SOCIETÀ

Lo Yemen e il conflitto dimenticato

«Lo Yemen è oggi il posto più difficile al mondo in cui essere un bambino. E, incredibilmente, la situazione sta peggiorando». L’appello lanciato pochi giorni fa dall’Unicef, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, tocca le corde dell’emozione e tenta di accendere una luce su uno dei più gravi scenari di guerra ancora in atto nel Medio Oriente e sulla drammatica crisi umanitaria (“la peggiore del mondo”, come l’ha definita OWP,  The Organization for World Peace), una voragine che rischia d’inghiottire i più fragili, gli indifesi. «Dall’inizio del conflitto, nel 2015, almeno 10mila bimbi sono stati uccisi o feriti a causa della guerra», ha denunciato a Ginevra il portavoce dell’Unicef, James Elder, appena tornato da una missione sul posto. «E’ una media di quattro bambini al giorno, ma attenzione: si tratta soltanto dei casi che le Nazioni Unite hanno potuto verificare». Come dire: il dato reale delle piccole vittime è certamente più alto. Ma in pericolo, gravissimo, c’è l’80 per cento della popolazione yemenita, circa 24 milioni di persone stando alle più recenti stime, la cui sopravvivenza dipende oggi esclusivamente dagli aiuti internazionali. In un paese devastato da quasi sette anni di conflitto, dove le opposte fazioni hanno ormai bombardato le centrali elettriche, le reti idriche, gli ospedali, le scuole, le abitazioni. Dove la carestia è quotidiana, come i casi di malnutrizione, nell’impossibilità di accedere ad acqua pulita, con una rete fognaria inesistente, il che ha favorito il dilagare di una gravissima epidemia di colera. Dove gli ospedali (quelli non bombardati, circa la metà) non hanno più materiali per curare, né i medici stipendi, e spesso case dove tornare: non è più lavoro, è resistenza. Secondo i dati delle Nazioni Unite, dal 2015 a oggi le vittime della guerra sono almeno 230.000, circa 4 milioni gli sfollati. «Lo Yemen è di fatto un paese raso al suolo», ha commentato Paolo Pezzati, di Oxfam, la confederazione internazionale di ong specializzata nel portare aiuti alle popolazioni colpite dalla povertà.

Stop alla missione di esperti Onu

In questo spaventoso scenario, suona come una beffa la decisione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite di non rinnovare il mandato del Gruppo di esperti (GEE) chiamato a monitorare le violazioni dei diritti umani in Yemen. La mozione, che proponeva il rinnovo per altri due anni dell’organismo, era stata presentata dai Paesi Bassi, ma è stata respinta con 21 voti (tra i contrari Cina, Cuba, Pakistan, Russia, Venezuela e Uzbekistan) contro 18 a favore (Gran Bretagna, Francia, Germania, la stessa Italia). Durissimo il commento dell’ambasciatore olandese, Peter Bekker: «Con questo voto il Consiglio ha tagliato l’ancora di salvezza che teneva legato il popolo yemenita alla comunità internazionale». All’inizio di ottobre diversi gruppi per la difesa dei diritti umani avevano puntato il dito contro l’Arabia Saudita (una delle parti in causa del conflitto), segnalando che stava facendo pressioni contro la risoluzione olandese. «Negli ultimi anni – denunciava Human Right Watch – abbiamo raccolto le testimonianze dei parenti di persone detenute o scomparse, di operatori umanitari che hanno assistito in prima persona ad attacchi illegali contro i campi per sfollati, di giornalisti sopravvissuti a condizioni di detenzione brutali e disumane, di donne sopravvissute alla violenza sessuale e di genere. E ora, nonostante la gravità della tragedia umanitaria in corso e le violazioni e gli abusi da parte di tutte le parti in conflitto, il mandato di questo organismo essenziale è minacciato. Porre fine al mandato del GEE sarebbe una macchia sulla credibilità del Consiglio per i diritti umani e uno schiaffo in faccia alle vittime». Appello inutile: la campagna di lobby saudita ha avuto il suo effetto. Le missioni si fermano qui. Nell’ultimo rapporto (pubblicato lo scorso settembre, qui un estratto), intitolato “Una nazione abbandonata: un appello per porre fine alle sofferenze dello Yemen”, il Gruppo di esperti delle Nazioni Unite descriveva nel dettaglio “oltre sei anni di sofferenze inutili” da parte della popolazione yemenita. «La responsabilità delle violazioni spetta a tutte le parti in conflitto – si legge nel rapporto -, con violazioni commesse dal governo dello Yemen, dal consiglio di transizione meridionale, dai membri della coalizione e dalle autorità di fatto. Alcune delle violazioni individuate potrebbero costituire crimini internazionali». Le prove emerse nei rapporti del GEE potevano, peraltro, essere utilizzate come prove nei tribunali internazionali. «Le pressioni di Arabia Saudita, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti hanno avuto successo – ha commentato con amarezza Heba Morayef, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. «Ma chi ha votato contro il rinnovo del mandato del GEE, o si è astenuto, dovrebbe vergognarsi. Questo voto è in sostanza un via libera a tutte le parti in conflitto per portare avanti le loro eclatanti violazioni che hanno sconvolto la vita di milioni di yemeniti». L’ambasciatore del Bahrain, Yusuf Abdulkarim Bucheeri, come motivazione al suo voto contrario alla proroga, ha sostenuto: «Il gruppo internazionale di esperti ha contribuito alla disinformazione sul campo».

Tre guerre in una

Un conflitto, quello dello Yemen, protocollato con l’etichetta di “guerra civile”, ma che in realtà vede coinvolti, come attori protagonisti, diversi altri paesi. Per riassumere: lo scontro ha origine nel 2014, quando le milizie Houthi, un movimento ribelle musulmano di fede sciita e quindi ritenuto ideologicamente vicino all’Iran, riuscirono a prendere il controllo della capitale Sana’a, costringendo alla fuga il presidente Abdrabbuh Mansour Hadi (in carica dal 2011). Che però non s’è arreso, trovando accoglienza in Arabia Saudita, che è intervenuta formalmente nel conflitto sostenendo che dietro l’azione degli Houthi (fedeli all’ex presidente yemenita, Ali Abdullah Saleh, deposto nel 2011 e assassinato nel 2017 a Sana’a) c’era l’Iran (accusa che Teheran ha sempre respinto). Nel marzo 2015 l’Arabia Saudita, con il sostegno di una coalizione di paesi (tra i quali Emirati Arabi, Barhain, Sudan, Kuwait, Egitto, Qatar) e il supporto logistico di Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Israele, ha lanciato una serie di attacchi aerei contro le milizie Houthi (supportate da Iran, Corea del Nord, Eritrea e Hezbollah), con l’obiettivo dichiarato di ripristinare il governo di Hadi. Da allora la guerra non ha avuto sosta. All’enorme potenza dei bombardamenti sauditi, gli Houthi hanno risposto con droni e missili balistici.

Nel settembre 2019 i due principali giacimenti petroliferi sauditi (Abqaiq e Khurais) sono stati colpiti e gravemente danneggiati in un attacco aereo con 10 droni, rivendicato dai ribelli Houthi. Arabia Saudita e Stati Uniti hanno accusato l’Iran di aver compiuto gli attacchi e di aver messo a repentaglio l’approvvigionamento energetico mondiale. Del caos hanno approfittato i militanti di al-Qaeda nella penisola arabica (AQAP) e l'affiliata locale del gruppo rivale dello Stato islamico (ISY), due organizzazioni jihadiste, che hanno occupato territori nel sud del Paese, dando vita a un secondo fronte di conflitto interno. E ce n’è anche un terzo: con le milizie del gruppo secessionista dello Yemen meridionale, il cosiddetto “Consiglio di Transizione del Sud” (STC), che è sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti e che si batte per la creazione di uno stato indipendente nel sud del Paese.

Il ruolo Usa: dall’ok di Obama, al freno di Biden

Un inestricabile intreccio di conflitti, locali e internazionali, che hanno origine principalmente per tre cause (o ragioni, o pretesti): impedire alle milizie filo-iraniane di prendere il potere, contrastare la conquista di territori da parte di organizzazioni legate al terrorismo islamico e infine conquistare il controllo dei corridoi strategici, via mare e via terra, delle risorse energetiche. Un intreccio talmente complesso che ha assunto ormai le dimensioni dello stallo. Anche perché le variabili sono innumerevoli. Una di queste riguarda il ruolo degli Stati Uniti, che nel marzo 2015 (sotto la presidenza di Barack Obama) avevano dato il via libera ai bombardamenti aerei sauditi contro gli Houthi (anche contro la capitale Sana’a e la sua città vecchia, d’inestimabile bellezza, patrimonio dell’Unesco, devastata dalle bombe e dalle recenti inondazioni). Un impegno (logistico, strategico) confermato durante la presidenza di Donald Trump, ma bruscamente interrotto con l’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca, che punta invece apertamente a un cessate il fuoco e a riallacciare i negoziati con l’Iran sul suo programma nucleare. Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha ribadito pochi giorni fa che «la risoluzione del conflitto in Yemen rimane una delle principali priorità della politica estera degli Stati Uniti». Anche se il diplomatico Timothy Lenderking, inviato degli Stati Uniti per lo Yemen, intervistato dalla tv al-Arabiya ha di fatto accusato Teheran: «Non ci sono prove che l’Iran voglia porre fine alla guerra nello Yemen».

Dunque sette anni di guerra, e la fine non si riesce ancora a vedere. Nel 2018 un accordo tra il governo yemenita e i ribelli Houthi era stato raggiunto con la mediazione delle Nazioni Unite (Accordo di Stoccolma): includeva un cessate il fuoco, un ritiro delle truppe dalla città portuale di al-Hudayda, l’apertura di un corridoio umanitario e uno scambio di prigionieri. Ma non è bastato a porre un freno al conflitto. L’ultimo fronte aperto è nella regione strategica di Marib, dove i ribelli Houthi stanno tentando di conquistare la città, ancora nelle mani del governo sostenuto dalla coalizione saudita (e le notizie che filtrano spesso non sono verificabili). Sette anni di guerra con un enorme tributo, in termini di vite umane, di sofferenze, di privazioni. «Sedici milioni di yemeniti stanno marciando verso la fame», ha denunciato il mese scorso David Beasley, direttore del Programma alimentare mondiale (WFP) delle Nazioni Unite. «Abbiamo bisogno che questa guerra finisca. I leader mondiali devono fare pressione su tutte le parti coinvolte in questo conflitto perché la gente in Yemen ha sofferto abbastanza». Per non dire delle difficoltà delle organizzazioni umanitarie a portare un minimo di sollievo alla popolazione, perché entrare nel Paese è spesso impossibile. Con un’economia ormai irrimediabilmente devastata. E con le emergenze sanitarie sempre più gravi e incontenibili, a partire dal sostanziale fallimento del progetto Covax (il programma dell’Onu avviato per garantire la fornitura di vaccini contro il Covid ai paesi più poveri): secondo l’Oxfam, il 99% degli oltre 30 milioni di yemeniti non è vaccinato. Soltanto lo 0,05% della popolazione ha ricevuto la doppia dose.

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