SOCIETÀ

Turchia, le elezioni-referendum pro o contro Erdoğan

Le elezioni presidenziali del prossimo mese in Turchia (il primo turno si terrà domenica 14 maggio) saranno di fatto un referendum sugli ultimi vent’anni di Recep Tayyip Erdoğan, pro o contro il presidente uscente: finisce sempre così quando un’intera nazione arriva a identificarsi con un solo nome, con un solo uomo. Leader islamista, figura politica controversa, amata e odiata dentro e fuori i confini nazionali, sempre più sbilanciato verso l’autoritarismo, assai incline al pugno di ferro, opportunista quanto scaltro, capace di giocare su più tavoli, di stringere accordi anche con i suoi peggiori nemici, mai remissivo, senza scrupoli nel reprimere il dissenso e l’indipendenza dei media e della magistratura, più volte accarezzato da “sospetti”, chiamiamoli così, di corruzione e di nepotismo. La novità è che questa volta il “Sultano”, come viene chiamato, non ha la vittoria in tasca. Anzitutto perché l’opposizione è molto meno frammentata rispetto al più recente passato. Poi perché una così lunga permanenza al potere (primo ministro dal 2003 al 2014, poi presidente fino a oggi) ha l’effetto di “personalizzare” qualsiasi difficoltà la nazione si trovi ad affrontare: a partire dalla crisi economica, con un’inflazione che ufficialmente continua a galleggiare oltre il 50%su base annua (nell’ottobre dello scorso anno l’indice era schizzato all’85,5%), ma i dati “non ufficiali” la collocano a più del doppio. E con una valuta, la lira turca, finita negli ultimi anni in una profonda spirale di deprezzamento(ha perso oltre il 70% rispetto al dollaro nell’ultimo anno). Ma anche la gestione del recente, devastante terremoto, che ha causato oltre 50mila vittime e un’interminabile scia di polemiche per i ritardi nei soccorsi, per il mancato rispetto delle norme di costruzione nelle zone sismiche, per l’indifferenza mostrata dal governo che nel 2018 aveva addirittura approvato un'amnistia per “sanare” le violazioni del codice edilizio su circa sei milioni di edifici, tirati su senza criterio, all’insegna del risparmio. Il professor Mustafa Erdik, tra i maggiori specialisti di ingegneria sismica della Turchia, aveva denunciato, parlando alla Bbc, l’incapacità del settore edilizio turco: «Ci aspettavamo danni con un terremoto del genere, ma non questo tipo di danni: con pavimenti accatastati uno sopra l’altro come frittelle. Il calcestruzzo di alta qualità deve essere rinforzato con barre di acciaio. Le colonne verticali e le travi orizzontali devono essere in grado di assorbire l’impatto delle scosse. Se tutti i regolamenti fossero stati seguiti a dovere, le colonne, invece di cedere, avrebbero resistito e il danno sarebbe stato limitato alle travi. È per questo motivo che ci sono state così tante vittime».

L’opposizione (unita) si affida a Kilicdaroglu

Erdoğan, com’è ovvio, si guarda bene dall’ammettere qualsiasi responsabilità: «Ogni attacco, ogni disastro, ogni dolore che sperimentiamo, in particolare i terremoti del 6 febbraio, dimostra che dobbiamo rafforzare la nostra unità, proteggere di più la nostra unità e rafforzare ancora di più la nostra fratellanza», ha dichiarato con l’abituale enfasi ad Ankara presentando il suo “manifesto elettorale” in 23 punti. «Guariremo completamente le ferite causate dal disastro in 11 province e nelle città limitrofe costruendo un totale di 650.000 nuove case, 319.000 delle quali saranno consegnate in un anno». E sull’economia: «Riporteremo l’inflazione a una cifra, aumenteremo il livello di benessere dei nostri dipendenti, dai dipendenti pubblici ai pensionati e ai lavoratori, aumentando sempre i loro salari al di sopra dell’inflazione». Del resto si sa, le campagne elettorali sono il momento migliore per dar sfogo alle promesse, anche le più inverosimili. Ma col passare degli anni, se i protagonisti restano sempre gli stessi, credere alle favole diventa sempre più difficile. Ed è probabilmente anche per questo che gli ultimi sondaggi fotografano un sostanziale testa a testa tra il Sultano e il suo principale sfidante, Kemal Kilicdaroglu, leader del Partito Popolare Repubblicano (CHP), non più giovanissimo (74 anni, contro 69) ma distante anni luce per modi e sostanza dallo “stile” imposto da Erdoğan. Pacato, misurato, di specchiata onestà, quasi timido nelle sue apparizioni pubbliche, laureato in economia, un burocrate che preferisce di gran lunga il lavoro dietro le quinte ai riflettori puntati, che vive con la moglie in un modesto appartamento ad Ankara, arredato con estrema semplicità e senza alcun lusso. Nel 2017, dopo aver partecipato alla Marcia per la Giustizia, 450 chilometri da Ankara a Istanbul percorsi in 25 giorni per protestare contro le repressioni del governo, gli è stato affibbiato il soprannome di “Ghandi”. È il presidente del Partito Repubblicano (Chp), partito di centrosinistra e laico, fondato dal “padre” della Repubblica turca, Mustafa Kemal Ataturk. Kilicdaroglu non sa aggredire né mordere («non mi arrabbio mai», ha confessato, e questo è considerato un “difetto universale” nella politica di questa epoca), ma ragionare sì: ed è stato in grado di creare la giusta sintesi in un’opposizione assai variegata, che spazia dal centrosinistra alla destra nazionalista, e che fa della lotta alla corruzione la sua bandiera. All’inizio di marzo i leader dei principali partiti d’opposizione si sono riuniti a quella che è stata ribattezzata “la tavola dei Sei”. E, nella consapevolezza che qualsiasi divisione o distinguo sarebbe stato un regalo per l’attuale presidente, alla fine (non senza polemiche e divergenze) hanno scelto come candidato unico proprio Kilicdaroglu. Obiettivo comune e condiviso, oltre a scalzare Erdoğan, l’abolizione del presidenzialismo e la conseguente riduzione del potere nelle mani del presidente. E di certo stride l’immagine del frugale candidato dell’opposizione con lo sfarzo di cui si è circondato negli anni Recep Tayyip Erdoğan, che forse immaginandosi nelle vesti di nuovo imperatore dell’impero ottomano vive in un gigantesco e sfarzoso palazzo presidenziale (Cumhurbaşkanlığı Sarayı) nel quartiere Beştepe di Ankara, con più di mille stanze e conseguenti spese, da coprire ovviamente con soldi pubblici.

La “variabile curda”

Ma alla coalizione dei 6 si è aggiunto negli ultimi giorni un settimo partito, anche se non ufficialmente: si tratta dell’HDP, il Partito democratico dei popoli, che sostiene le istanze del popolo curdo, una consistente minoranza (all’incirca il 18% degli 85 milioni di turchi) che l’attuale presidente, sempre più schierato su posizioni nazionaliste, combatte apertamente (qui un quadro aggiornato del conflitto decennale tra la Turchia e i gruppi armati indipendentisti curdi, dall’insurrezione nel 1984 del PKK al tentativo di colpo di stato nel 2016). Basti pensare che dei 171 sindaci eletti tra le fila dell’HDP negli ultimi dieci anni, 154 sono stati costretti, in vari modi (compreso l’arresto per sospette attività terroristiche), a lasciare l’incarico. Ma il loro voto peserà, e molto, alle prossime elezioni, nonostante le minacce di Erdoğan di mettere al bando l’HDP per i suoi presunti legami con i terroristi (la Corte Costituzionale ha sospeso il 5 gennaio scorso l’erogazione dei finanziamenti al partito, con un voto al limite: 8 favorevoli, 7 contrari). Il partito filocurdo (che nel 2018 aveva raccolto l’11,8% delle preferenze) ha dunque deciso di non presentare un proprio candidato e di correre, alle parlamentari, sotto il simbolo della Sinistra Verde, “Yeşil Sol”, per non rischiare di vedersi estromettere dal novero dei partiti “legalmente ammessi” alla competizione elettorale. «La nostra chiara aspettativa è una transizione verso una democrazia forte», ha ribadito il co-presidente dell’HDP, Mithat Sancar. Un sostegno “indiretto” a Kilicdaroglu (anche per non creare malumori e imbarazzi nelle altre forze dell’opposizione, soprattutto tra i nazionalisti dell’İYİ Parti, il “Buon Partito”), che potrebbe avere un peso fondamentale nel conteggio finale dei voti.

Erdoğan non ha gradito la mossa. E il segnale che tradisce i suoi timori, la paura di non farcela, di uscire sconfitto, di perdere la faccia oltre che il ruolo di presidente, è nella decisione di imbarcare nella sua coalizione, l’Alleanza Popolare, che già comprende l’AKP, il Partito per la giustizia e lo Sviluppo, e il Partito Nazionalista MHP, anche due piccoli partiti che sostengono l’estremismo islamico, il New Welfare Party (Yrp) e l’Huda-Par. Partiti assolutamente marginali in termini di voti, ma che in cambio della partecipazione alla coalizione pretendono dal Sultano una ancor più marcata radicalizzazione. Scrive Asianews: «Corteggiare due formazioni politiche che, a stento, superano l’1% dei consensi alle urne non è segno di grande salute, anche se risulta in linea con la progressiva radicalizzazione delle politiche di Erdoğan, improntate a colpi di nazionalismo e Islam. Ma il sostegno dei movimenti estremisti ha, come ovvio, un prezzo: i due schieramenti hanno presentato almeno 30 richieste, fra le quali emerge la cancellazione della legge 6248 del 2012 che contrasta e punisce la violenza contro donne e bambini. Una posizione folle, secondo l’avvocata Gokcecicek Ayata, in una nazione in cui ogni giorno vengono uccise almeno tre donne per violenze che si consumano fra le pareti domestiche».

Il Sultano deve rincorrere

I sondaggi al momento indicano che sarà un testa a testa tra le coalizioni. L’Alleanza del Popolo, che sostiene Erdoğan, è accreditata di un 40,6% di voti. Ma poco più avanti c’è l’Alleanza della Nazione, il “tavolo dei 6” (Repubblicani, Buon Partito, Partito della Felicità, Partito del Futuro, quello Democratico e il Partito di Democrazia e Progresso) con il 42,2% delle preferenze. Ma nella gara secca delle presidenziali, Kemal Kilicdaroglu è in vantaggio di almeno dieci punti rispetto a Recep Tayyip Erdoğan (orientativamente 55% contro 45%). Se nessun candidato dovesse ottenere più del 50% dei voti il 14 maggio, un secondo turno di ballottaggio si terrà il 28 maggio. Selahattin Demirtaş, ex avvocato per i diritti umani, leader del Partito filocurdo HDP, uno dei più aspri oppositori del presidente uscente, incarcerato nel 2016 con l’accusa di sostegno al terrorismo (e la Turchia ha ignorato nel 2020 l’Ordine della Corte europea per i diritti umani di liberarlo), ha risposto dalla sua cella, tramite il suo avvocato, alle domande del Financial Times: «Passo dopo passo, la Turchia si è mossa verso un regime autoritario. Se Erdoğan vincerà queste elezioni, la Turchia sarà passata a un nuovo tipo di dittatura. Soltanto un’opposizione unita che includa i curdi potrebbe impedire una discesa nella dittatura». Nell’ultimo decennio la Turchia ha registrato un progressivo aumento della corruzione tanto da registrare, nel 2022, il suo dato storico peggiore, scivolando al 101° posto su 180 nazioni al mondo nella classifica stilata da Transparency International, nel suo ultimo rapporto sull’Indice di percezione della corruzione.

Ma nulla è ancora deciso, al primo turno manca un mese e il Sultano, che è abituato a vincere, è disposto a tutto pur di restare al potere per altri 5 anni. Disposto perfino a scendere a patti con gli estremisti islamici, a far loro concessioni, a scapito dei diritti delle donne, delle minoranze, e chissà cos’altro ancora. La stessa parabola, con differenti motivazioni, imboccata in Israele da Benjamin Netanyahu. Una mossa della disperazione che, qualora portasse risultati, sarebbe assai rischiosa per i futuri assetti geopolitici della Turchia. Se dovesse vincere di nuovo Erdoğan, la Turchia potrebbe verosimilmente avvicinarsi ancor più all’orbita d’influenza del Cremlino. «L’Occidente è contro di me», continua a ripetere, quasi a disegnare il percorso di domani. «La sfida per la Turchia sarà definire sé stessa, dove si trova», ha commentato a Euronews l’economista Arda Tunca. «E se fosse l’opposizione a vincere, la Turchia si schiererebbe con l’Occidente». Il che potrebbe far tornare d’attualità un eventuale ingresso della Turchia nell’Unione Europea.

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