CULTURA

Venezia 77: "Guerra e pace" e l'immagine dei conflitti

In concorso nella sezione Orizzonti della 77esima Mostra internazionale del cinema di Venezia, Guerra e pace è l'interessante documentario realizzato da Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, registi molto attesi al Lido dopo le prove presentate nel 2016 e nel 2018, rispettivamente con Spira Mirabilis, in concorso ufficiale al festival, e con il cortometraggio Blu, fuori concorso. In oltre due ore di film, nato da "una intuizione nata un giorno di fronte un’Ambasciata Italiana in una capitale straniera", viene approfondita la relazione tra cinema e conflitti, attraverso una riflessione puntuale e sfaccettata sulla rappresentazione della guerra e la produzione di immagini per raccontarla (e tenerla a bada), sull'essenza della storia e sul valore della memoria.

La storia è suddivisa in quattro capitoli, passato remoto, passato prossimo, presente e futuro, per quattro istituzioni europee: l'Istituto Luce di Roma, l'Unità di Crisi del nostro Ministero degli Esteri, l'Ecpad, Archivio militare e agenzia delle immagini del Ministero della Difesa francese, e la Cineteca Svizzera di Losanna. Scelti i protagonisti ci si concentra sulla moltiplicazione dei punti di vista e delle narrazioni, indipendenti una dall'altra eppure strettamente collegate dal filo rosso della guerra: studiata, osservata, controllata, fotografata, filmata. "Il cinema, fin dalle sue origini, ci mostra di aver avuto un legame fortissimo con la guerra più che con la pace, sia per lo spirito che ha attraversato la prima metà del secolo scorso, sia per l’intrinseca necessità di documentare gli eventi storici, sia per la reale difficoltà di filmare un processo di pace", spiegano nelle note di regia i due autori, che, per i loro progetti, si occupano anche della produzione, della fotografia, delle riprese, del suono e del montaggio.

Chi siamo dunque? Siamo gente sempre in guerra. O perché la stavamo facendo o perché ci apprestavamo a farla. Non siamo mai vissuti altrimenti Ryszard Kapuściński

Ogni sezione si apre con l'immagine della cura, di un lavoro preciso e attento, di una preparazione meticolosa che introduce il contenuto. Mani impegnate a ricomporre frammenti del passato, dall'invasione italiana in Libia del 1911, altre intente a piegare e sistemare le bandiere degli Stati del mondo. E poi un gruppo di giovani militari, prima in posa per essere fotografati, poi seguiti nel corso dell'addestramento, durante le lezioni in aula e sul campo, per imparare a fotografare e filmare la guerra, a rappresentarla, a portarla fuori dal centro dell'azione per diffonderla, come prova con un determinante peso storico e politico. Se una mappa dell'Unità di Crisi riporta in basso la scritta It's a wonderful world, innescando un corto circuito nello spettatore, così il lavoro dei giovani fotografi militari può riportare alla mente il celebre scatto The falling soldier di Robert Capa (1936) che ritrae un soldato colpito a morte durante la Guerra civile spagnola, e invita a interrogarsi sull'autenticità di una immagine iconica e sul confine tra realtà e rappresentazione. Infine, l'ultimo atto, per raccontare un futuro "dove tutto è già scritto", si svolge alla Cineteca Svizzera di Losanna, con i suoi corridoi bianchi che ricordano corsie d'ospedale in tempo di pandemia: qui vediamo ancora mani, questa volta protette da guanti, che puliscono vetri, poltrone di sale per le proiezioni, maniglie di porte d'accesso a celle e stanze d'archivio dove sono conservati filmati di guerra di ogni epoca e luogo. I registi: "Abbiamo deciso di riflettere sulle immagini del passato e del presente non solo come strumento di guerra, ma anche come possibile strumento di pace". Una pace che non si vede ma c'è, nella forma del desiderio profondo.

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