SOCIETÀ

Il Nobel dell'architettura si scopre politically correct

Il quarantunesimo vincitore del Pritzker Prize è quest’anno un architetto cileno, Alejandro Aravena, direttore della Biennale che si aprirà il prossimo maggio. Un annuncio che non lascia troppo sorpresi, ma che solo pochi anni fa avrebbe fatto un effetto decisamente diverso. La sorpresa non è tale se viene considerata la recente tendenza, delle giurie degli ultimi anni, a premiare architetti legati al sociale, spinti da una missione, legati all’ambiente, impegnati e talvolta critici verso lo star system dell’architettura. Una piccola rivoluzione in realtà, questa, nella storia quasi quarantennale del premio, che ha avuto una svolta definitiva nel 2014. Ma andiamo per ordine.

Per spiegare in due parole cosa sia questo premio, la definizione più ricorrente – e altrettanto frequentemente criticata -  è “il Nobel per l’architettura”. Ovviamente non è affatto un Nobel ma qualcosa che col premio svedese molto ha in comune e poco ha da spartire. Da statuto, il premio viene attribuito ogni anno ad un architetto vivente “la cui opera realizzata dimostri una combinazione di talento, visione e impegno che sappia produrre contributi consistenti e significativi all’umanità e all’ambiente costruito attraverso l’arte dell’architettura”. Insomma, non un riconoscimento ad un’opera o a un’attività particolare, ma a una persona; e non per le realizzazioni dell’ultimo anno, ma per la produzione nell’arco di una carriera. Per questo, la grande maggioranza degli architetti premiati nei quasi quarant’anni di vita del Pritzker sono professionisti già riconosciuti, grandi autori globalmente noti e lungamente affermati, come Jean Nouvel, Richard Rogers, Zaha Hadid o Frank Gehry; gli italiani premiati fino ad oggi sono ben due, anche se non di recente: Aldo Rossi (1990) e Renzo Piano (1998). 

Poi ci sono le eccezioni, non molte. La premiazione nel 2002 dell’australiano Glenn Murcutt, semisconosciuto alla platea internazionale, appare uno sforzo per dimostrare la superiorità del Pritzker rispetto alle mode e il proprio apprezzamento per il  lavoro del professionista lontano dalla luce dei riflettori. Una decisione che ha il sapore di una scusa, o di uno sfoggio di autorità nel campo, più che di una presa di posizione consapevole cui dare seguito.

E poi, due anni fa, Shigeru Ban, l’architetto giapponese che attraverso soluzioni intelligenti ed eleganti dà una risposta alle esigenze abitative durante crisi umanitarie e dopo disastri naturali. Lontano dai circuiti dei grandi nomi, dalla metà degli anni Novanta Ban crea architettura virtuosa: ripari d’emergenza di tubolari e carta come per il terremoto che ha colpito Haiti nel 2010 e Kobe nel 1995casette di carta per chi è rimasto senza tetto a causa del tifone nelle Filippine nel 2014 e un asilo per i bambini di Sichuan realizzato dopo il terremoto del 2013.

Paper Nursery School, Sichuan, China (2014): Shigeru Ban

E come Murcutt, nel tempio delle star dell’architettura, Ban appare una wild card, così si dice nello sport. Ma diversamente che nello sport, questa non è una semplice chance per affermarsi: è la porta del tempio delle archistar, l’effettiva elezione a leggenda dell’architettura. Dal momento dell’annuncio, il premio definirà l’artista, come accade del resto in altri campi: d’ora in poi l’architetto cileno sarà il Pritzker Prize Alejandro Aravena, come sono il premio Oscar Tom Hanks o il Pulitzer Walt Bogdanich. 

(Quasi) sorprendentemente, Alejandro Aravena quest’anno ha vinto il confronto con nomi decisamente più conosciuti, come David Chipperfield, Daniel Liebskind e Steven Holl, da anni candidato in prima fila. Non che Aravena fosse fino ad oggi uno sconosciuto, vista anche la nomina alla Biennale, ma certamente non rappresentava il candidato ideale delle edizioni di qualche anno precedente a questa. La scelta di premiare un architetto senza una lunga carriera alle spalle, impegnato con progetti come le half-finished homes nella realizzazione di abitazioni a basso costo e forme dell’abitare flessibili nello spazio e nel prezzo, sembra indicare l’intenzione di proseguire nell’aggiornamento dei criteri, verso dunque una nuova figura di architetto: dotato di profonda coscienza sociale, interprete di un’architettura responsabile e sostenibile, rappresentante di nuova generazione. 

Sta di fatto che fino ad oggi il Pritzker non ha brillato per diversità, visto che ha premiato quasi esclusivamente uomini (solo due le donne, Zaha Hadid nel 2004 e Kazumo Sejima nel 2010) europei (sei vincitori sono asiatici, solo tre sudamericani, fra cui Aravena; uno è australiano, Murcutt; nessun africano, nessun indiano, e nessun mediorientale se escludiamo la Hadid, irachena naturalizzata britannica) e, come già detto, con una lunga carriera e molti successi alle spalle; magari autori di architetture di lusso, grattacieli o musei milionari. Non a caso, la fondazione che patrocina il premio è la fondazione Hyatt, collegata alla Global Hyatt Corporation, società di alberghi esclusivi in oltre cinquanta paesi del mondo; e che oggi sente evidentemente il bisogno di rinfrescare un’immagine ormai slegata dai valori emergenti nel mondo contemporaneo. E l’inversione di tendenza del Pritzker sorprende ancor meno.

Chiara Mezzalira

Alejandro Aravena: Quinta Monroy Housing, 2004, Iquique, Chile 

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