SOCIETÀ

Gli anni Sessanta sono ancora tra noi

Guy Debord pubblicò La società dello spettacolo nel 1967 e non poteva quindi conoscere gli Weathermen, una fazione dell'associazione universitaria americana Students for a Democratic Society che si formò nel 1969. Sarebbe però stato entusiasta di analizzare un gruppo che produceva manifesti politici di 80 pagine in perfetto gergo marxista-leninista ma al tempo stesso riscriveva i testi del musical West Side Story in chiave terzomondista. Se cercate su YouTube una qualunque performance di “Maria”, la più sciropposa canzone degli ultimi 100 anni potrete immaginare l’effetto che faceva riscritta in questo modo:

The most beautiful sound I ever heard

Kim Il Sung

(…)

I’ve just met a Marxist-Leninist named Kim Il Sung

And suddenly his line

Seems so correct and fine

To me

Kim Il Sung

Say it soft and there’s rice fields flowing

Say it loud and there’s people’s war growing

Kim Il Sung

I’ll never stop saying Kim Il Sung

Gli Weathermen avevano riscritto anche l’inno ufficiale del Natale in famiglia americano, White Christmas e avevano battezzato la loro direzione nazionale “Weatherbureau” (ufficio meteorologico) ispirandosi a una canzone di Bob Dylan, Subterranean Homesick Blues che, riferendosi alla polizia, ammonisce i manifestanti:

Better stay away from those

That carry around a fire hose

Keep a clean nose

Watch the plain clothes

You don’t need a weatherman

To know which way the wind blows

“Gli Weathermen – ha scritto il sociologo Todd Gitlin- non facevano proseliti grazie ai loro argomenti ma grazie al loro stile. La loro verve era innegabile. Erano belli. Erano spavaldi. Trasmettevano fiducia in se stessi come se ce l’avessero dalla nascita”.

La storia del gruppo si può riassumere in breve: nell’estate del 1969, con l’opposizione alla guerra in Vietnam allo zenith, gli Weathermen escono dalla SDS e formano una galassia di collettivi dediti ad azioni militanti ma sostanzialmente non violente. È solo con l’intensificarsi dei bombardamenti che l’organizzazione decide di “rispondere colpo su colpo” e, nel 1970, tre dei suoi militanti, Diana Oughton, la fidanzata di Ayers, Terry Robbins, il suo migliore amico, e Ted Gold  muoiono in un’esplosione mentre preparavano degli esplosivi in un seminterrato di New York. Messi sulla lista dei più pericolosi ricercati dall’Fbi, gli Weatherman passano alla clandestinità sotto la direzione di Bernardine Dohrn e Ayers.

Al contrario di gruppi europei come la Rote Armee Fraktion, gli Weathermen sembra non siano mai stati interessati a colpire la borghesia in quanto tale e le loro capacità operative erano ben lungi dal permettere operazioni contro i politici come quelle compiute dalle Brigate Rosse. Nascevano all’interno del movimento contro la guerra e si dedicarono ad azioni dimostrative, come attacchi contro i centri di reclutamento, stazioni di polizia, una bomba contro il Pentagono che non farà vittime. Lentamente si dissolvono e, nel 1980, Dohrn si costituirà, facendo peraltro solo un breve periodo di carcere.

Gli Weathermen erano appassionati di Bonnie and Clide, di Butch Cassidy, di LSD e di bombe (che dovevano danneggiare solo le proprietà governative). Carl Oglesby, che veniva da una famiglia operaia ed era di gran lunga il più saggio dei leader studenteschi degli anni Sessanta, disse di loro: “Sapevano di essere pazzi. Terry [Robbins] e Bill [Ayers] avevano l’atteggiamento di Butch Cassidy e Sundance [Kid]: erano baciati dalla fortuna, protetti da un incantesimo, sarebbero morti giovani e vissuti per sempre”.

 Arriva quindi a proposito in traduzione italiana Fugitive Days di Bill Ayers (DeriveApprodi, 2016, € 22). Sono 336 pagine e sembrano scritte per confermare e ampliare il giudizio di Oglesby: “Il nostro coraggio e la nostra determinazione sembrano adesso una cosa meravigliosa. Ci prendevamo davvero sul serio – va bene, forse un po’ troppo sul serio, eravamo in parte sinceri e troppo ostinati – ma avvertivamo, personalmente e con chiarezza, l’intero peso della catastrofe che si stava verificando davanti ai nostri occhi. Il mondo era in fiamme e il piccolo Vietnam ne sosteneva il peso maggiore, mentre il razzismo in casa nostra eguagliava la maggior parte degli orrori perpetrati nel Terzo Mondo. La vita stessa sembrava in grave pericolo e il mondo intero – armato fino ai denti con ordigni nucleari e governato dai padroni della guerra – correva a grande velocità verso l’oblio. Il fatto terribile e inesplicabile era che spettava proprio a noi salvare tutti da questa situazione. Immaginavamo che la salvezza dell’umanità stesse tutta nelle mani dei giovani”.

Se uno legge a mente fredda frasi come “spettava proprio a noi salvare tutti da questa situazione” capisce immediatamente che devono provenire da un musical come Les Misérables, oppure da una setta. Se provengono da una setta sono la conferma di un fenomeno ampiamente studiato e cioè le distorsioni cognitive che affliggono la mente dei membri di piccoli gruppi: una visione catastrofista della realtà (“il mondo era in fiamme”), un senso di impotenza (“la vita stessa sembrava in grave pericolo”) che si accompagna a fantasie di onnipotenza (“spettava proprio a noi salvare tutti da questa situazione” e “dubitavamo che molti di noi sarebbero sopravvissuti, ma speravamo che la storia ci avrebbe annoverato fra i combattenti per la libertà”).

In un altro passo del libro, Ayers certifica un’altra caratteristica del pensiero di setta: la convinzione di appartenere a un gruppo di eletti, di puri che grazie al loro sacrificio saranno salvati: “Nei collettivi si mangiava con semplicità: fiocchi d’avena e caffè forte per cominciare, poi riso e fagioli con broccoli e carote. Il formaggio era una rara prelibatezza, la carne un ricordo ormai lontano. Droga e alcol erano proibiti, anche se molti di noi prendevano anfetamine. La nostra uniforme era semplice…”. Sarebbe quindi tentante liquidare il tutto come materia per gli psicologi.

In realtà, il libro di Ayers (che al contrario di Terry Robbins non è “morto giovane”) conferma la mentalità degli Weathermen (un gruppo mai composto da più di qualche dozzina di militanti) ma apre anche una finestra sul 1968 americano: non a caso due terzi della narrazione riguardano il periodo 1965-1970 e sono molto più interessanti della parte che riguarda la clandestinità. Ci mostrano un movimento che trae la sua forza dall’indignazione, da un fortissimo senso morale, da un’opposizione senza compromessi alla guerra.

Erano gli anni Sessanta, quelli che Todd Gitlin ha battezzato “Years of Hope, Days of Rage” e la cui eco ancora risuona tra noi.

Fabrizio Tonello

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