per le lezioni, anche spazi per la ginnastica, la biblioteca, uffici e alloggi di servizio. Del 1879 sono le “Norme per la costruzione e l’arredamento degli edifici delle scuole municipali elementari” e il Municipio utilizza la neonata Cassa depositi e prestiti per avviare la costruzione di una ventina di nuovi edifici. Ma Torino, Roma con le sue “Prescrizioni pedagogiche ed igieniche per la costruzione di edifizi scolastici” e poche altre città rimangono casi piuttosto isolati e in generale l’edilizia scolastica non decolla.
Un altro momento di spinta arriva invece durante il ventennio Fascista. Non solo si punta a far studiare i bambini italiani, ma, in linea con la propaganda di regime, vengono date indicazioni molto precise sugli arredi, sull’adozione di un testo unico scolastico e su una serie di pratiche che devono essere attuate rigorosamente da tutte le scuole. In ogni scuola ci deve essere un crocifisso, il ritratto del re e quello del duce, la bandiera, cartelloni per l’insegnamento, carte geografiche, lavagne di ardesia, la cattedra, i banchi tipicamente di legno, su cui sedevano anche 2-3 persone. Le aule traboccano di studenti, dai 30 ai 40 e perfino 50 in qualche caso.
Nel corso della II Guerra mondiale molte scuole vengono distrutte. La ricostruzione, in tutto il Paese, è frenetica. C’è fame di aule, dappertutto. Ma c’è anche la consapevolezza di avere di fronte un paese povero e ancora profondamente analfabeta. Con la legge 1599/1947 viene istituita la “Scuola popolare” che, come recita il primo articolo, deve “combattere l'analfabetismo, per completare l'istruzione elementare e per orientare all'istruzione media o professionale. La scuola e' gratuita diurna o serale, per giovani ed adulti e viene istituita presso le scuole elementari, le fabbriche, le aziende agricole, le istituzioni per emigranti, le caserme, gli ospedali, le carceri e in ogni ambiente popolare, specie in zone rurali, in cui se ne manifesti il bisogno.”
Guarda il video di Rai scuola sulla lotta all’analfabetismo
Nelle città del Nord, poi, non è solo una questione di ricostruzione o di ma anche di far fronte a una nuova esigenza. Grazie all’enorme sviluppo industriale, città come Torino e Milano diventano anche meta di una massiccia immigrazione interna da Sud a Nord del paese. E se i genitori vanno in fabbrica o negli uffici, i figli devono andare a scuola.
Il numero degli studenti cresce rapidamente, le aule non bastano. Solo a Torino, ad esempio, nel decennio ‘60 si costruiscono un’ottantina di scuole tra elementari e medie. Ma il trend è lo stesso in molte altre città.
Si tirano su scuole in tutta velocità, si organizzano doppi turni, c’è chi frequenta la scuola la mattina e chi la riempie la sera. Le scuole sono grandi prefabbricati standard, non ci sono più gli intenti decorativi di inizio secolo e in molti casi sulla volontà di costruire ambienti belli e sani prevale quella di fare spazio per riuscire a educare un paese in gran parte ancora analfabeta, povero e reduce da una guerra molto distruttiva. E in effetti, molte di queste scuole non sono state costruite per durare così tanti decenni. E in molti casi, sono invece ancora lì, a svolgere con molta fatica un compito che forse non sono più adatte ad assolvere.
Gli anni ‘70 sono anche quelli del ripensamento del ruolo della scuola, dopo la riflessione complessiva innescata dal movimento di protesta del ‘68. Si ragiona sulle scuole aperte, sulla necessità di pensare a spazi che diano la possibilità di socializzare, oltre che di alfabetizzare. E che siano luoghi di gioco e creatività condivisa. E così, si sviluppa un’idea di scuola integrata nel quartiere, nella città. Per esempio, che includa impianti sportivi e altri servizi, come la biblioteca, che servano anche la comunità allargata e non siano esclusivi. Nascono in questi anni i primi Istituti comprensivi, che tengono insieme interi cicli scolastici, dalla materna alle scuole medie, dentro un unico edificio o in edifici attigui. E anche in questo periodo tocca, non di rado, di utilizzare moduli provvisori, aule improvvisate, prefabbricati aggiuntivi. Oppure, soprattutto nelle zone extra urbane, si utilizzando moduli mobili, che consentano eventualmente di poter riutilizzare quelle aule per altri scopi.
Negli anni ‘80, con il calo demografico che diventa costante, strutturale, non si ha più un problema di spazi. Ma di qualità. Molte delle scuole costruite nei decenni precedenti erano state progettate per tempi brevi, per assolvere a bisogni cogenti e immediati. Non hanno la struttura, la capacità di resistere al tempo. Inizia così il lungo declino del patrimonio scolastico. Messo in ginocchio da eventi drammatici, come i terremoti, e da eventi assai più banali ma purtroppo non meno tragici a volte negli effetti, come il distacco di controsoffitti, di cornicioni, di pezzi di tetto. Che si lasciano dietro strascichi anche molto seri, come ad esempio la morte di Vito Scafidi, studente di quarta superiore al Liceo Darwin di Tivoli, vicino a Torino, ucciso nel 2008 dal controsoffitto che si è abbattuto sulla sua classe durante un’ora di lezione.
Ripartire dall’Osservatorio edilizia e dall’Anagrafe per tornare a scuola oggi
Con la legge 23/1996, viene istituito un Osservatorio per l’edilizia scolastica italiana. Dopo l’iniziale insediamento, però, l’Osservatorio rimane di fatto congelato per oltre 20 anni. Dobbiamo arrivare al 2014 per vederlo riattivato. Ben oltre la scadenza dell’ipotetico monitoraggio della vulnerabilità degli edifici scolastici italiani avviato nel 2002, dopo il terremoto del Molise, nel quale crollò la scuola di San Giuliano uccidendo 27 bambini e un'insegnante. E ben dopo la promessa di riorganizzare e aggiornare l’anagrafe edilizia, rimasta ferma per anni, e finalmente pubblicata solo nel 2015, parzialmente, addirittura dopo un ricorso vinto al TAR del Lazio da parte dell’Associazione Cittadinanzattiva.
Oggi l’anagrafe è finalmente consultabile, con tanti buchi informativi ma anche tanti elementi utilissimi a capire lo stato del patrimonio edilizio scolastico nazionale. Certo, in gran parte dei casi sono le istituzioni locali, dai Comuni alle Province fino alle Regioni, che monitorano e gestiscono gli edifici scolastici. E qualcosa, poco, è stato fatto su alcune migliaia di scuole. Ma oggi, alla sicurezza strutturale, si aggiunge la necessità di garantire quella che potremmo definire epidemiologica. E se non si vogliono fare proclami vuoti e promesse del tutto vane, non si può dunque prescindere di partire da una conoscenza molto accurata dello stato delle scuole per capire come si possa renderle in grado di accogliere gli oltre 8 milioni di studenti che dovrebbero, da settembre, ripopolarle.