SCIENZA E RICERCA

Il vero killer non è una mucca

Da lunedì mattina a colazione nei bar o in pausa pranzo, non si discute d’altro: quanta carne mangiare, se diventare vegetariani faccia campare più a lungo, se a tavola si mettano abbastanza verdure. La notizia che insaccati, carni lavorate e carni rosse sarebbero cancerogene se non addirittura nocive tanto quanto il fumo di sigaretta e perfino il temuto amianto ha fatto in poche ore il giro del mondo. I titoli di giornali, di riviste e di notiziari hanno ripreso allarmati la notizia della pubblicazione da parte dello IARC (International Agency for Research on Cancer) di una monografia che, a loro dire, individuerebbe in pancetta affumicata, affettati, salami, sfilacci di cavallo, bistecche di vitello e affini i nuovi prediletti alleati del cancro al colon-retto. La fonte citata, lo IARC appunto, è sicuramente di caratura indiscutibile. La prima monografia di questo Centro di ricerca dell’Organizzazione mondiale della sanità fu sulla cancerogenicità dell’amianto. Dal 1971 più di novecento sostanze che presentano un rischio per la salute  dell’uomo in quanto cancerogene sono state scrupolosamente studiate, monitorate. I risultati di rilevanza statistica sono stati pubblicati sulle più importanti riviste scientifiche (lo studio in questione sulle carni rosse e lavorate è apparso il 26 ottobre su The Lancet oncology).

In un mondo occidentale in cui una sanità ricca e scientificamente all’avanguardia ha reso obsolete alcune malattie, ridotte a percentuali minime da vaccini e farmaci, di fatto sconfiggendo tisi, morbillo, scarlattina, pertosse, polio, vaiolo e altri flagelli del ventesimo secolo, il cancro rappresenta la malattia che più incute timore nell’immaginario collettivo. Qualsiasi informazione in materia desta l’attenzione di una fetta considerevole della popolazione mondiale, sempre allarmata dalla possibilità che una sostanza fino a quel momento considerata innocua, per non dire utile ed invitante, riveli la sua vera identità di potenziale causa di neoplasie dell’intestino crasso o di altre patologie tumorali che aggrediscono il nostro organismo.

Proprio per questo l’interpretazione dell’articolo apparso su The Lancet oncology, il modo in cui esso è stato presentato sul piccolo schermo e sulla carta stampa, non solo sono pericolosi ma “rischiano di recare danno ad anni ed anni di campagne di prevenzione sul cancro, fino ad ora focalizzate sui veri killer accertati: fumo, amianto, diossine”, dice il professor Pierfranco Conte, direttore della Divisione oncologia medica 2 allo Iov di Padova. Per Conte si tratta “dell’’ennesimo caso di cattiva informazione scientifica; i paper andrebbero letti con un cervello competente”.

Nella monografia dello IARC grosse novità nell’ambito della cancerogenicità di certi alimenti non ci sono. 

Sin dai primi anni Cinquanta del novecento si osservò che la dieta contribuiva a predisporre a certe patologie piuttosto che ad altre. Nei migranti giapponesi che cercavano fortuna negli Stati Uniti, in fuga da un impero nipponico devastato da anni di guerra e da due bombe atomiche, si registrò un progressivo calo del rischio di tumori tipici del Giappone, come la neoplasia allo stomaco, e una maggiore probabilità di incorrere in altre patologie cancerose legate alla dieta della popolazione del Nord America, tra cui proprio il tumore al colon-retto.

Che le lavorazioni di carne con tecniche quali l’affumicamento o la conservazione in scatola portino alla formazione di idrocarburi aromatici, di per sé cancerogeni, è cosa nota da tempo; da qui a dire che una fiorentina o il prosciutto di Montagnana siano pericolosi come le peggiori diossine, il salto è notevole. Secondo Vincenzo Ciminale, professore di patologia generale e oncologo allo Iov: “Il fatto che lo IARC abbia classificato le carni lavorate come “carcinogeniche per l’uomo” è l’unica vera novità di questa monografia. Anche se i 22 ricercatori dello IARC le hanno incluse nel medesimo gruppo di benzene, amianto e fumo di sigarette, non significa che le carni rosse e lavorate siano la stessa cosa, anzi” . Basta navigare un po’ per il sito dello IARC per capire che è proprio così. I gruppi dentro i quali sono riunite le varie sostanze sono sei, organizzate in uno spettro che va da “carcinogeniche per l’uomo” a “probabilmente non carcinogeniche per l’uomo”. La classificazione valuta l’ammontare di prove che indicano che una sostanza presa in esame sia cancerogena. Non quantifica, invece,  la probabilità che si sviluppi una neoplasia in caso di esposizione alla sostanza incriminata. In parole povere, l’eternit che ha realizzato per anni e anni cemento e amianto ha fatto molti più danni alla salute delle persone che i duecento anni di attività dei fratelli Beretta.

In questa grande e opaca confusione creata dagli allarmismi dei network televisivi le parole del direttore del programma monografie dello IARC, il dottor Kurt Straif sono illuminanti, concise e più che mai necessarie a placare ansie e paure: “ Il rischio di incorrere in cancro colon rettale per consumo di carni lavorate rimane piccolo”.

Il panico attorno alle carni rosse risulta ancora più infondato, se si pensa che esse vengono classificate tra le sostanze per le quali esiste un limitato numero di prove a favore della supposta carcenogenicità. Senza contare che lo stesso paper apparso su The Lancet oncology  riconosce in questo tipo di alimento una presenza significativa di proteine dall’alto valore biologico, di micronutrienti, di vitamina B, di ferro e di zinco. La rivista scientifica indica che si registrano danni al DNA di tipo precanceroso, in soggetti, evidentemente molto amanti della carne, che ne consumano tra i 300 e i 400 grammi al giorno. L’italiano medio si limata a inserire nella sua dieta circa 150 grammi al giorno, secondo i dati FAO (Food and agriculture organization of the United Nations) del 2014. Per la “Fondazione Veronesi”, che cita il secondo rapporto realizzato dal World Cancer Research Fund (WCRF) e intitolato “Cibo, alimentazione, attività fisica e prevenzione del cancro”, il consumo medio di un paio di bistecche equivalente a circa 300 grammi a settimana, è da considerarsi come ragionevolmente non pericoloso.

Per tanto, cerchiamo di fare un respiro profondo e di non gridare:” Al lupo!” a pieni polmoni. Come per ogni alimento, evitare abbuffate settimanali di hot dog, moderare la quantità di prosciutto cotto, resistere una volta in più davanti al secondo piatto settimanale di carpaccio sono banali accorgimenti alla base di una sana dieta. Fumare tabacco per molto tempo non è la stessa cosa che pranzare di tanto in tanto con un panino imbottito e respirare amianto nel campetto di calcio di quartiere è un dramma nemmeno paragonabile alla porchetta mangiata il sabato pomeriggio. In fondo, quando si parla di dieta, il migliore cocktail di molecole antiossidanti, sane, affatto cancerogene e ottime al palato è la cucina che l’Italia esporta da anni nel mondo: la dieta mediterranea.

Tommaso Vezzaro

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012