SCIENZA E RICERCA

Una pianta Ogm per sconfiggere la siccità

Negli Stati Uniti già qualche anno fa il dipartimento dell’Agricoltura approvava la vendita di una varietà di mais ottenuto con tecniche di ingegneria genetica e capace di resistere alla siccità: il genoma della pianta contiene un gene del Bacillus subtilis (conosciuto anche come bacillo del fieno) che riduce le conseguenze della scarsità d’acqua per la capacità di fotosintesi della pianta. Altri Paesi hanno continuato su questa strada. L’Argentina ha recentemente dato il via all’immissione in commercio di soia resistente agli stress idrici grazie all’impianto di un gene del girasole. In entrambi i casi la direzione è lo sviluppo di colture “ogm” in grado di far fronte alle conseguenze dei cambiamenti climatici in atto, nel caso specifico alla siccità. Ma si tratta realmente di una soluzione praticabile?

Stando al rapporto della Fao The impact of disasters on agriculture and food security negli ultimi 30 anni alluvioni, siccità, tempeste legati ai cambiamenti climatici sono notevolmente aumentati, sia in termini di intensità che di frequenza. Ciò ha provocato perdite ingenti al settore agrario, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo con conseguenze anche di scarsità alimentare. Alluvioni e tempeste colpiscono molti Paesi asiatici. Nel 2010 le alluvioni in Pakistan, ad esempio, hanno colpito 4,5 milioni di lavoratori, due terzi dei quali erano impiegati nel settore agricolo e più del 70% dei contadini ha perso oltre la metà del reddito atteso. La siccità invece è un’emergenza nell’Africa sub-Sahariana e incide pesantemente in un settore, quello agricolo, che costituisce un quarto del Pil. Si è calcolato che, tra il 1991 e il 2013, a seguito di importanti siccità le perdite totali nell’agricoltura e nell’allevamento siano state di circa 31 miliardi di dollari. Un problema quello della siccità che, sebbene particolarmente sentito nei Paesi in via di sviluppo, non è esclusivo di questi.

Poter disporre di piante transgeniche capaci di tollerare lo stress idrico potrebbe dunque costituire una risposta al pericolo siccità. “Le potenzialità esistono – sottolinea Margherita Lucchin, professoressa di genetica agraria all’università di Padova – sono di grande interesse e val ben la pena di continuare su questa strada”. La docente entra nel merito della questione con qualche precisazione: “La resistenza alla siccità è un carattere complesso. Le piante hanno molti meccanismi per tollerare lo stress idrico. Possono modificare il loro apparato radicale, controllare la traspirazione e dunque l’apertura stomatica per limitare la perdita di acqua, possono resistere alla siccità sintetizzando dei composti che danno osmoprotezione (che mettono in atto cioè meccanismi capaci di contrastare gli effetti dannosi degli stress, Ndr). Non è semplice pertanto individuare un gene che dia resistenza alla siccità”. La strategia da seguire consiste nell’individuare tra tutti i geni coinvolti nella tolleranza agli stress idrici, in vie metaboliche differenti, quelli che hanno un ruolo determinante, così da poterli trasferire per ottenere piante transgeniche con una maggiore capacità di resistenza alla siccità. “A livello internazionale – dice Lucchin – qualche prodotto è già in commercio, anche se talvolta con risultati non univoci, e la ricerca sta proseguendo su questa strada. Ben diversa invece è la situazione nel nostro Paese”.

In Italia manca la possibilità di fare ricerca sulle piante transgeniche, sottolinea Lucchin. Si sono raggiunti risultati interessanti nella comprensione dei meccanismi di attivazione e regolazione dei geni coinvolti nella tolleranza agli stress, e nell’innovazione tecnologica. Ma qui ci si ferma. “Il nostro gruppo, nell’ambito di un progetto Ager, ha individuato dei geni coinvolti nel controllo della tolleranza alla siccità nell’apparato radicale e a livello fogliare nella vite. Ora tuttavia manca la possibilità di completare il lavoro”. La docente spiega che vengono condotti esperimenti di trasformazione genetica in laboratorio, ma solo su piante modello e in celle climatiche. Ma è cosa ben diversa osservare il comportamento di una specie in campo.

Nonostante la situazione critica su questo tipo di studi, recentemente  in Italia sembra esserci un’apertura nei confronti della cosiddetta “cisgenesi”. Si tratta sostanzialmente di trasferire geni all’interno della stessa specie, o tra specie tassonomicamente affini. Un’operazione, dunque, che può avvenire in maniera convenzionale anche attraverso l’incrocio. Le tecniche di ingegneria genetica permetterebbero però di agire in maniera più mirata e di accorciare i tempi. Si parte dall’esplorazione del germoplasma di una specie, cioè la biodiversità all’interno di una stessa specie, si individuano le varianti genetiche con la caratteristica di resistenza allo stress idrico (ma anche ad altri tipi di stress di tipo biotico, come nel caso di parassiti, o abiotico, causati da carenze di nutrienti o acqua), si studiano dettagliatamente questi geni per capirne il reale peso sulla manifestazione del carattere a livello fenotipico. A questo punto si può pensare di trasferirli con un approccio di cisgenesi per ottenere varietà più tolleranti agli stress idrici. “Certo – precisa la docente – a questo punto andrebbe modificata anche la legislazione, dato che a livello europeo non si fa differenza tra cisgenesi e transgenesi, dunque non si pone l’accento sul tipo di modifica, ma sulla tecnica con cui la modifica è stata introdotta”.

Accanto a quelle citate esiste un’altra tecnologia molto innovativa e recente, il genome editing, che consiste nel produrre in maniera mirata mutazioni all’interno di un singolo gene, ad esempio “spegnendo” un gene che dà suscettibilità a una qualche tipologia di stress. “Siamo ancora in una fase molto iniziale – sottolinea Lucchin –  ma si tratta di una tecnologia interessante che potrebbe portare a risultati anche in tempi relativamente brevi”. Anche in questo caso però in Italia manca una spinta alla ricerca nel settore.

Monica Panetto 

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