CULTURA

Verso il '22. L'occupazione delle fabbriche: un simulacro di rivoluzione

Il passaggio alla politica di massa e le nuove forme di spettacolarizzazione esplodono con la massima visibilità nel settembre del ’20. Già Fiume ne ha dato prova, fra ’19 e ’20, nel nome della Nazione, nelle forme di partecipazione alla lotta e con il balzare sulla scena di nuovi soggetti e linguaggi. Al teatro della nuova Italia - nel nome della Classe e ad opera dei proletari - va ora in scena l’occupazione delle fabbriche. Sono soprattutto i metallurgici - più di 400.000 operai - che occupano le rispettive fabbriche, e la mappa che ne risulta risente perciò del grado di industrializzazione: più al Nord, dunque, ma in tutta l’Italia del Nord, non solo Torino, Milano e Genova,  anche le periferie e le zone industriali dei centri minori, dal Veneto alle Marche. Come più al Sud, dal Molise alle isole, si manifesta l’altra grande operazione di massa e  la metà contadina del proletariato realizza l’occupazione delle terre. Simbolismo potente, coreografia originale, ma la regia latita, sono infatti fenomeni paralleli, che si ignorano: basta questo coordinamento mancato fra operai e contadini a chiarire quanto poco i due movimenti inverino un concreto e concertato  progetto rivoluzionario diretto da una strategia unitaria. Occupare le terre incolte e puntare a renderle produttive con la forza lavoro disoccupata altrimenti condannata a emigrare ha dietro, venticinque anni prima, la grande, ma più localizzata e alla fine fallimentare ventata dei Fasci Siciliani; attese ora rinverdite e legittimate dalle recenti promesse del tempo della guerra - il vago e messianico ‘la terra ai contadini!’ sceso lusinghiero dall’alto ad opera di classi dirigenti prese dal panico ai tempi di Caporetto. Fra spontaneismo di disperati - resi meno passivi e meglio consapevoli della propria forza dallo Stato stesso, che gli ha insegnato a portare le armi e darsi degli obiettivi comuni - e tentativi di ciò che resta dell’interventismo democratico (Salvemini, Lussu ) di dare forma politica a queste attese. Se vogliamo, una variante sociale della ‘trincerocrazia’, un uso politico indirizzato a sinistra invece che a destra della forza degli ex-combattenti: il nuovo soggetto politico potenziale che in quel dilemmatico dopoguerra balla sulla corda di opposte opzioni, idee di sé e direttrici di sviluppo del ‘Paese Italia’. Ma quel che avviene in qualche povera area dell’Italia marginale, benché anch’esso segno dei tempi e suscettibile di trasformazione del territorio e dei rapporti di classe, ha assai meno impatto, emoziona, fa sperare e sognare meno in grande che non il vedere gli stabilimenti della Fiat, dell’Ansaldo, i cantieri Orlando e tanti altri stabilimenti grandi e piccoli delle città e delle periferie urbane presi in pugno dalle maestranze, che ne espellono i dirigenti, e li imbandierano di rosso. La violenza è nelle cose, non si esercita sulle persone. Ma si sa - o si mormora - che quegli operai sono armati.

È la rivoluzione? Niente affatto. Ma lo sembra.

Al governo del Paese c’è Giolitti: la vecchia volpe, che nessuno, dopo la rovinosa fuga dalle responsabilità del maggio 1915 avrebbe immaginato di nuovo e così presto al potere. Eppure, assieme all’uomo nuovo Francesco Saverio Nitti, è ancora quanto di più abile e manovriero sappia mettere in campo lo Stato liberale insidiato da destra e da sinistra. Sarà anche e più degli altri lui, fra poco, a giocare d’azzardo e sbagliare tutto, puntando sulla ‘normalizzazione’ di quelle inedite figure di sovversivi in nome della Patria e della Nazione che sono gli squadristi fascisti: voi ci liberate dai socialisti, e noi - noi classe dirigente liberale, noi prefetti, noi questori, noi giudici, noi generali, noi giornalisti - chiudiamo un occhio, anzi, tutti e due gli occhi, e vi diamo carta bianca per rimetterli al loro posto. Questo mentre svanisce inconcludente il  biennio rosso: nel 1921, nel ’22. Futuro prossimo, ma qui e ora, in questo settembre del ’20, la  situazione sembrerebbe tutt’altra, aperta ai sogni e alle speranze della sinistra. Senonché, mentre Giolitti tiene buoni i padroni imbufaliti - ‘che dovrei  fare, prendere a cannonate la Fiat?‘, pare che abbia detto soave ad Agnelli - la CGL tiene buoni per quanto può gli operai. I capi sindacali sono riformisti, sono anzi la destra del riformismo socialista, più a destra di Turati e di Treves. E il paradosso della situazione è questo, che nessuno sa e vuole dirigere il movimento, portarlo fuori dalle recite dell’autonomia operaia nel chiuso delle singole fabbriche: né il Partito Socialista - governato dai massimalisti, compresi quelli che ne usciranno nel marzo del ’21 al congresso di Livorno per  fondare il Partito Comunista d’Italia -, né il sindacato. Penoso minuetto. Alla fine, i sindacalisti fanno quello che sanno fare: negoziano, su obiettivi materiali. Non  pensavano a ‘fare come la Russia’.

I capi confederali educati alla pratica sindacale del periodo giolittiano (e alla stessa visione giolittiana dei rapporti capitale-lavoro: non a caso Giolitti proclamerà dopo l’occupazione delle  fabbriche che egli aveva avuto sempre fiducia nella CGL e che questa aveva ben meritato della fiducia in essa posta) subiscono assai più di quanto non dirigano e controllino l’ondata di scioperi spesso caotica del dopoguerra. (Paolo Spriano, L’occupazione delle fabbriche. Settembre 1920, Torino, Einaudi, 1964, p.21).

Il  salto di qualità lo potevano forse concepire i giovani socialisti - e prossimi comunisti - dell’ ”Ordine Nuovo”, ma Gramsci, Togliatti, Terracini e Tasca sono a Torino, con qualche operaio sapiente, e con l’ingegner Bordiga a Napoli: abbastanza per far circolare attese e parole d’ordine di autogestione, di consigli operai, non per assumere la direzione politica complessiva del movimento. Un sogno di liberazione del lavoro, radicalmente innovativo, che è anche un incubo, vissuto dall’altra parte di quelle metaforiche barricate. Altro che rivoluzione alle porte! Gliela faranno pagare, agli operai, la paura che hanno presa. 

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