SOCIETÀ

La “teoria della mente” delle grandi scimmie antropomorfe

Non siamo i soli, noi Homo sapiens, a possedere una “teoria della mente” e a immaginare cosa gli altri pensano o desiderano. Non siamo infatti i soli ad aver superato un “test della falsa credenza”. Anche gli scimpanzé e gli orangutan sanno “leggere nella mente degli altri”. Questo è, almeno, quanto hanno di recente affermato su Science l’antropologo americano Christopher Krupenye della Duke University e il primatologo giapponese Fumihiro Kano dell’università di Kyoto, insieme a due psicologi, Josep Call e Michael Tomasello, oltre che a Satoshi Hirata, direttore del Kumamoto Sanctuary, il primo e unico centro giapponese che ospita scimpanzé e bonobo, al termine di un sofisticato esperimento.

Un esperimento che, secondo il noto etologo e primatologo olandese Frans de Waal, in forze al Living Links Center of the Yerkes National Primate Research Center and Department of Psychology, della Emory University di Atlanta, negli Stati Uniti, abbatte un antico paradigma sulle nostre esclusive capacità cognitive e dimostra che esiste una continuità mentale tra le grandi scimmie antropomorfe e Homo sapiens.

Per poter cogliere in pieno il significato dell’esperimento di Christopher Krupenye e colleghi e del commento di Frans de Waal dobbiamo definire cos’è, per gli psicologi, la “teoria della mente” e in cosa consiste il “test della falsa credenza”.

Un individuo, umano e a questo punto anche non umano, ha una “teoria della mente” se ha la capacità di intuire il pensiero di un altro: ovvero ciò che conosce, intuisce, desidera, intende fare. Io vedo un gelato e vedo la mano di una persona che gli si avvicina e, possedendo una “teoria della mente”, intuisco che l’altro, goloso, sta per afferrare con l’intenzione di mangiare quella prelibatezza.

Una “teoria della mente” abbastanza sofisticata è quella che riesce a intuire anche cosa di sbagliato pensa l’altro. Mettiamo che io stia osservando due ragazzi, Anna e Peppe, una delle quali, Anna ha in mano una cioccolata che chiude in frigo. Peppe esce dalla stanza e Anna, non vista, apre il frigorifero, prende la cioccolata e la mette nella propria borsa. Poco dopo Peppe rientra e io mi chiedo cosa farà. Se ho una buona “teoria della mente” so che Peppe non sa e, dunque, mi aspetto che Peppe vada a cercare la cioccolata in frigo, in base alla “falsa credenza” che la delizia sia ancora lì. Se non ho una “teoria della mente” abbastanza sviluppata, mi aspetto che Peppe vada a cercare la cioccolata lì dov’è, nella borsa di Anna, ma dove non può sapere che stia.

Ebbene, da sempre crediamo che solo Homo sapiens, tra gli esseri viventi sul pianeta, abbiano la capacità di intuire cosa gli altri pensano e di superare il “test della falsa credenza”. In realtà neppure tutti gli esseri umani. Abbiamo evidenze empiriche, infatti, che solo dopo aver superato i quattro anni di età i sapiens riescono a superare il “test della falsa credenza” e di indicare correttamente cosa Peppe, alla ricerca della cioccolata, farà. Recenti esperimenti hanno abbassato la soglia dell’età a 24 mesi: bambini di due anni sanno intuire cosa Peppe farà.

Sebbene da anni si cercasse di verificare se anche animali non umani fossero dotati di una “teoria della mente”, finora non era stata riscontrata alcuna evidenza empirica. Anzi, numerosi test realizzati con grandi scimmie antropomorfe – gli animali più vicini filogeneticamente a Homo sapiens – avevano dato risultati negativi. Scimpanzé e orangutan, per esempio, non avevano mai mostrato di possedere una “teoria della mente”.

Ma, come sostiene Frans de Waal, l’assenza di un’evidenza non costituisce l’evidenza di un’assenza. Occorre indagare meglio, si sono detti Christopher Krupenye e Fumihiro Kano, perché non sappiamo se la mancanza di evidenza di questa capacità cognitiva tra le grandi antropomorfe sia dovuta a una mancanza reale o, invece, alla nostra umana capacità di rilevarne la presenza.

Ecco, dunque, che i due, in collaborazione con Josep Call, Michael Tomasello e Satoshi Hirata, hanno organizzato un esperimento semplice e, al tempo stesso, molto sofisticato. Hanno proposto a 30 grandi antropomorfe ­– 14 scimpanzé comuni, 9 bonobo e 7 orangtan – un filmato dove si vede King Kong, un attore travestito da scimmia antropomorfa, rubare una pietra a un uomo e nasconderla in una scatola. Poi King Kong caccia l’uomo che esce dalla scena. Accertatosi di non essere visto, King Kong prende la pietra rubata e la nasconde in una seconda scatola, infine la prende in mano e la porta via dalla scena. A questo punto l’uomo derubato rientra per riprendersi la sua pietra. Dove l’andrà a cercare?

Le 30 grandi antropomorfe sanno che la pietra non c’è più. Ma sanno anche che l’uomo non lo sa. Così – registrati da una telecamera all’infrarosso – in 22 mostrano chiaramente di attendersi che l’uomo vada a cercare la sua pietra nella prima scatola. Un analogo esperimento, con un altro filmato, condotto su 40 grandi antropomorfe, ha mostrato risultati analoghi.

Le grandi scimmie antropomorfe hanno superato il “test della falsa credenza” e hanno mostrato di possedere una “teoria della mente”. Di qui le due puntuali considerazioni di Frans de Waal: 1) la “teoria della mente”, ovvero la capacità di leggere nella mente degli altri, è il frutto dell’evoluzione biologica che ha caratterizzato gli Hominidae (la famiglia che raggruppa le grandi scimmie antropomorfe, uomo incluso) e la loro abitudine a formare grandi gruppi. Saper leggere nella mente altrui è stato un grosso vantaggio evolutivo in animali così sociali. Senza questa capacità, i gruppi sarebbero stati piuttosto instabili; 2) le capacità cognitive non rispondono a una logica binaria si/no; o ci sono o non ci sono. Ma piuttosto a una logica modulare e probabilmente combinatoria: sono il frutto dell’aggiunta o della sottrazione di piccoli elementi, ciascuno dei quali è in possesso di diverse specie. Cosicché, conclude de Waal, la “teoria della mente” è, con ogni probabilità, parte di un quadro più esteso che include l’empatia, le connessioni sociali e le modalità con cui i corpi si relazionano ad altri corpi.

Ancora una volta, dunque, le osservazioni empiriche dimostrano che l’uomo, con tutte le sue capacità cognitive, non è una singolarità, ma appartiene pienamente alla storia evolutiva della vita sulla Terra.

Pietro Greco

 

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