CULTURA

Tutto su "La dolce vita"

"Non c’è titolo di film italiano famoso quanto La dolce vita. Lo si è usato e si continua a usare per evocare di tutto: l’Italia del boom, il mito di Roma tra nobiltà nera e Hollywood sul Tevere, stili di vita, capi di abbigliamento, (cattive) abitudini italiche e peccati, soprattutto peccati, di tutti i tipi". Per celebrare il centenario della nascita di Fellini (1920 -2020) e i sessant'anni dalla prima proiezione de La dolce vita (febbraio 1960), torna in libreria un ricco volume per appassionati e studiosi di cinema: a dieci anni dalla prima edizione, la casa editrice Lindau pubblica una nuova edizione de La dolce vita di Antonio Costa, più di 200 pagine dedicate all'analisi e all'approfondimento di un capolavoro, oltre i luoghi comuni e le indiscrezioni. Una "mappa" per orientarsi nell'universo felliniano e scoprire la vera anima di un film indimenticabile.

Professor Costa, partiamo dalla struttura. Nel libro viene subito offerta una accurata analisi, sequenza per sequenza, altro aspetto interessante è il focus dedicato ai tre stadi differenti del film, quello del soggetto, quello della sceneggiatura e quello della versione definitiva. Lei propone una critica delle varianti, quali sono gli aspetti che maggiormente caratterizzano ogni stadio dell’opera?

Ho cercato prima di tutto di studiare il film in quanto tale. Di lasciare sullo sfondo la quantità incredibile di gossip, indiscrezioni, polemiche che si sono incrostate sull'opera di Fellini impedendoci alla fine di vedere il film, di cogliere la sua forza e la sua novità. E ho cercato di fare piazza pulita anche dei luoghi comuni. Per esempio, quello della Dolce vita come film-affresco, definizione adottata da Moravia e poi ripetuta infinite volte. Il modello cui Fellini si è ispirato per dare forma al suo film è stato il rotocalco, il giornale illustrato. Gli episodi più famosi del film sono apparsi prima sotto forma di servizi fotografici sui rotocalchi dell’epoca e poi trasfigurati nel film, dal bagno notturno nella Fontana de’ Trevi alla mancata apparizione della Madonna.

Sono passati sessant’anni dall’uscita nelle sale cinematografiche eppure ancora oggi se ne parla moltissimo. Cosa rappresentò per l’epoca, per l’Italia di quegli anni?

La dolce vita è stato il segnale che l’Italia usciva dal dopoguerra e si apriva a tutte le inquietudini e contraddizioni della contemporaneità. Il girovagare di Marcello attraverso quegli scenari da rotocalco, rappresenta una ricerca autentica. Il dato più importante che emerge dalla mia analisi è che, al di là di tutte le arditezze stilistiche e formali e tutte le trasgressioni sul piano del costume, il film mostra in filigrana la struttura di una narrazione classica: il viaggio dell’eroe alla ricerca della propria realizzazione professionale ed esistenziale. Nel corso della serata in casa Steiner, Marcello parla di un’arte chiara, netta, senza retorica, che non dica bugie, che non sia adulatrice. E aggiunge, più o meno, Adesso faccio un mestiere che non mi piace, ma penso spesso a quello che occorrerà domani.

Marcello e Sylvia, tra tutti. Ma il film è popolato da una moltitudine di personaggi. Se dovesse sceglierne uno, oltre ai due già citati, quale sceglierebbe e perché?

Maddalena, interpretata in modo impeccabile da Anouk Aimée, che nell’edizione italiana è doppiata da Lilla Brignone. Maddalena è la donna con la quale Marcello potrebbe avere un rapporto maturo, vero, al di fuori dei cliché (Emma, la fidanzata possessiva che promette un piatto di ravioloni). E al di fuori della mitologia: la ninfa (Sylvia) e la donna angelicata (la Paolina del finale). Maddalena è una donna vera, con la quale è possibile (e ineludibile) un dialogo vero. Marcello, nella stanza degli echi, si rivolge a lei con queste parole: Pensa che la tua disperazione mi dà forza. Saresti una compagna meravigliosa, perché a te si può dire tutto. Quando riascolto questo dialogo penso sempre a dei versi di poco posteriori di Pasolini che, rivolgendosi all’amico Attilio Bertolucci, dice: Lo so che per te speranza / è non volerne, speranza.

Qual è, secondo lei, la scena chiave del film?

Non ho dubbi che la sequenza più rivelatrice sia quella della mancata apparizione della Madonna. Fellini ci dà una rappresentazione impareggiabile del deserto spirituale in cui sono immersi i suoi personaggi e la società italiana negli anni del boom. Una rappresentazione implacabile, fitta di rinvii al mondo del cinema, e della televisione prossima ventura. Per dare un’idea precisa della straordinaria capacità di Fellini di costruire una rete di connessioni sul piano simbolico, vorrei richiamare un dettaglio che evidenzio nella mia analisi: il radiocronista della diretta della mancata apparizione della Madonna è lo stesso che aveva condotto quella della carnale apparizione ("Che bisteccona!") della ninfa Sylvia (Anita Eckberg) sulla scaletta dell’aereo a Ciampino.

Il film mostra in filigrana la struttura di una narrazione classica: il viaggio dell’eroe alla ricerca della propria realizzazione professionale ed esistenziale Antonio Costa

Leggendo il suo libro, si scoprono aneddoti interessanti. Un esempio: a Fellini la prima idea per il film venne dall’osservazione della metamorfosi della moda femminile dell’epoca, dall’avvento dei vestiti “a sacco”. Ci può dire di più?

C’è poco da aggiungere. In questa dichiarazione, tra le più citate del repertorio felliniano, si sintetizza la straordinaria capacità dell’autore, artista visivo e visionario quant’altri mai, di cogliere in un dettaglio il senso di una rivoluzione sul piano del costume, dei comportamenti, della vita quotidiana. E di costruire a partire da questo un intero universo, a un tempo estetico e morale.

Può raccontarci qualche altra curiosità, qualcosa che pochi sanno?

Più che su qualcosa che pochi sanno (ormai su La dolce vita sappiamo, o crediamo di sapere, tutto), preferirei soffermarmi su qualcosa che nessuno sa con certezza: l’origine della parola paparazzo, una delle più fortunate invenzioni linguistiche di Fellini. Secondo Flaiano, Paparazzo era il cognome di un albergatore calabro (Coriolano Paparazzo) che compare in un libro inglese d’inizio secolo, finito casualmente in mano a Fellini, che se ne è prontamente appropriato. Secondo altri invece sarebbe stato Flaiano stesso a coniarlo ricalcandolo sul nome che nel dialetto abruzzese hanno le vongole (paparazze). C’è chi lo ha fatto risalire addirittura a Dante, mentre Fellini ha fatto osservare la sua assonanza con i pappataci, fastidiosissimi insetti che molestano le nostre estati.

In appendice troviamo una antologia di testi critici dedicati al film, una raccolta ricchissima con articoli firmati da Pasolini, Arbasino, Fortini, Vittorini, Simenon e Le Clézio… Come si è svolto il lavoro di ricerca?

Ho voluto testimoniare, al di là dei soliti anatemi pronunciati dagli apparati politici e ecclesiastici, quanto vivace sia stato il dibattito attorno al film. L’intervento di maggior spicco è certamente quello di Pasolini che al film di Fellini aveva collaborato anche se poi il suo nome non è accreditato nei titoli di testa. Quello che più ci colpisce oggi è il suo giudizio sulla vitalità dei personaggi. Scrive Pasolini a conclusione del suo articolo: Non ho mai visto un film in cui tutti i personaggi siano così pieni di felicità di essere: anche le cose dolorose, le tragedie, si configurano come fenomeni carichi di vitalità.

Nel 2019 a Padova, ai Musei civici Eremitani, è stata allestita una mostra dedicata a Fellini, una sorta di anticipazione del centenario. Le chiedo: Fellini ha mai avuto rapporti diretti con Padova e il Veneto?

Basterebbe citare i nomi di due attori, ambedue di origine padovana, che hanno dato vita a due tra i personaggi più popolari del mondo felliniano: il primo è quello che ho già citato sopra di Walter Santesso, nato a Vigonza nel 1931, universalmente noto con il nome di Paparazzo. Ma Santesso, morto a Padova nel 2008, oltre che attore è stato anche autore di film decisamente eccentrici, tra i quali va ricordato almeno Eroe vagabondo (1966). L’altro è Bruno Zanin, nato a Vigonovo nel 1951, l’indimenticabile Titta di Amarcord (1973), che dopo l’esperienza felliniana iniziò, chiamato da Luca Ronconi e da Giorgio Strehler, una carriera teatrale promettente, ma ben presto abbandonata per altre attività. Sono due personaggi, Paparazzo e Titta, che avrebbero meritato adeguati ingrandimenti. Così come avrebbero meritato adeguati ingrandimenti i rapporti di collaborazione di Fellini con Dino Buzzati e con Andrea Zanzotto, che nella mostra degli Eremitani erano presenti quasi di sfuggita.

Attualità di Fellini?

La più significativa testimonianza della presenza di Fellini nell’immaginario contemporaneo ci viene da Maurizio Cattelan (Padova, 1960), il più celebre e controverso artista visivo contemporaneo. Cattelan nella sua autobiografia, cita un film di Fellini come fonte d’ispirazione di una delle sue opere più famose: l’installazione del cavallo imbalsamato sospeso a un soffitto del Castello di Rivoli (Novecento, 1997). Il film in questione s’intitola E la nave va (1983) ed è sicuramente uno dei più perturbanti e profetici film di Fellini.

Non ho mai visto un film in cui tutti i personaggi siano così pieni di felicità di essere: anche le cose dolorose, le tragedie, si configurano come fenomeni carichi di vitalità. Pier Paolo Pasolini su "La dolce vita" di Federico Fellini

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