SCIENZA E RICERCA

Antibiotici, il pericolo arriva dagli allevamenti

Uno degli ultimi moniti risale a poche settimane fa e proviene dal Regno Unito: è necessario diminuire a livello mondiale l’uso eccessivo di antibiotici negli animali, soprattutto nel settore agricolo. E ciò anche a fronte della relazione che sembra esistere tra questa pratica e i fenomeni di antibioticoresistenza nell’uomo. A sottolinearlo è uno studio, commissionato dal primo ministro britannico e condotto dal Review on Antimicrobial Resistance (Antimicrobials in agriculture and the environment: reducing unnecessary use and waste), che prende in esame l’utilizzo degli antimicrobici negli allevamenti e nei raccolti. Nelle colture, tuttavia, non si tratta di una priorità dato che la quantità usata è molto più bassa rispetto a quella utilizzata nel bestiame, con stime che vanno dallo 0,2% al 0,4% del consumo totale del comparto agricolo. 

A preoccupare piuttosto è l’uso di questi farmaci negli animali da allevamento. Secondo i dati diffusi recentemente dalla Food and Drug Administration negli Stati Uniti le vendite interne e la distribuzione di antimicrobici autorizzati negli animali da produzione alimentare sono aumentati del 22% tra il 2009 e il 2014. Allargando l’orizzonte, la situazione sembra non essere più confortante. In uno studio pubblicato su Pnas Thomas P. Van Boeckel e il suo gruppo, pur usando cautela e ammettendo la scarsità di dati disponibili, stimano infatti che a livello mondiale tra il 2010 e il 2030 il consumo globale di antimicrobici aumenterà del 67%, passando da 63.151 (+/- 1560 tonnellate) a 105.596 tonnellate (+/- 3.605). Nel 2010 i cinque Paesi con il maggior consumo di antibiotici negli animali da produzione alimentare erano la Cina (23%), gli Stati Uniti (13%), il Brasile (9%), l’India (3%) e la Germania (3%). Secondo gli autori l’aumento è dovuto per i due terzi (66%) al numero sempre crescente di animali allevati per produzione alimentare e per un terzo (34%) alla graduale sostituzione, soprattutto negli Stati a medio reddito, degli attuali sistemi di allevamento con produzioni intensive su larga scala. Si suppone che in Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, l'aumento del consumo di antimicrobici sarà del 99%. 

Esistono tuttavia importanti disomogeneità da Paese a Paese. “La vendita di antibiotici ad uso veterinario (incluso il suo utilizzo negli allevamenti Ndr) – precisa Marco Martini, docente del dipartimento di Medicina animale, produzioni e salute dell’università di Padova – è in calo in Europa grazie alle politiche sanitarie adottate in diversi Paesi e alla responsabilizzazione degli operatori del settore”. Va detto ad esempio che già nel 2006 l’Unione Europea ha bandito l’uso di antibiotici come promotori di crescita negli animali (uno degli impieghi, discussi, che se ne fa accanto a quello a scopo terapeutico e di profilassi) e questo ha comportato una riduzione massiccia del loro impiego. “Ad essere in aumento tuttavia – continua Martini – è l’antibioticoresistenza. E proprio la presa di coscienza da parte di allevatori, veterinari, politici che questa, non solo negli animali ma anche nell’uomo, ha una sua forte base in ambito veterinario, zootecnico in particolare, ha portato all’adozione di contromisure”. Non manca tuttavia chi ritiene che, nonostante i sospetti, non sia stata scientificamente dimostrata con certezza questa relazione. Eppure anche i risultati del rapporto britannico sembrano andare in altra direzione. Dei 139 articoli scientifici condotti da università, sui 192 presi in esame, solo sette (il 5%) negano l’esistenza di un qualsiasi rapporto tra impiego di antibiotici negli animali e antibioticoresistenza nell’uomo, mentre 100 (il 72%) sostengono il contrario (32 non prendono una posizione precisa). Dei rimanenti 53 invece, firmati da autori appartenenti al governo o all’industria, 14 ammettono che esista un legame, otto lo negano.

Dato il calo delle vendite in Europa, però, perché la resistenza agli antibiotici continua a crescere? Martini spiega innanzitutto che oggi cominciano a esserci sistemi di sorveglianza, inesistenti fino a una decina di anni fa, che danno una dimensione più precisa del problema. E va considerato anche che una volta che il fenomeno è innescato è difficile da controllare e da ridurre in maniera immediata e radicale. Ciò perché i caratteri di antibioticoresistenza dei batteri si trasmettono sia per linee verticali, cioè dalla cellula madre mutata, sia per via orizzontale, quindi scambiando materiale genetico con altre cellule anche di specie batteriche diverse. 

Certamente esiste tutta una normativa a tutela del consumatore che limita il fenomeno. Come i “tempi di sospensione”, ad esempio, cioè l’arco di tempo che deve necessariamente intercorrere tra l’interruzione di eventuali trattamenti antibiotici e la macellazione dell’animale, che fa i conti con il tempo di permanenza delle molecole nell’organismo. “Ciò non significa tuttavia – osserva Martini – che l’uso massiccio di antibiotici non abbia ricadute sul consumatore. Si pensi ai reflui zootecnici”. E al conseguente inquinamento ambientale: i batteri vengono eliminati dagli animali attraverso le feci e permangono nell’ambiente. Si possono ritrovare negli ortaggi o nella frutta concimata o annaffiata con acqua contenente residui di reflui zootecnici e questo potenzialmente può comportare un passaggio di microrganismi con caratteri di antibioticoresistenza attraverso la via alimentare all’uomo. Non si deve trascurare poi, sebbene meno frequente, il contatto diretto tra animale e uomo che avviene ad esempio quando in un allevamento si toccano gli animali o l’ambiente in cui vivono e inavvertitamente si portano le mani alla bocca: anche in questo modo infatti si può favorire la trasmissione di batteri con caratteri di antibioticoresistenza. 

“Negli ultimi anni – argomenta Martini – si è assistito alla presa di coscienza del problema e all’adozione di misure sicuramente efficaci, ma evidentemente questo non basta e bisogna andare avanti ulteriormente su questa strada”. A fronte di Paesi come la Danimarca che ha drasticamente limitato i livelli di utilizzo di antibiotici in ambito zootecnico, ve ne sono altri in cui rimane ancora lavoro da fare. L’Italia ad esempio, dopo Cipro e la Spagna, rimane uno degli Stati in cui è maggiore l’uso di antibiotici in ambito veterinario. L’Europa, si legge nel rapporto britannico, dovrebbe ridurre l’uso di antibiotici di circa due terzi ancora, per 18 dei 26 Paesi dell’Unione di cui si possiedono i dati. 

Come fare? Tre sono le vie suggerite dagli inglesi: stabilire degli obiettivi condivisi in termini di quantità di farmaco da utilizzare, migliorare i sistemi di gestione dei rifiuti che derivano dalla produzione di antimicrobici rilasciati nell’ambiente, infine migliorare i sistemi di sorveglianza.  

Monica Panetto

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