CULTURA

Venezia 1600. Maschere, feste e balli, le tradizioni dell'antico Carnevale veneziano

Il Carnevale di Venezia, se non il più grandioso, è sicuramente il più conosciuto per il fascino che esercita. Un fascino che, però, si unisce a un velo di mistero, e che lascia trasparire una tradizione passata. Non a caso il Carnevale di Venezia è antico, forse non come Venezia, anche se non possiamo datarlo con certezza. Di certo c’è che, nel 1094 la festa si è tenuta: viene nominato il carnevale in un documento che parla dei divertimenti pubblici nei giorni che precedevano la quaresima. Bisogna aspettare però il 1296 per scoprire che il Carnevale è diventato una festa pubblica, quando il Senato della Serenissima Repubblica dichiarò festivo l’ultimo giorno prima della quaresima.

Al di là dei documenti ufficiali, è quasi certo che il Carnevale veneziano abbia radici più antiche che rimandano con buone probabilità ai culti ancestrali di passaggio dall’inverno alla primavera, culti presenti in quasi tutte le società, di cui esempi famosi possono essere i Saturnalia latini, o ancora i culti dionisiaci, nei quali il motto era “semel in anno licet insanire” (“una volta all’anno è lecito non avere freni”). La parte più evidente dei festeggiamenti carnevaleschi è senza dubbio la maschera. Questa, al di là delle sue lontane origini, mostra delle prerogative rituali: è una sorta di vestito magico in grado di mescolare la verità con la menzogna, il potere con la sottomissione. La maschera è soprattutto trasgressione: nascondere il quotidiano per permettere alla persona di sentirsi altro, magari nessuno, magari un dio, fino ad appianare ogni tipo di differenza. Questo è il vero potere della maschera, appianare tutte le distinzioni tra ricchi e poveri, tra dogi e popolo, tra il giovane e l’anziano, ma anche tra uomo e donna, e portare tutti a vivere, seppur per un tempo limitato, nel “regno utopico dell’universalità, della libertà, dell'uguaglianza e dell’abbondanza”, come scrisse il filosofo Bachtin. La maschera assicura anche un certo grado di anonimato, quindi il mascherato, o la mascherata, si sente di poter andare contro anche a quelle leggi che solitamente regolano la sua vita.

Poi c’è anche l’altro lato della medaglia, il lato politico, ovvero il carnevale come strumento per dare un momento di sfogo al popolo, una sorta di illusione che dura per un tempo limitato, ma che permette alle persone di trasgredire e, di conseguenza, di sentirsi libere. Una sorta di “panem et circenses” latino. 

Da un punto di vista storico, il Carnevale di Venezia del passato è molto diverso da quello odierno. La prima differenza che salta all’occhio riguarda l’uso della maschera che viene fatta oggi, così lontano dagli obiettivi originali, ma vicino ai dettami della moda e delle persuasioni più o meno occulte dei mass-media. Non solo, il Carnevale di Venezia è mutato profondamente nella sua tradizione, nella durata, nel coinvolgimento della cittadinanza.

Un tempo il Carnevale consentiva ai veneziani di lasciar da parte le occupazioni per dedicarsi totalmente ai divertimenti, si costruivano palchi nei campi principali, lungo la Riva degli Schiavoni, in piazzetta e in piazza San Marco, e la gente accorreva per ammirare le attrazioni, le più varie: i giocolieri, i saltimbanchi, gli animali danzanti, gli acrobati; trombe, pifferi e tamburi venivano quasi consumati dall’uso, i venditori ambulanti vendevano frutta secca, castagne e fritòle (le frittelle) e dolci di ogni tipo, ben attenti a far notare la provenienza da Paesi lontani delle loro mercanzie. La città di Venezia, grande città commerciale, ha sempre avuto un legame privilegiato con i Paesi lontani, con l’Oriente in particolare. Nei secoli passati il Carnevale durava molto di più degli attuali dieci giorni. Iniziava ufficialmente il giorno di santo Stefano, il 26 dicembre, e si concludeva tassativamente alla mezzanotte del Martedì grasso. Durante i giorni festivi non era però possibile indossare la maschera prima del vespero. Questa era la finestra temporale in cui l’uso della maschera era tollerato, sebbene non fosse l’unica. La maschera poteva essere indossata anche durante la quindicina dell’Ascensione e, con ulteriori deroghe, si poteva portare fino al 10 giugno. “In particolare”, spiega Danilo Reato nel libro Storia del Carnevale di Venezia, “la maschera tabarro e bauta era considerata l’abito e il travestimento elegante e adeguato all’epoca dell’incoronazione dei Dogi, durante le visite dei personaggi illustri, si portava nei banchetti ufficiali e nelle feste straordinarie della Serenissima”. Infine l’uso della maschera era concesso dal 5 ottobre al 16 dicembre, quando iniziavano le celebrazioni per il Natale.

Da YouTube, l'esecuzione del brano "Il Carnevale di Venezia" di Niccolò Paganini, eseguito da Franco Mezzena e Adriano Sebastiani

Un’altra curiosità legata al tempo e al Carnevale è che è stato celebrato ogni anno: la crisi di Venezia, la peste, le morti dei dogi, e nemmeno Napoleone hanno saputo smorzare lo sfarzo e la pompa magna della festa veneziana. Solo recentemente il Carnevale è stato interrotto, per limitare il contagio dell’epidemia di Sars Cov2. La sua durata, sia nel corso di un singolo anno che in quella più ampia dei secoli, ha contribuito a renderlo famoso, infatti sono stati molti gli scrittori viaggiatori che, nel corso del tempo, hanno avuto modo di sperimentare il carnevale, e di accreditare l’idea che questa festa non finisse mai.

Il primo giorno di carnevale, almeno se vogliamo seguire la tradizione, era sempre il giorno di santo Stefano ed era collegato a una ritualità ben precisa. Il doge si recava, per la seconda volta dopo il giorno di Natale, a rendere omaggio alle reliquie del santo Protomartire custodite a San Giorgio Maggiore. Per i nobili della città, invece, era il giorno della passeggiata sul Liston, ovvero sotto le Procuratie Vecchie di piazza San Marco, che consisteva in una sorta di sfilata delle maschere per dar sfoggio delle proprie ricchezze. In tempi più antichi questa passeggiata si teneva in campo Santo Stefano, che poi è stato dismesso e spostato nella piazza principale della città. “Il passeggio a San Marco”, riporta Reato nel suo libro, “era il momento tanto atteso per mostrarsi ed essere osservati”. Così dame, cavalieri e cicisbei si dividevano tra le ciacole, le chiacchiere, e gli acquisti nelle numerose botteghe che costeggiavano la piazza. Dopo la passeggiata si continuava la serata a cena o a teatro.

Un altro momento fondamentale per la tradizione del Carnevale di Venezia era la festa del Giovedì Grasso. Una tradizione che è profondamente mutata nella sua forma nel corso dei secoli. In origine questa festa era strettamente legata alla storia della Serenissima e collegata a un successo militare ben preciso. Nel 1162 Ulrico, il patriarca di Aquileia, approfittò della guerra tra Venezia e Padova inviando un’armata alla conquista di Grado costringendo il patriarca Dandolo alla fuga. Grado, in quel periodo, era la metropoli ecclesiastica di Venezia, quindi il doge Michiel II puntò le sue navi verso la città, sorprendendo Ulrico e sbaragliandolo. Il patriarca insieme a 12 canonici furono fatti prigionieri e condotti a Venezia. La Serenissima permise poi a Ulrico di tornare ad Aquileia, non prima di riscuotere il riscatto: un toro e 12 maiali. Da questo fatto storico si originò la festa che, per alcuni secoli, seguì sempre lo stesso copione: un toro e 12 maiali arrivavano in città, venivano portati a Palazzo Ducale, venivano condannati a morte dal Magistrato del Proprio ed esecutati dai fabbri, che si erano distinti nella cattura di Ulrico, aiutati dai becheri, ovvero i macellai. In una sala venivano poi costruiti dei castelli di legno in miniatura, che simboleggiano i feudi friulani, il doge entrava e abbatteva queste fortezze con dei bastoni ferrati, quindi i fabbri tagliavano la testa al toro nella piazzetta, per poi distribuirne la carne ai poveri e ai condannati. I festeggiamenti in questo modo durarono fino al 1523, quando ormai le motivazioni del popolo non erano più forti, in quanto il dominio temporale del patriarca di Aquileia era già cessato da circa 100 anni. Si decise, dall’alto, di rendere la festa più dignitosa evitando l’uccisione dei maiali e cancellando la distruzione dei castelli, mantenendo però l’usanza della decapitazione del toro, che diede poi anche origine al noto proverbio. Da un toro si passò a tre. La festa continuò in questa forma fino alla caduta della Serenissima. 

La riqualificazione dei festeggiamenti del Giovedì Grasso fu però più profonda. Nella piazza principale il popolo e le alte cariche della repubblica assistevano a spettacoli acrobatici di equilibristi, che si lanciavano in salite sul campanile e poi nelle discese per poter recapitare al doge un mazzo di fiori. Si tratta del cosiddetto svolo del Turco, o dell’Angelo in seguito, perché il primo a compiere l’impresa fu proprio un turco. Con l’aiuto di una pertica, usata a modo di bilanciere, salì fino alla sommità del campanile, partendo da una barca ancorata nel porto. Nel corso del tempo l’impresa non finì sempre bene. In tempi molto recenti l’usanza è stata recuperata e ogni anno qualche celebrità si cimenta in questo spettacolare volo, ma solo in discesa.

Tornando al Giovedì Grasso tradizionale, trovavano spazio anche i giochi del popolo: due fazioni antagoniste, i Castellani (dei sestrieri di Castello, San Marco e Dorsoduro) e i Nicolotti (dei sestrieri di San Polo, Santa Croce e Cannaregio) si sfidavano a suon di pugni scagliati dall’alto delle Forze d’Ercole, ovvero delle piramidi umane costruite talvolta anche sull’acqua, in modo da rendere più precario l’equilibrio e far aumentare l’emozione. Le Forze d’Ercole consistevano in delle figure precise, e spesso la parte più alta, chiamata cimiereto, era occupata da un bambino posizionato a testa ingiù. 

Un’altra attrazione della festa era la moresca, un ballo ritmico che simulava i colpi della scherma. La danza affonda le radici nella lotta tra i cristiani e i mori, che veniva rievocata, a Venezia, vedendo nuovamente contrapporsi Castellani e Nicolotti. Una sorta di singolar tenzone, ma senza sangue, perché i ballerini venivano dotati di una daga spuntata. Alla fine della danza/battaglia arrivava il momento dei fuochi d’artificio.

Un’altra usanza, che non trovava luogo nel Giovedì Grasso ma in vari momenti durante il carnevale, è quella della caccia ai tori. Non è noto quando questa usanza sia stata introdotta sull’isola e nemmeno da dove è arrivata, ma si sa che è stata perpetrata per molti secoli e fino al carnevale del 1802, quando fu soppressa. Le cacce ai tori erano consentite dal primo giorno del Carnevale all’ultima domenica. La licenza doveva essere data dal governo per assicurare anche una certa vigilanza, soprattutto in vista della pericolosità dell’usanza. Si tenevano nelle contrade, nei vari campi, ma raramente capitò di avere due cacce al toro nello stesso giorno, perché l’obiettivo era anche catalizzare l’attenzione del pubblico in un luogo alla volta. La caccia iniziava alle 22 e si concludeva entro le 24. A tutti gli effetti era una festa di contrada: alcuni volontari si offrivano come tiradori, coloro che tiravano il toro per le corna con delle corde. Il campo veniva addobbato con delle impalcature in legno a forma di anfiteatro con le gradinate per il pubblico, e intorno c’erano delle baracche in cui veniva venduto il vino. Facile immaginare la conclusione di queste “corride nostrane”, sebbene l'obiettivo primario dei tiradori fosse quello di far stramazzare al suolo il toro grazie alle loro potenti tirate di fune. Poi il toro veniva ucciso con un colpo di spada al collo. Furono molti i decreti e le feste interrotte a causa di gravi incidenti, ma nonostante questi le cacce continuarono a essere organizzate, persino dopo la caduta della Repubblica. Sotto il governo austriaco però, a seguito del primo incidente grave, lo spettacolo fu definitivamente vietato. Una piccola curiosità: i protagonisti della caccia non erano tori, ma buoi Storicamente va segnalato che in qualche occasione, sebbene più rara, fu organizzata anche la caccia all’orso.

Per quanto fosse stato lungo il Carnevale, prima o poi avrebbe dovuto giungere alla fine, ogni anno, secolo dopo secolo. L’ultimo giorno di Carnevale è sempre il Martedì Grasso e questo giorno particolare è quello in cui le follie si sprigionavano con tutta la loro intensità, per tutte le classi sociali. Nessuno rimaneva in casa, nemmeno la servitù, che proprio in questa giornata otteneva il permesso di “andare in maschera” e di tornare dopo la mezzanotte. Feste e balli invadevano ogni calle, finché cittadini e avventori si univano per cantare un canto d’addio al carnevale, mentre un fantoccio gigante, che rappresentava Pantalone, la più celebre maschera veneziana, veniva bruciato nelle piazzetta:

“El va! El va! El va! El carneval el va!”

Quindi, a mezzanotte, i rintocchi delle campane di San Francesco della Vigna decretavano la fine dei festeggiamenti e l’inizio della quaresima.   

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